Il testo che segue è la
prefazione del libro di Bruce Ackerman, La Costituzione
di emergenza. Come salvaguardare libertà e diritti
civili di fronte al pericolo del terrorismo,
Meltemi,
2005, pag. 96, euro 11,00.
Viviamo in società democratiche, abitiamo
istituzioni democratiche senza più quasi accorgercene.
Diamo per scontato il carattere democratico della
vita pubblica entro cui ci muoviamo, così come
diamo per scontata l’aria che respiriamo. Dimentichiamo
spesso che se la democrazia è un’idea
semplice – che chi obbedisce alle leggi ne sia
anche in qualche modo l’autore – la sua
realizzazione è invece estremamente complessa.
Quel principio semplice, ma al tempo stesso così
ambizioso, richiede soluzioni istituzionali innovative
per diventare realtà quotidiana: il suffragio
universale, la legislazione sociale, la trasparenza
nell’amministrazione pubblica, la tutela della
riservatezza costituiscono altrettante tappe di questo
processo di realizzazione dell’ideale democratico.
Spesso ci si rappresenta l’ultimo quindicennio,
a partire dal crollo dei regimi del socialismo reale,
come una vittoria della forma liberal-democratica
di governo. Ma la pratica materiale della democrazia
quale ha luogo nelle nostre società non è
certo un punto di arrivo, è solo una stazione
di passaggio verso una compiuta realizzazione dell’idea
di democrazia. Che altro si può voler fare?
Quale agenda è pensabile – su un arco
di tempo “storico”, per esempio i prossimi
tre o quattro decenni – per un’ulteriore
democratizzazione di società già imperfettamente
democratiche?
Immaginare il futuro della democrazia è l’esercizio
mentale a cui il lavoro di Bruce Ackerman ci sollecita
da qualche anno a questa parte. Noto anche al pubblico
italiano come filosofo liberal, autore di una originale
riflessione sul tema della giustizia (La giustizia
sociale nello Stato liberale, uscito nel 1980
e tradotto in italiano nel 1984), negli anni Novanta
ha elaborato la paradigmatica concezione “dualista”
della democrazia – in cui coesistono il livello
della politica ordinaria, fatta dai politici, dai
partiti, dai gruppi di pressione senza coinvolgimento
di quel “popolo” che pure rimane il titolare
in ultima istanza della sovranità, e il livello
della politica costituzionale, raramente attivato,
in cui si esprime direttamente la volontà popolare.
Nello stesso periodo si è dedicato a una ricostruzione
di alcuni momenti esemplari di trasformazione costituzionale
nella storia degli Stati Uniti. Nelle tre fasi della
ratifica della Costituzione, della ricostruzione dopo
la guerra civile e della legislazione formalmente
ordinaria, in realtà di valenza costituzionale,
propria del New Deal, si osserva come la trasformazione
costituzionale sia sempre una unconventional adaptation
di strutture esistenti che da un lato non giunge a
una rottura rivoluzionaria ma, dall’altro, neanche
si lascia ricondurre al funzionamento normale delle
istituzioni, e si osserva anche l’affermarsi
di un ideale di cittadinanza egualitaria, nel senso
di politicamente equi-influente, che fa premio su
altre forme di cittadinanza.
Dalla fine degli anni Novanta a oggi Ackerman ha
affiancato a questa veste di filosofo politico e teorico
costituzionale anche quella di scienziato della politica,
con la sua attenzione per la dislocazione dei processi
reali sul campo, per la comparazione e per le lezioni
che dall’indagine comparativa è possibile
trarre. Il suo sforzo è quello di costruire
una vera e propria agenda – non solo teoricamente
giustificabile, ma anche politicamente agibile –
per la democratizzazione ulteriore della democrazia.
