277 - 16.05.05


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Tutti i poteri della democrazia

Alessandro Ferrara


Il testo che segue è la prefazione del libro di Bruce Ackerman, La Costituzione di emergenza. Come salvaguardare libertà e diritti civili di fronte al pericolo del terrorismo, Meltemi, 2005, pag. 96, euro 11,00.

Viviamo in società democratiche, abitiamo istituzioni democratiche senza più quasi accorgercene. Diamo per scontato il carattere democratico della vita pubblica entro cui ci muoviamo, così come diamo per scontata l’aria che respiriamo. Dimentichiamo spesso che se la democrazia è un’idea semplice – che chi obbedisce alle leggi ne sia anche in qualche modo l’autore – la sua realizzazione è invece estremamente complessa.
Quel principio semplice, ma al tempo stesso così ambizioso, richiede soluzioni istituzionali innovative per diventare realtà quotidiana: il suffragio universale, la legislazione sociale, la trasparenza nell’amministrazione pubblica, la tutela della riservatezza costituiscono altrettante tappe di questo processo di realizzazione dell’ideale democratico.
Spesso ci si rappresenta l’ultimo quindicennio, a partire dal crollo dei regimi del socialismo reale, come una vittoria della forma liberal-democratica di governo. Ma la pratica materiale della democrazia quale ha luogo nelle nostre società non è certo un punto di arrivo, è solo una stazione di passaggio verso una compiuta realizzazione dell’idea di democrazia. Che altro si può voler fare? Quale agenda è pensabile – su un arco di tempo “storico”, per esempio i prossimi tre o quattro decenni – per un’ulteriore democratizzazione di società già imperfettamente democratiche?

Immaginare il futuro della democrazia è l’esercizio mentale a cui il lavoro di Bruce Ackerman ci sollecita da qualche anno a questa parte. Noto anche al pubblico italiano come filosofo liberal, autore di una originale riflessione sul tema della giustizia (La giustizia sociale nello Stato liberale, uscito nel 1980 e tradotto in italiano nel 1984), negli anni Novanta ha elaborato la paradigmatica concezione “dualista” della democrazia – in cui coesistono il livello della politica ordinaria, fatta dai politici, dai partiti, dai gruppi di pressione senza coinvolgimento di quel “popolo” che pure rimane il titolare in ultima istanza della sovranità, e il livello della politica costituzionale, raramente attivato, in cui si esprime direttamente la volontà popolare. Nello stesso periodo si è dedicato a una ricostruzione di alcuni momenti esemplari di trasformazione costituzionale nella storia degli Stati Uniti. Nelle tre fasi della ratifica della Costituzione, della ricostruzione dopo la guerra civile e della legislazione formalmente ordinaria, in realtà di valenza costituzionale, propria del New Deal, si osserva come la trasformazione costituzionale sia sempre una unconventional adaptation di strutture esistenti che da un lato non giunge a una rottura rivoluzionaria ma, dall’altro, neanche si lascia ricondurre al funzionamento normale delle istituzioni, e si osserva anche l’affermarsi di un ideale di cittadinanza egualitaria, nel senso di politicamente equi-influente, che fa premio su altre forme di cittadinanza.

Dalla fine degli anni Novanta a oggi Ackerman ha affiancato a questa veste di filosofo politico e teorico costituzionale anche quella di scienziato della politica, con la sua attenzione per la dislocazione dei processi reali sul campo, per la comparazione e per le lezioni che dall’indagine comparativa è possibile trarre. Il suo sforzo è quello di costruire una vera e propria agenda – non solo teoricamente giustificabile, ma anche politicamente agibile – per la democratizzazione ulteriore della democrazia.
Fra le prime voci di questa agenda abbiamo già trovato due proposte di notevole rilievo. Al primo punto, Bruce Ackerman ha posto il problema di riconsiderare la dottrina classica della separazione dei poteri, in un testo anche in questo caso facilmente accessibile al lettore italiano: La nuova separazione dei poteri (Roma, Carocci, 2003). Le società del nostro tempo sono molto più complesse di quelle degli albori della modernità, sulla cui esperienza venne a essere elaborata, da Montesquieu fra gli altri, la classica tripartizione di potere legislativo, esecutivo e giudiziario – tripartizione che a tutt’oggi continua a essere la dottrina di riferimento indiscussa. Ogni tanto la pubblicistica ci regala qualche occasionale riferimento a un “quarto” o a un “quinto” potere, ma nessuna sistematica riflessione è mai stata iniziata in questo senso da un teorico della politica. Invece è forse maturo il tempo perché si rifaccia il punto su questo snodo essenziale di ogni teoria della democrazia. Quanti e soprattutto quali devono essere, nelle nostre società, i poteri da tenere separati? Viene messo a fuoco qui in primo luogo il potere dei media, ma anche e soprattutto la linea di divisione che separa potere legislativo ed esecutivo, Parlamenti e presidenti, e poi politica e amministrazione. Vengono messi a fuoco i vizi del presidenzialismo e le virtù del “parlamentarismo vincolato”, i problemi della iperpoliticizzazione della burocrazia all’americana e i pregi di un’amministrazione politicamente neutrale, i risvolti della costituzionalizzazione dei diritti sociali e il problema dell’equità nella competizione elettorale come nuova frontiera della legittimità democratica. Se la competizione elettorale è il perno della legittimazione democratica, bisogna trovare risposte giustificabili a interrogativi circa il nesso di denaro e politica in società dove i mezzi di comunicazione di massa sono soggetti a concentrazioni private, e dove il differenziale di finanziamenti messi a disposizione degli schieramenti di un sistema bipolare può essere molto elevato.

