
Stiamo assistendo allo sviluppo di uno spazio pubblico
o culturale europeo? Vi stiamo prendendo parte? Dovremmo
promuoverlo? Queste domande potrebbero sembrare strane.
Non dovremmo forse prestare attenzione agli altri spazi
pubblici e alle altre culture europee? Non dovremmo
forse mantenere un certo livello di comunicazione con
i nostri vicini? Ovviamente dovremmo. Non abbiamo riviste
e altre pubblicazioni con un orientamento europeo? Non
teniamo forse tantissimi incontri, conferenze e festival
sulla nostra comune cultura europea, passata e presente?
Ovviamente lo facciamo.
Tuttavia, è opportuno fare un salto indietro
alla fine degli anni ’60, allora, durante la mia
giovinezza, non crescevo certo in uno spazio culturale
europeo. Diventavo adulto all’interno di uno spazio
pubblico e culturale occidentale e transatlantico. Ho
avuto il mio periodo francese, come molti altri giovani
e ambiziosi intellettuali tedeschi tra gli anni ’50
e ’60. C’erano Sartre e Camus, Jacques Brel
e Juliette Greco, la nouvelle vague. Poco più
tardi, la Gran Bretagna si era fatta avanti con una
vitale cultura giovanile, pop e rock, che già
trasmetteva e trasformava le influenze americane. C’era
anche un importante mensile culturale, Der Monat, che
riportava molti contributi di critici e intellettuali
americani.

C’era
il jazz, c’erano Faulkner, Dos Passos e la Beat
Generation. C’erano il movimento per i diritti
civili e quello contro la guerra in Vietnam. C’erano
le manifestazioni e la disobbedienza civile e, poco
dopo, il femminismo e l’ambientalismo. C’era
il
New Yorker e c’erano altre piccole
riviste come
l’Amerikahäuser. C’era
l’America, un nuovo mondo. Forse si trattava solo
di un fenomeno passeggero, limitato alla Germania del
dopoguerra e a una generazione alla ricerca di un nuovo
inizio e in una fuga da un passato orribile e da un
presente soffocante. Ma io non ne sono poi così
sicuro.
Cos’è una sfera pubblica?
Diamo uno sguardo più teorico a spazi e sfere
pubbliche. Gli studi sulla sfera pubblica, che sono
in un certo grado tutti ispirati alla formulazione
di Jurgen Habermas, non si interessano in particolar
modo dei vari tipi di produzione culturale e scambio.
Non sono interessati alla ricezione delle opere letterarie
o di altre forme di arte o cultura popolare. E neppure
alla distribuzione pubblica dell’informazione.
Invece, sono particolarmente interessati alla discussione
o al dibattito pubblico e alla formazione dell’opinione.
Dibattere
ha a che fare con motivare, offrire interpretazioni
e analisi, giustificare le proprie valutazioni e le
proprie critiche. Se guardiamo ai dibattiti pubblici,
li ritroviamo in parte in discussioni che avvengono
durante incontri informali e meeting. Nei mass media,
la discussione è pressoché sommersa,
da un lato, da diverse forme di intrattenimento e,
dall’altro, dalla semplice informazione del
tipo “riportare la notizia”.. Ma nei media
elettronici, ci sono forme di cronaca, riviste e documenti
con elementi di analisi, commenti e, a volte, la cosiddetta
advocacy, e nella stampa periodica di nuovo
commenti, pezzi d’opinione, reportage analitici,
saggi e altri tipi di argomentazioni più sostenute.
In Germania in particolare c’è la sezione
del feuilleton, e spesso ci sono altre sezioni speciali
nei quotidiani e nei settimanali, oppure nelle riviste
intellettuali e culturali. Questo “dibattito”
dei media è certamente la parte più
importante e influente del “dibattito pubblico”
in generale.