Fra le prime voci di questa agenda abbiamo già
trovato due proposte di notevole rilievo. Al primo
punto, Bruce Ackerman ha posto il problema di riconsiderare
la dottrina classica della separazione dei poteri,
in un testo anche in questo caso facilmente accessibile
al lettore italiano: La nuova separazione dei
poteri (Roma, Carocci, 2003). Le società
del nostro tempo sono molto più complesse di
quelle degli albori della modernità, sulla
cui esperienza venne a essere elaborata, da Montesquieu
fra gli altri, la classica tripartizione di potere
legislativo, esecutivo e giudiziario – tripartizione
che a tutt’oggi continua a essere la dottrina
di riferimento indiscussa. Ogni tanto la pubblicistica
ci regala qualche occasionale riferimento a un “quarto”
o a un “quinto” potere, ma nessuna sistematica
riflessione è mai stata iniziata in questo
senso da un teorico della politica. Invece è
forse maturo il tempo perché si rifaccia il
punto su questo snodo essenziale di ogni teoria della
democrazia. Quanti e soprattutto quali devono essere,
nelle nostre società, i poteri da tenere separati?
Viene messo a fuoco qui in primo luogo il potere dei
media, ma anche e soprattutto la linea di divisione
che separa potere legislativo ed esecutivo, Parlamenti
e presidenti, e poi politica e amministrazione. Vengono
messi a fuoco i vizi del presidenzialismo e le virtù
del “parlamentarismo vincolato”, i problemi
della iperpoliticizzazione della burocrazia all’americana
e i pregi di un’amministrazione politicamente
neutrale, i risvolti della costituzionalizzazione
dei diritti sociali e il problema dell’equità
nella competizione elettorale come nuova frontiera
della legittimità democratica. Se la competizione
elettorale è il perno della legittimazione
democratica, bisogna trovare risposte giustificabili
a interrogativi circa il nesso di denaro e politica
in società dove i mezzi di comunicazione di
massa sono soggetti a concentrazioni private, e dove
il differenziale di finanziamenti messi a disposizione
degli schieramenti di un sistema bipolare può
essere molto elevato.
L’altro punto di sicuro interesse dell’agenda
ackermaniana per il rinnovamento della democrazia
riguarda un modo innovativo di rompere una soffocante
tenaglia: la tenaglia fra le ricorrenti lamentazioni
di un’apatia e un privatismo che, come nella
profezia tocquevilliana, allontanano i cittadini delle
democrazie avanzate dal coinvolgimento nelle cose
della politica quando addirittura non li rendono ricettivi
alle sirene di un populismo anti-politico, e dall’altro
le egualmente ricorrenti quanto ineffettuali invocazioni
di una “partecipazione” necessaria quanto
motivazionalmente elusiva, se non nelle forme minimaliste
di un’ipertrofia dello strumento referendario.
Appoggiandosi agli studi di James Fishkin sul deliberative
polling – una forma di sondaggio in cui invece
di chiedere a molte persone disinformate un’opinione
su un issue si registra il mutamento di opinione sullo
stesso issue in persone che vengano esposte a informazione
esauriente – Ackerman, in cooperazione con lo
stesso Fishkin, ipotizza l’istituzione di una
“giornata della deliberazione” in cui
venga offerta a tutti i cittadini, durante un’apposita
vacanza civile, l’opportunità di un singolare
servizio civico: partecipare, con un compenso pari
a quello corrisposto a un giudice popolare per una
giornata trascorsa in corte, a una tornata di svariate
ore di discussione informata su una lista di temi
concordata fra governo e opposizione. Senza obbligare
nessuno, la proposta mira a molti bersagli: non soltanto
l’accrescimento del livello di informazione
medio dei cittadini, ma anche il loro diretto acclimatamento
con l’ethos della discussione democratica in
contraddittorio, e soprattutto la creazione immediata
di un mercato della comunicazione politica in cui
non sia più pagante l’investire in bombardamenti
comunicativi fatti di slogan emotivi quanto ambigui
(pensiamo ai nostri “meno tasse per tutti”,
o “città più sicure”) e
dalle implicazioni pratiche imprecisate.