L’altro punto di sicuro interesse dell’agenda ackermaniana per il rinnovamento della democrazia riguarda un modo innovativo di rompere una soffocante tenaglia: la tenaglia fra le ricorrenti lamentazioni di un’apatia e un privatismo che, come nella profezia tocquevilliana, allontanano i cittadini delle democrazie avanzate dal coinvolgimento nelle cose della politica quando addirittura non li rendono ricettivi alle sirene di un populismo anti-politico, e dall’altro le egualmente ricorrenti quanto ineffettuali invocazioni di una “partecipazione” necessaria quanto motivazionalmente elusiva, se non nelle forme minimaliste di un’ipertrofia dello strumento referendario. Appoggiandosi agli studi di James Fishkin sul deliberative polling – una forma di sondaggio in cui invece di chiedere a molte persone disinformate un’opinione su un issue si registra il mutamento di opinione sullo stesso issue in persone che vengano esposte a informazione esauriente – Ackerman, in cooperazione con lo stesso Fishkin, ipotizza l’istituzione di una “giornata della deliberazione” in cui venga offerta a tutti i cittadini, durante un’apposita vacanza civile, l’opportunità di un singolare servizio civico: partecipare, con un compenso pari a quello corrisposto a un giudice popolare per una giornata trascorsa in corte, a una tornata di svariate ore di discussione informata su una lista di temi concordata fra governo e opposizione. Senza obbligare nessuno, la proposta mira a molti bersagli: non soltanto l’accrescimento del livello di informazione medio dei cittadini, ma anche il loro diretto acclimatamento con l’ethos della discussione democratica in contraddittorio, e soprattutto la creazione immediata di un mercato della comunicazione politica in cui non sia più pagante l’investire in bombardamenti comunicativi fatti di slogan emotivi quanto ambigui (pensiamo ai nostri “meno tasse per tutti”, o “città più sicure”) e dalle implicazioni pratiche imprecisate.

L’ossessiva ripetizione di slogan può reggere, come forma di comunicazione politica, solo dove la riflessione collettiva rimane appannaggio di ristrette cerchie privilegiate. Riempire le aule delle scuole, come già si fa con i seggi elettorali, di piccoli gruppi di cittadini che nello stesso giorno si confrontano su una lista di temi vuol dire che, pur senza predicare la “partecipazione”, si possono però condizionare i produttori di comunicazione politica a offrire un prodotto in grado di reggere a quel genere di prova, mediaticamente osservata e competitivamente strutturata.
C’è ora un terzo punto all’ordine del giorno che si è aggiunto all’agenda ackermaniana per l’avanzamento della democrazia, ed è su questo tema che il testo qui tradotto si sforza di offrire un contributo: in che modo la democrazia può rispondere a quella nuova e terribile sfida del XXI secolo che è il terrorismo?

Ackerman parte dal presupposto che non si possano escludere nel futuro nuovi attacchi terroristici su scala paragonabile all’11 settembre e all’attentato di Madrid. La domanda non è “se”, ma “quando?”. Quale che sia il giudizio sulla guerra preventiva al terrorismo condotta in Iraq, è difficile non convenire sul fatto che nessuna delle cause di fondo dell’emergere del terrorismo è stata anche solo minimamente scalfita. Dunque, è realistico pensare che accadrà di nuovo. E il pensiero democratico deve fare i conti fino in fondo con lo stato di eccezione, con la limitazione dei diritti, con il rientro dall’emergenza, con la politica della sicurezza. Se non assolverà questo compito lascerà il campo a un approccio autoritario e in ultima analisi alla possibilità che il terrorismo, tramite la reazione emotiva da esso provocata, finisca col minare la stessa architettura costituzionale dello Stato di diritto.
L’impatto politico immediato di eventi come l’11 settembre è infatti un diffondersi di insicurezza e paura, nonché sfiducia nella capacità di contrasto da parte dei governi democratici: il clima adatto perché sorga sempre più forte la domanda, anche emotiva, per una legislazione di emergenza poco meditata, fortemente lesiva dei diritti, e difficile poi da ricondurre nell’alveo della normalità, del genere già prefigurato nel Patriot Act che ha conferito a George W. Bush poteri inusitati e ha generato i primi mostri come Guantanamo.

