“Le
nostre istituzioni sono adeguate per affrontare le sfide
poste dalla ricerca scientifica e dall’innovazione
tecnologica? I cittadini sono sufficientemente equipaggiati
per poterne discutere? Quali scenari ci attendono per
il futuro? […] Come possiamo conciliare la sempre
più frequente necessità di prendere decisioni
su temi a elevata complessità tecnicoscientifica
senza sacrificare le esigenza della partecipazione democratica?”.
A queste complesse questioni il sociologo della scienza
Massimiano Bucchi risponde in un prezioso saggio, Scegliere
il mondo che vogliamo. Cittadini, politica, tecnoscienza.
E lo fa incentrando il volume sulla critica ad una perniciosa
visione della scienza e dei rapporti tra gli esperti
e la società, visione che definisce “tecnocratica”.
In cosa consiste l’impostazione tecnocratica
(che secondo l’autore è non unicamente
prerogativa degli scienziati, perché seduce anche
politici e cittadini in quanto facile soluzione a problemi
complessi)? Ebbene, secondo tale approccio, i cittadini
verserebbero in un grave deficit di informazione scientifica,
deficit che ha origine nei pregiudizi crociani, cattolici
e marxiani verso la scienza. L’unico modo di far
fronte a tale lacuna consisterebbe nel delegare le decisioni
su temi “caldi” agli esperti, e contemporaneamente
attivare iniziative che colmino il divario tra scienziati
e cittadini.
Questa visione è tuttavia, secondo l’autore,
illusoria e al tempo stesso pericolosa. Essa è
infatti caratterizzata sia da un profondo paternalismo,
insito nell’idea secondo cui occorre sintonizzare
i cittadini sui giudizi di valore degli esperti, sia
dalla convinzione che quanto più si comunica
la scienza tanto più si alza il livello di consapevolezza,
in una sorta di modello pavloviano stimolo-risposta
“che susciterebbe orrore e preoccupazione in qualunque
altro settore (politica, religione), diverso dalla scienza”.
Va respinta insomma l’immagine “disciplinare”
di una scienza oggettiva calata dall’alto, che
si accompagna alla concezione dell’informazione
non come fine o diritto civico, ma come mezzo per far
cambiare idea alle persone (ma per fortuna, sottolinea
l’autore, ciò non è poi così
facile!). Ovviamente non è in discussione il
diritto degli scienziati di portare il proprio punto
di vista nell’arena pubblica, ma, appunto, essi
devono accettare che esso sia “uno tra i tanti
punti di vista del discorso pubblico, di una comunicazione
multidirezionale e aperta, di una scena pubblica caratterizzata
da conflitti”.
L’opzione tecnocratica va superata anche per una
serie di altre considerazioni. Essa concepisce in maniera
anacronistica i rapporti tra scienza, politica e società,
ignorando come queste tre dimensioni, in particolare
la prima e la terza, siano drasticamente mutate.
Dalla big science alla scienza post-accademica
Se pensiamo allo scienziato per antonomasia, ci viene
subito in mente l’immagine sorridente di Einstein
con la lingua di fuori; ma in realtà, il tipo
di scienza associato al grande fisico ha subito una
vera rivoluzione. Alla big science (in cui
la fisica gioca un ruolo di primo piano) caratteristica
dei paesi industrializzati tra le due guerre, fondata
sulla centralità di grandi istituzioni pubbliche
e sulla relazione tra la politica e un gruppo di esperti,
è subentrata gradualmente una scienza caratterizzata
da un generale mutamento delle fonti di finanziamento,
da un acceso dibattito sulla brevettabilità dei
risultati scientifici e da una prepotente ascesa delle
scienze della vita. Inoltre, per questo nuovo tipo di
scienza post-accademica i media diventano interlocutori
centrali e il contatto con essi viene attivamente ricercato.
Ancora, questo nuovo approccio mette in discussione
confini antichi, “in primo luogo tra ricerca di
base, ricerca applicata e la loro implementazione tecnologica”.
Il laboratorio si smaterializza in una serie connessioni
e reti sparse per il mondo.
Da questo punto di vista, è sempre più
difficile parlare di “comunità scientifica”,
tipica della big science, caratterizzata dai
due pilastri del disinteresse – che ora viene
messo in discussione a causa del legame con lo sfruttamento
commerciale – e dell’ethos condiviso di
matrice protestante, cui subentra un frastagliamento
dei codici normativi e valoriali, ai quali i vari comitati
di bioetica non possono costituire una risposta, non
essendo altro che una variante etica della proposta
tecnocratica.
Alla perdita di una morale univoca e super partes
si accompagna quella di una presunta imparzialità
della scienza stessa. Che i risultati della ricerca
e della tecnologia siano infatti moralmente neutrali
(e che ciò che li renderebbe buoni o cattivi
sia l’uso che se ne fa) è un altro dei
miti, resistenti, da decostruire: le questioni tecnoscientifiche
assomigliano sempre più ad oggetti ibridi “in
cui si compenetrano dati scientifici, interessi economici,
priorità sociali, valori morali e culturali”.