L’ossessiva ripetizione di slogan può
reggere, come forma di comunicazione politica, solo
dove la riflessione collettiva rimane appannaggio
di ristrette cerchie privilegiate. Riempire le aule
delle scuole, come già si fa con i seggi elettorali,
di piccoli gruppi di cittadini che nello stesso giorno
si confrontano su una lista di temi vuol dire che,
pur senza predicare la “partecipazione”,
si possono però condizionare i produttori di
comunicazione politica a offrire un prodotto in grado
di reggere a quel genere di prova, mediaticamente
osservata e competitivamente strutturata.
C’è ora un terzo punto all’ordine
del giorno che si è aggiunto all’agenda
ackermaniana per l’avanzamento della democrazia,
ed è su questo tema che il testo qui tradotto
si sforza di offrire un contributo: in che modo la
democrazia può rispondere a quella nuova e
terribile sfida del XXI secolo che è il terrorismo?
Ackerman parte dal presupposto che non si possano
escludere nel futuro nuovi attacchi terroristici su
scala paragonabile all’11 settembre e all’attentato
di Madrid. La domanda non è “se”,
ma “quando?”. Quale che sia il giudizio
sulla guerra preventiva al terrorismo condotta in
Iraq, è difficile non convenire sul fatto che
nessuna delle cause di fondo dell’emergere del
terrorismo è stata anche solo minimamente scalfita.
Dunque, è realistico pensare che accadrà
di nuovo. E il pensiero democratico deve fare i conti
fino in fondo con lo stato di eccezione, con la limitazione
dei diritti, con il rientro dall’emergenza,
con la politica della sicurezza. Se non assolverà
questo compito lascerà il campo a un approccio
autoritario e in ultima analisi alla possibilità
che il terrorismo, tramite la reazione emotiva da
esso provocata, finisca col minare la stessa architettura
costituzionale dello Stato di diritto.
L’impatto politico immediato di eventi come
l’11 settembre è infatti un diffondersi
di insicurezza e paura, nonché sfiducia nella
capacità di contrasto da parte dei governi
democratici: il clima adatto perché sorga sempre
più forte la domanda, anche emotiva, per una
legislazione di emergenza poco meditata, fortemente
lesiva dei diritti, e difficile poi da ricondurre
nell’alveo della normalità, del genere
già prefigurato nel Patriot Act che ha conferito
a George W. Bush poteri inusitati e ha generato i
primi mostri come Guantanamo.
Come anche Habermas ha sostenuto nel suo recente
saggio L’occidente diviso, così
pure Ackerman insiste sul fatto che il terrorismo
internazionale odierno non si lascia assimilare né
alla dimensione della guerra né a quella del
crimine. È solo retorica parlare di guerra
al terrorismo perché ovviamente non si ha di
fronte una formazione statale ma una vera e propria
ONG militare. È altrettanto retorica parlare
di crimine, perché nessuna organizzazione criminale
mira a destabilizzare il senso di sicurezza collettiva
altrettanto quanto il terrorismo, per non parlare
del fatto che nessuna azione criminale ha mai giustificato
la proclamazione di uno stato di emergenza come misura
di contrasto. La minaccia che il terrorismo di Al
Qaeda pone all’ordine democratico è molto
diversa anche dalle minacce che in passato hanno giustificato
lo stato di emergenza: non si tratta della minaccia
di un annichilimento totale della nostra forma di
vita, ma solo di una destabilizzazione endemica, di
una messa in questione permanente del nostro senso
di sicurezza.