Come anche Habermas ha sostenuto nel suo recente saggio L’occidente diviso, così pure Ackerman insiste sul fatto che il terrorismo internazionale odierno non si lascia assimilare né alla dimensione della guerra né a quella del crimine. È solo retorica parlare di guerra al terrorismo perché ovviamente non si ha di fronte una formazione statale ma una vera e propria ONG militare. È altrettanto retorica parlare di crimine, perché nessuna organizzazione criminale mira a destabilizzare il senso di sicurezza collettiva altrettanto quanto il terrorismo, per non parlare del fatto che nessuna azione criminale ha mai giustificato la proclamazione di uno stato di emergenza come misura di contrasto. La minaccia che il terrorismo di Al Qaeda pone all’ordine democratico è molto diversa anche dalle minacce che in passato hanno giustificato lo stato di emergenza: non si tratta della minaccia di un annichilimento totale della nostra forma di vita, ma solo di una destabilizzazione endemica, di una messa in questione permanente del nostro senso di sicurezza.

Le linee guida della proposta di Ackerman sono semplici e insieme creative. Pensare uno stato di emergenza da una prospettiva democratica significa incastonare nelle sue linee costitutive in primo luogo la sua provvisorietà. Uno stato di emergenza o di eccezione deve contenere il massimo di garanzie che il rientro nella normalità avvenga il più rapidamente possibile. Lo strumento principale ideato da Ackerman per realizzare questo principio è il collegare l’istituzione e il mantenimento dello stato di emergenza al consenso di maggioranze qualificate crescenti. Nel suo progetto l’esecutivo ha un’autonomia minima nel dichiarare lo stato di emergenza – non più di un paio di settimane – ed è l’assemblea legislativa a convalidare tale decisione per un tempo anche in questo caso estremamente limitato, non superiore a due mesi. A ogni riconferma dello stato di emergenza, prevista a intervalli di due mesi, la soglia della maggioranza necessaria cresce di un 10%, fino a raggiungere e a stabilizzarsi sull’80%. In questo modo si minimizza la possibilità che un esecutivo spregiudicato forzi la mano all’assemblea legislativa, almeno in uno dei classici sistemi bipartitici o anche solo bipolari. Una minoranza anche solo del 21% ha il potere di mettere fine allo stato di emergenza.

In secondo luogo, per definizione uno stato di emergenza conferisce maggiori poteri al governo in carica. Ciò richiede un bilanciamento costituzionale, un contrappeso. E questo contrappeso è individuato da Ackerman nell’attribuzione all’opposizione di un potere, costituzionalmente garantito, di vigilanza sull’informazione. L’ipotesi è che sia cruciale, ai fini del conseguimento e poi del mantenimento di maggioranze parlamentari così ampie, la funzione dell’informazione resa pubblicamente disponibile. Se il governo avesse mano libera nell’apporre il sigillo della segretezza sui dati fondamentali, il gioco dell’emergenza sarebbe eccessivamente truccato a suo favore. Dunque toccherà all’opposizione, sotto sua responsabilità, controllare e assumere decisioni riguardo all’informazione e al pluralismo dei media.

In terzo luogo, se “stato di emergenza” significa più poteri all’esecutivo e meno garanzie sul fronte dei diritti, è evidente che vi saranno vittime dell’azione di contrasto al terrorismo, innocenti ingiustamente accusati, in misura proporzionalmente maggiore rispetto ai tempi normali in cui sono pienamente operanti le garanzie di legge. Qui il progetto ackermaniano farà sorridere il lettore italiano, visto che propone di elevare addirittura a 60 giorni la custodia preventiva in attesa del primo giudizio nel merito delle accuse di terrorismo – il che ci fa vedere in controluce una delle differenze cruciali che distinguono il nostro sistema penale. Ma nella proposta di Ackerman si trova anche un’enfasi sull’idea di giusto indennizzo e riflessioni di grande interesse sul ruolo che la magistratura può avere nel regolare l’intera macchina dell’emergenza.

Infine, importanti sono due elementi collegati che sottendono la proposta di una costituzione per l’emergenza. Il primo è la fiducia nella flessibilità della democrazia, come forma di governo, nel sapersi adattare a condizioni storiche profondamente mutate – come nel passaggio dal mondo bipolare, statico e stabile nell’“equilibrio del terrore”, a un mondo in cui il terrore dell’olocausto nucleare è diventato convivenza con il terrorismo – senza snaturarsi. Anzi, in un esercizio di riflessività, una società democratica può sospendere alcuni suoi tratti democratici salvaguardando il quadro che ne consente il ripristino non appena se ne presenti la possibilità. Il secondo è l’idea di trasparenza come principio guida: a una combinazione, da molti sostenuta come preferibile, di quadro normativo immutato, per non offrire la legittimazione del successo al terrorismo, e pratica corrente concretamente meno ossequiosa alle garanzie formali, Ackerman non ha dubbi nel contrapporre la sua proposta di una discussione franca e aperta sulle garanzie da sospendere. Il rischio politico di un riconoscimento implicito del successo del terrorismo è ampiamente controbilanciato, in questo modo, dal realizzare sempre il principio kantiano di pubblicità: una democrazia non tradisce se stessa nel momento in cui dichiaratamente autosospende – per rispondere a un’emergenza grave – certe garanzie fondamentali. Rimane, come desideriamo, una democrazia pienamente fedele ai suoi principi.

 

 

 

 

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