L’espressione “democrazia
deliberativa” si riferisce, in linea generale,
a un processo basato sulla discussione pubblica tra
individui liberi ed eguali, da cui trae la propria legittimità.
“Deliberazione” va quindi intesa non nel
senso di “decisione”, ma del “dialogo”
o “discussione” che precede la decisione.
La deliberazione politica si distingue da altre forme
di deliberazione, come quella scientifica, per essere
più direttamente connessa a decisioni vincolanti
per una comunità. Tali decisioni sono tuttavia
intese come l’esito di una discussione tra i soggetti
interessati. In questo senso, il concetto ha un innegabile
contenuto normativo: prende posizione sul problema della
legittimità democratica. Vedremo però
che tale contenuto assume di volta in volta specificazioni
diverse.
La riflessione su un paradigma democratico fondato sulla
discussione pubblica e critico nei confronti di orientamenti
teorici e prassi dominanti, centrate su elitismo (restrizione
del confronto a gruppi ristretti) e aggregazione (volontà
collettiva quale somma di espressioni individuali di
opinione), inizia a svilupparsi fra gli anni Ottanta
e Novanta del xx secolo. Nello stesso periodo vedono
la luce anche importanti modelli ed esperienze di deliberazione
pubblica.
Un’idea antica come la democrazia
C’è chi propone una data di nascita
precisa, almeno terminologica. L’espressione
“democrazia deliberativa” sarebbe contenuta
per la prima volta in un saggio dello studioso americano
Joseph Bessette (Deliberative democracy. Tha Majority
Principle in Repubblican Government,
pubblicato nel 1980 dall’American Enterprise
Insitute nella raccolta di saggi dal titolo How
Democratic is the Costitution?).
Alcuni anni più tardi questa concezione della
democrazia è considerata già “matura”,
almeno nel senso che il dibattito ha acquisito uno
spessore qualitativo e quantitativo notevole, come
varie antologie stanno a dimostrare. In realtà,
come vedremo, le questioni tuttora aperte sono molte:
la democrazia deliberativa è ancora giovane
e sta muovendo i primi passi.
Se di discussione tra cittadini si tratta, le origini
della democrazia deliberativa possono ovviamente essere
fatte risalire molto indietro nel tempo. Quanto? Dipende
da inclinazioni e interessi di chi parla. C’è
chi cita come referenti più importanti Jürgen
Habermas e John Rawls; chi menziona antecedenti quali
John Dewey e Hannah Arendt; chi risale più
indietro nel tempo, evocando John Stuart Mill, Jean-Jacques
Rousseau, o addirittura Aristotele e la democrazia
ateniese. In questo senso, “l’idea di
democrazia deliberativa e la sua applicazione pratica
sono antiche quanto la democrazia stessa” (ha
scritto Jon Elster nella sua introduzione a Deliberative
democracy, 1998). A fornire uno spunto forse
determinante per una svolta nella riflessione teorica
e nella sperimentazione empirica è stata in
ogni caso la percezione di uno stato di crisi profonda
delle istituzioni e della prassi democratica.
Crisi di cui si parla da almeno un trentennio. Per
qualcuno, a dire il vero, nemmeno nei vent’anni
successivi al secondo conflitto mondiale il consenso
popolare verso le forme assunte dalla democrazia sarebbe
stato unanime e convinto come a volte lo si è
voluto dipingere. Anche costoro, tuttavia, constatano
un crescente scetticismo e distacco dei cittadini
nei confronti di quel “paradigma democratico”
elaborato tra gli anni Venti e Quaranta del xx secolo
e fondato sul sistema dei partiti e la progressiva
estensione della cittadinanza “sociale”.
L’origine della crisi è di solito indicata
nell’incapacità delle democrazie di far
fronte alla crescita delle aspettative che un numero
sempre più ampio di individui nutre nei confronti
dell’accesso a risorse materiali e simboliche;
crescita accompagnata da una rottura dell’ordine
sociale basato su autorità e status e dalla
politicizzazione di ambiti di vita sempre più
estesi a seguito dell’intervento statale.
Troppo successo,
la democrazia è in crisi
Le democrazie sarebbero insomma in affanno non per
poco ma per troppo successo. Si è parlato al
riguardo di crisi di sovraccarico o di legittimazione.
Letture di questo genere sono state proposte, ad esempio,
dai teorici della “società del rischio”
(Beck e Giddens): problemi ambientali e tecnologici
e relativa crisi istituzionale derivano dall’applicazione
di tecnologie sempre più potenti in un contesto
sociale in cui l’individuo è sempre più
autonomo e consapevole. Analogamente, la crisi della
sfera pubblica borghese deriva dall’applicazione
sempre più estesa dei principi universalistici
su cui si fonda e grazie a cui emergono richieste
volte al riconoscimento di differenze culturali, etniche,
religiose o di genere che ne minano le fondamenta.