Le linee guida della proposta di Ackerman sono semplici
e insieme creative. Pensare uno stato di emergenza
da una prospettiva democratica significa incastonare
nelle sue linee costitutive in primo luogo la sua
provvisorietà. Uno stato di emergenza o di
eccezione deve contenere il massimo di garanzie che
il rientro nella normalità avvenga il più
rapidamente possibile. Lo strumento principale ideato
da Ackerman per realizzare questo principio è
il collegare l’istituzione e il mantenimento
dello stato di emergenza al consenso di maggioranze
qualificate crescenti. Nel suo progetto l’esecutivo
ha un’autonomia minima nel dichiarare lo stato
di emergenza – non più di un paio di
settimane – ed è l’assemblea legislativa
a convalidare tale decisione per un tempo anche in
questo caso estremamente limitato, non superiore a
due mesi. A ogni riconferma dello stato di emergenza,
prevista a intervalli di due mesi, la soglia della
maggioranza necessaria cresce di un 10%, fino a raggiungere
e a stabilizzarsi sull’80%. In questo modo si
minimizza la possibilità che un esecutivo spregiudicato
forzi la mano all’assemblea legislativa, almeno
in uno dei classici sistemi bipartitici o anche solo
bipolari. Una minoranza anche solo del 21% ha il potere
di mettere fine allo stato di emergenza.
In secondo luogo, per definizione uno stato di emergenza
conferisce maggiori poteri al governo in carica. Ciò
richiede un bilanciamento costituzionale, un contrappeso.
E questo contrappeso è individuato da Ackerman
nell’attribuzione all’opposizione di un
potere, costituzionalmente garantito, di vigilanza
sull’informazione. L’ipotesi è
che sia cruciale, ai fini del conseguimento e poi
del mantenimento di maggioranze parlamentari così
ampie, la funzione dell’informazione resa pubblicamente
disponibile. Se il governo avesse mano libera nell’apporre
il sigillo della segretezza sui dati fondamentali,
il gioco dell’emergenza sarebbe eccessivamente
truccato a suo favore. Dunque toccherà all’opposizione,
sotto sua responsabilità, controllare e assumere
decisioni riguardo all’informazione e al pluralismo
dei media.
In terzo luogo, se “stato di emergenza”
significa più poteri all’esecutivo e
meno garanzie sul fronte dei diritti, è evidente
che vi saranno vittime dell’azione di contrasto
al terrorismo, innocenti ingiustamente accusati, in
misura proporzionalmente maggiore rispetto ai tempi
normali in cui sono pienamente operanti le garanzie
di legge. Qui il progetto ackermaniano farà
sorridere il lettore italiano, visto che propone di
elevare addirittura a 60 giorni la custodia preventiva
in attesa del primo giudizio nel merito delle accuse
di terrorismo – il che ci fa vedere in controluce
una delle differenze cruciali che distinguono il nostro
sistema penale. Ma nella proposta di Ackerman si trova
anche un’enfasi sull’idea di giusto indennizzo
e riflessioni di grande interesse sul ruolo che la
magistratura può avere nel regolare l’intera
macchina dell’emergenza.
Infine, importanti sono due elementi collegati che
sottendono la proposta di una costituzione per l’emergenza.
Il primo è la fiducia nella flessibilità
della democrazia, come forma di governo, nel sapersi
adattare a condizioni storiche profondamente mutate
– come nel passaggio dal mondo bipolare, statico
e stabile nell’“equilibrio del terrore”,
a un mondo in cui il terrore dell’olocausto
nucleare è diventato convivenza con il terrorismo
– senza snaturarsi. Anzi, in un esercizio di
riflessività, una società democratica
può sospendere alcuni suoi tratti democratici
salvaguardando il quadro che ne consente il ripristino
non appena se ne presenti la possibilità. Il
secondo è l’idea di trasparenza come
principio guida: a una combinazione, da molti sostenuta
come preferibile, di quadro normativo immutato, per
non offrire la legittimazione del successo al terrorismo,
e pratica corrente concretamente meno ossequiosa alle
garanzie formali, Ackerman non ha dubbi nel contrapporre
la sua proposta di una discussione franca e aperta
sulle garanzie da sospendere. Il rischio politico
di un riconoscimento implicito del successo del terrorismo
è ampiamente controbilanciato, in questo modo,
dal realizzare sempre il principio kantiano di pubblicità:
una democrazia non tradisce se stessa nel momento
in cui dichiaratamente autosospende – per rispondere
a un’emergenza grave – certe garanzie
fondamentali. Rimane, come desideriamo, una democrazia
pienamente fedele ai suoi principi.
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