L’autore critica la credenza del “doppio
smistamento” dei problemi – alla politica
le questioni politiche, alla scienza le questioni scientifiche.
Ora, infatti “i Parlamenti si riempiono di embrioni”,
così come i ricercatori scendono in piazza, contribuendo
così a demolire ulteriormente la loro immagine
di esperti neutrali.
Una scossa per la politica
Ai drammatici mutamenti della scienza fa da controcanto
un radicale cambiamento sociale, che i sociologi della
globalizzazione hanno documentato con grande finezza:
aumento delle incertezze, crescente invadenza di una
razionalità economica, ridefinizione della dimensione
spazio temporale. In questa cornice, un aspetto significativo
in relazione ai mutamenti della scienza è costituito
dalla nascita di nuovi movimenti sociali, che chiedono
a gran voce di partecipare e che spesso contribuiscono
a co-produrre scienza (si pensi alle associazioni dei
malati), anche se talvolta mantengono una relazione
ambivalente verso la ricerca e la tecnica – individuate
a volte come il nemico da combattere (esempio paradigmatico,
quello degli Ogm) a volte come risorsa per l’identità
e l’azione.
Cambiamenti della scienza e metamorfosi sociali mettono
in ogni caso in luce una grave inadeguatezza della tradizionali
forme di rappresentanza democratica e di decisione politica.
Trasformazioni economiche e scientifiche vanno invece,
secondo l’autore, riportate nell’alveo stesso
della democrazia. Ma in che modo?
L’autore disegna una mappa della forme di partecipazione
pubblica in ambito scientifico che include sia i modelli
più specificamente deliberativi di partecipazione
su temi controversi sperimentati nei paesi occidentali
(dal referendum, al focus group, alle consensus
conferences) e promossi da specifiche organizzazioni,
sia le forme di partecipazione più spontanea,
come mobilitazioni e proteste, associazioni di pazienti,
ricerche community-based. Queste diverse forme
di partecipazione vengono suddivise in base a due criteri:
il grado di spontaneità e la bassa o alta intensità
di partecipazione nel processo di costruzione della
conoscenza. In secondo luogo, Bucchi si focalizza sulle
iniziative più strettamente deliberative, che
hanno il difetto di non essere spontanee ma hanno un’alta
intensità partecipativa. Ebbene, secondo l’autore
queste forme possono essere solo una parziale risposta
ai dilemmi della partecipazione democratica. Innanzitutto,
la riuscita dipende dalle issues in gioco e
dalla loro capacità di integrarsi con i processi
decisionali tradizionali e di coinvolgere i cittadini.
Ma soprattutto, è illusorio pretendere di risolvere
le impasse della scienza mettendo intorno a
un tavolo cittadini ed esperti, perché in tal
modo si sostituirebbe “ai feticci della tecnocrazia
quello di una capacità della discussione di portare
a un accordo tra le parti”. Altri equivoci pesano
sull’efficacia delle iniziative deliberative:
la credenza che si possano appianare le dispute tra
i soggetti coinvolti, quando la democrazia è
fatta di conflitti e di decisioni che di rado accontentano
tutti; l’idea che alle sfide della tecnoscienza
si possa rispondere ampliando la base dei soggetti coinvolti.
La verità è che “non bastano quattro
chiacchiere tra cittadini ed esperti, e in ogni caso
il dialogo coi cittadini non è una sorta di lubrificante
sociale cui ricorrere quando i meccanismi decisionali
si inceppano, ma un elemento che ha senso solo se è
incorporato in modo stabile anche in tempo di pace”.
In altre parole, argomenta l’autore, “non
si tratta di abbellire, o di dare una patente di sostenibilità
sociale, ma di portare la partecipazione pubblica e
l’aperto confronto democratico sin nelle fasi
iniziali di definizione dell’agenda della tecnoscienza”.
Il dibattito non è un’ospite da invitare
all’ultimo momento, tanto più che ogni
tecnologia oggi incorpora già una visione del
mondo. Portare la democrazia nel cuore della tecnoscienza
(e viceversa) fa sì che siamo obbligati a interrogarci
su quale visione del mondo vogliamo e possiamo realizzare.
È qui allora che entra in gioco la politica,
chiamata direttamente in causa dai dilemmi della tecnoscienza:
“E se la sfida delle decisioni complesse e la
stagione della ‘riproducibilità tecnica
della vita’ rappresentasse, invece che un problema
da tamponare, un’opportunità di riscoprire
la politica e la democrazia non solo in senso procedurale
ma come confronto pieno e aperto tra visioni del mondo
e dell’uomo?”. Solo la politica può,
infatti, secondo l’autore, far fronte alla pluralità
di pareri e valori, rispondendo alla domanda cruciale:
Perché stiamo facendo questo piuttosto che quest’altro?
E lo può fare laicamente, etsi veritatis
non daretur, senza deleghe alla religione o alla
scienza.
Massimiano Bucchi
Scegliere il mondo che vogliamo.
Cittadini, politica, tecnoscienza,
Il Mulino 2006, pagine 190, euro 12.
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