Con “dibattito pubblico”, non intendo
il semplice dibattito politico. Ci sono dibattiti
importanti che riguardano non solo decisioni o problemi
politici in pendenza ma anche argomenti d’interesse
più generale, consapevolezze individuali e
collettive, critiche sociali e culturali, interpretazioni
del passato e aspirazioni o preoccupazioni concernenti
il futuro, “diagnosi del nostro tempo”
e così via. Il discorso pubblico si colloca
soprattutto in certe sfere ristrette – in “sfere
pubbliche” o “sfere del discorso pubblico”
separate e perlopiù nazionali . Leggi, regolamenti
e lingue nazionali segnano ogni sfera pubblica. La
politica, i governi, i partiti, le organizzazioni
intermedie e le associazioni nazionali forniscono
argomenti e input. I mass media nazionali funzionano
come canali portatori di discorso pubblico. Questa
è comunque una descrizione insufficiente. Ci
sono molti elementi di coesione e legami rispetto
a queste condizioni perlopiù esterne. Ci sono
importanti forme di differenziazione interna. E, ovviamente,
c’è un mutuo scambio e una mutua osservazione
tra pubblici nazionali differenti o sfere pubbliche.
Iniziamo con la differenziazione: il discorso pubblico
non si realizza in un pubblico omogeneo. Il pubblico
è differenziato dal punto di vista ideologico
e politico, da quello regionale, per l’interesse
per aree problematiche differenti. Il pubblico è
anche stratificato. C’è una struttura
ineguale, una gerarchia nella sfera pubblica. La stratificazione
esiste tra chi parla come tra chi ascolta pubblicamente.
Tra chi parla c’è chi esercita una maggiore
influenza e tra chi ascolta c’è chi è
più attento e informato. I media hanno una
diffusione diversa e un diverso prestigio intellettuale.
La nozione di influenza pubblica, che è in
qualche modo legata, anche se non identica, a quella
di prestigio intellettuale, è più difficile
da applicare in questo contesto perché dovremmo
distinguere le influenze temporanee da quelle di lungo
termine. La nozione di prestigio potrebbe essere leggermente
meno difficile da applicare ma è anch’essa
abbastanza complicata. Per fare un esempio di cosa
intendo per prestigio, si può considerare il
fenomeno dei giornali nazionali di qualità,
generalmente considerati importanti leader d’opinione
(faccia a faccia con le élites politiche, sociali
e culturali e con gli altri media), eppure in genere
essi non hanno una grande diffusione se paragonati
alla stampa popolare o locale. Un altro tipo di prestigio
è più strettamente limitato alla sfera
culturale o intellettuale dove le riviste hanno un
lettorato molto ristretto, una dubbia influenza sull’opinione
pubblica, come anche sull’agenda pubblica, ma
godono di un profondo rispetto da parte delle classi
colte e forse hanno un’influenza di lungo termine
su sviluppi culturali di larga portata che è
comunque molto difficile da dimostrare.
Semplificando le cose, si può considerare la
differenziazione tra un “discorso generale”,
rivolto al lettore medio della stampa nazionale di
qualità (ovvero a un particolare segmento della
popolazione nazionale) e un “discorso alto”
o intellettuale, indirizzato alle élites culturali,
intellettuali ma anche tecniche, economiche o politiche.
E’ una considerazione che, ovviamente, semplifica
molto, ma che risulta essere importante per quanto
riguarda gli spazi pubblici transnazionali o europei.
I giornali culturali apparterranno in questo senso
alla sfera del “discorso alto”. In che
modo una sfera pubblica ristretta e così differenziata
o segmentata può essere ancora definita integrata?
In primo luogo, qualsiasi sfera del discorso pubblico,
ristretta o integrata, (una sfera pubblica nazionale)
è caratterizzata da un’alta densità
di flussi comunicativi – una densità
più alta per i flussi interni che per quelli
transnazionali, come ha evidenziato lo scienziato
politico Karl Deutsch.
Le sfere pubbliche sono integrate attraverso “agende”
dominanti, insiemi di problematiche e argomenti che
vengono portati alla ribalta contemporaneamente dai
vari mass media e da altre forme di discorso pubblico.
Inoltre, c’è una notevole quantità
di “senso comune” negli argomenti dibattuti,
nel modo in cui posizioni diverse vengono percepite
e interpretate, nella scelta degli aspetti importanti
e in ciò che viene dato per scontato. In che
modo si può allora parlare della transnazionalizzazione
del discorso pubblico – e più specificamente
dello sviluppo di sfere pubbliche transnazionali?