“Proprio grazie alla riuscita inclusione di
un numero crescente di cittadini (…) i conflitti
inerenti a un ampio pluralismo sfidano il quadro istituzionale
che ha reso possibile tale inclusione” (Bohman
J., Reflexive Public Deliberation, in “Philosophy
& Social Criticism”, 29, 1, 2003,).
Nei primi anni Settanta si profila un esito “partecipazionista”
della crisi, teorizzato dagli intellettuali, sostenuto
da imponenti movimenti sociali e accolto in Italia
da alcune riforme amministrative. Tale esito si rivela
però effimero. Le ragioni sono molteplici:
la contrapposizione violenta di una parte del movimento
verso le istituzioni; la crisi fiscale del welfare
state che erode le risorse necessarie a una ulteriore
estensione dei diritti; la rivendicazione delle differenze,
difficilmente declinabile nel lessico tradizionale
delle disuguaglianze economiche e politiche; l’emergere
del modello industriale “postfordista”,
insofferente a vincoli e concertazioni.
Tre strade
postdemocratiche
La vicenda prende così una piega diversa.
Entrano in campo i governi conservatori Reagan e Thatcher
ed emerge quello che Mastropaolo chiama paradigma
“postdemocratico”, largamente coincidente
con la prospettiva della public choice. Quest’ultima
si riallaccia alla componente del pensiero liberale
più individualista e critica nei confronti
dello Stato e ha quali punti di riferimento autori
pur diversi tra loro come Schumpeter, Downs, Buchanan,
Riker, Hayek. Tale paradigma si muove lungo tre direttrici.
La prima è quella elitista: la democrazia
è essenzialmente un metodo per la selezione
della leadership politica, quand’anche ciò
avvenga in un contesto pluralistico.
La seconda direttrice è tecnocratica:
la crescente complessità e tecnicità
delle questioni impone un passo indietro dei politici
a favore degli specialisti, chiamati a definire soluzioni
“obiettivamente” efficienti. È
l’estremizzazione della de-politicizzazione
della democrazia a suo tempo denunciata da Marcuse.
La terza è quella strategica: la politica
consiste nella competizione per il soddisfacimento
di interessi di parte. Il mercato diventa qualcosa
di più di una metafora descrittiva, come ancora
in Schumpeter. È il modello cui ispirarsi e
il meccanismo di regolazione cui lasciare lo spazio
prevalente. Più precisamente, come nota Beetham,
la connessione tra democrazia e mercato risulta articolata
secondo quattro punti di vista o “teoremi”:
Il “teorema della necessità”
definisce il mercato come un luogo essenziale della
libertà individuale. Il “teorema dell’analogia”
plaude allo spontaneo meccanismo di incentivi e disincentivi
proprio del mercato per riconciliare l’interesse
individuale con il bene collettivo. Il “teorema
della superiorità” enfatizza la sovranità
del consumatore e la capacità del mercato di
rispondere alla domanda popolare. Il “teorema
della menomazione” sottolinea che (…)
la democrazia politica mette a repentaglio o fuori
uso le operazioni del libero mercato [a causa di un
sovraccarico di richieste] (Beetham D., Four
theoremes about the market and Democracy, 1993).
Tante domande,
poche risposte
L’emergere della democrazia deliberativa può
essere allora visto come una risposta al “crescente
malessere suscitato dalla messa in opera del paradigma
postdemocratico” (Mastropaolo). Messa in opera
che avviene nei vari paesi in tempi, con intensità
e secondo modalità diverse – nell’Europa
continentale gli assetti neocorporativi e di welfare
resistono più a lungo, per cedere comunque
il passo nel corso degli anni Novanta a riforme di
marca neoliberista – ma i cui esiti complessivi
sono forse riassumibili in due parole: governance
e globalizzazione. Le ragioni di tale malessere sono
facilmente comprensibili. Come abbiamo visto c’è
ampio consenso sul fatto che la crisi delle democrazie
sia dovuta alle crescenti domande di cui sono oggetto
e cui corrisponde una declinante qualità delle
risposte. Ciò ribadisce il nesso tra legittimazione
e efficienza-efficacia a suo tempo individuato da
Max Weber come carattere saliente della modernità.
La svolta postdemocratica tuttavia – questo
l’argomento dei critici – non risolve
ma semmai accentua tali problemi. La fiducia dei cittadini
nei decisori e la loro effettiva possibilità
di contare nelle scelte si indeboliscono infatti senza
che a ciò corrisponda un rafforzamento dell’efficienza.
A dimostrarlo stanno da un lato le ripetute débâcles
tecnologiche, il peggiorare delle condizioni ambientali,
l’incremento delle disuguaglianze entro e tra
le nazioni, i dubbi benefici in termini di efficienza,
qualità e tasso di innovazione apportati dalla
privatizzazione dei servizi e l’aumento dell’autoregolazione
dei mercati. Dall’altro l’inadeguatezza
di un approccio centrato su individuo, proprietà
privata, negoziazione degli interessi e expertise
tecnica di fronte a conflitti quali quelli sull’aborto,
la procreazione assistita, l’eutanasia, la brevettazione
dei patrimoni genetici, il riconoscimento di diritti
culturali, religiosi, di genere, sessuali. Conflitti
che evidenziano divergenze profonde sulle esperienze
di vita, i fatti, i valori e il modo di collegare
gli uni agli altri. Conflitti che individuano un’area
di “democrazia intermedia”, posta tra
i momenti “alti” dell’attività
legislativa e l’esercizio delle libertà
individuali nella vita quotidiana, rispetto a cui
il liberalismo – anche quando tenta di valorizzare
il dialogo tra i cittadini – si trova in evidente
difficoltà, cercando inutilmente di depotenziarli
eliminandoli dall’agenda politica.
Molto più di una
questione di mercato
Questo è lo sfondo da cui prende le mosse
la democrazia deliberativa, tanto in sede teorica
che di modelli operativi e esperienze concrete. Il
primo e più importante bersaglio polemico è
dunque la concezione aggregativa, elitista e strategica
della democrazia, l’assimilazione “indebita”
della politica al mercato:
la nozione di sovranità del consumatore
è accettabile perché e nella misura
in cui il consumatore sceglie tra azioni che differiscono
solo per il modo in cui producono effetti sul consumatore
medesimo. Nella scelta politica, tuttavia, il cittadino
deve esprimersi su soluzioni che differiscono anche
per gli effetti prodotti sugli altri cittadini (Elster
J., The Market and the Forum. Three Varieties
of Political Theory, 1986).
Tra Machiavelli
e l’antica Roma
La “profonda insoddisfazione per il pensiero
politico liberale dominante” (come ha scritto
Macedo) e la prassi che a esso si ispira non trova
naturalmente espressione solo in questo ambito. Si
assiste per esempio, nei medesimi anni, a un fiorire
dell’interesse nei confronti del “repubblicanesimo”,
in particolare del pensiero di Machiavelli e dei filosofi
e storici romani. Pur nella diversità di approcci
e interpretazioni, il tentativo è anche in
questo caso di proporre una concezione della politica
significativamente diversa da quella del liberalismo
post-democratico. Due i punti chiave. Da un lato all’idea
di libertà come “non interferenza”
(ossia non coercizione), tipica della tradizione liberale,
viene contrapposta l’idea repubblicana di libertà
come “non dominio” (ossia non dipendenza).
Dall’altro si enfatizza il valore della partecipazione
attiva alla vita pubblica, non tanto come bene in
sé, realizzazione della socialità umana,
quanto come strumento per assicurare la libertà,
nell’accezione specificata. Il nesso con la
democrazia deliberativa è percepibile in particolare
nel pensiero di autori come Michelman, Sunstein e
Pettit. Quest’ultimo ha recentemente sostenuto
che la democrazia deliberativa costituisce condizione
per la realizzazione dell’idea repubblicana
del non dominio.
La democrazia deliberativa è poi chiaramente
connessa a un altro filone sviluppatosi nello stesso
periodo: la “democrazia associativa”.
L’attenzione è qui rivolta alla capacità
di auto-organizzazione della società civile.
La proposta è di “ristrutturare lo stato
e l’economia in modo da fornire alle associazioni
un accresciuto ruolo nella produzione e nella regolazione
sociale e economica” (Fung, Association
and Democracy: between Theories, Hopes and Realities,
“Annual Review of Sociology”, 2003). Alcune
posizioni sono a dire il vero piuttosto sintoniche
con l’enfasi individualista e antistatalista
post-democratica, propugnando un associazionismo “imprenditoriale”
capace di adeguarsi alla domanda dei cittadini sostituendo
l’intervento pubblico. Altre tuttavia vedono
nello Stato l’attore chiamato a sostenere e
indirizzare l’associazionismo e indicano nello
sviluppo di arene di discussione pubblica un necessario
bilanciamento alla contrattazione tra gli interessi
e all’individualismo consumistico.
In un modo o nell’altro, la democrazia deliberativa
mira a ridare spazio e peso ai cittadini, a coinvolgerli
in prima persona nelle questioni che li riguardano,
in un contesto segnato da conflitti profondi e problemi
inediti.
Questo articolo è tratto dall’introduzione
al libro La deliberazione pubblica,
a cura di Luigi Pellizzoni, edito da Meltemi (2005,
pagg. 311, euro 23,50).
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