In altre parole, come si può affrontare il
problema dello sviluppo di uno spazio pubblico europeo?
Possiamo parlare di un universo condiviso del discorso
all’interno di una certa area geografica, per
esempio l’Europa, solo se ci sono dei flussi
di comunicazione, degli scambi di idee e argomenti,
di libri, periodici, articoli, film e altre opere
culturali che superano i confini nazionali e attraversano
l’intera sfera europea. Questi processi di diffusione
e scambi culturali avvengono tra molti pubblici nazionali
a livello mondiale.
Per parlare di uno spazio pubblico europeo, due altre
condizioni devono perciò essere soddisfatte.
In primo luogo, che i flussi di comunicazione all’interno
dell’Europa o, più precisamente, tra
gli stati membri dell’Unione e i rispettivi
pubblici, siano marcatamente più densi rispetto
a quelli con i paesi esterni all’Unione (per
esempio gli Stati Uniti). Ciò richiederà
molto probabilmente una certa convergenza delle culture
pubbliche dei paesi membri per agevolare la reciproca
comprensione e il coordinamento dei dibattiti. In
secondo luogo, dovrebbe esserci qualcosa come un’identità
pubblica comune a fare da sfondo dei dibattiti. Nei
dibattiti pubblici nazionali, non si trovano solo
espliciti riferimenti alla propria nazione e alle
proprie istituzioni politiche, ma anche un’implicita
o esplicita auto-identificazione come pubblico nazionale
che si sforza per formarsi un’opinione. Una
condizione critica per una europeizzazione genuina
dei dibattiti pubblici sarebbe l’allargamento
dell’identità collettiva: un “noi”
europeo che superi i confini nazionali – a cui
possibilmente si affianchi la crescita di una consapevolezza
della propria diversità rispetto agli altri
“noi” asiatici,americani,ecc.
Quale futuro per la sfera nazionale europea?
Uno spazio comunicativo europeo di questo genere si
sta sviluppando? Se sì, in che grado e con
quale ritmo? Se si considerano i fatti dal punto di
vista empirico, il giudizio deve ancora rimanere sospeso.
I risultati delle ricerche pubblicate fino a oggi
sono miseri, inconcludenti, e in parte contraddittori.
La nostra ricerca – compiuta presso la mia università
a Brema - sembra mostrare che i flussi di comunicazione
oltre confine stiano aumentando molto lentamente e
che un “noi” comune europeo non esista
realmente. Tuttavia, c’è una sorta di
europeizzazione segmentata in alcuni settori del discorso
alto. C’è, per esempio, la stampa economica
internazionale, che è diventata piuttosto transnazionale
per portata e diffusione. E c’è un più
vivace scambio culturale e un dibattito genuinamente
internazionale nei media dell’élites
culturali e intellettuali, come nel caso delle riviste
di cultura. Che cosa dobbiamo aspettarci dal futuro?
Quali sono le cause della situazione attuale? E’
una situazione di cui rammaricarsi? Credo che nel
prossimo futuro, nei prossimi vent’anni o giù
di lì, l’europeizzazione del discorso
pubblico rimarrà piuttosto limitata e sarà
soprattutto ristretta a certe élites, e non
sarà in nessun modo paragonabile alla densità
e all’intensità dei discorsi nazionali.
Generalmente parlando della sfera pubblica europea
si considera una sorta di cultural lag: la
transnazionalizzazione o l’europeizzazione,
in particolare, sono più avanzate nelle aree
economiche e nelle politiche ufficiali (vale a dire
dall’alto) che non nella sfera dello scambio
culturale e del discorso pubblico (nella democrazia
o politica dal basso). Questo produce un deficit democratico,
ovvero un deficit di legittimità, per l’Unione
Europea. Che ci siano alcuni elementi di verità
in un’affermazione del genere non può
certo essere negato. Tuttavia va precisato che l’unificazione
o la centralizzazione dell’Unione Europea è
ancora più limitata di quanto normalmente si
pensi, che il ruolo degli stati nazionali resta molto
più importante, che non sembra probabile un
cambiamento profondo a breve, e che è piuttosto
discutibile l’opportunità di spingere
per questo cambiamento repentino e profondo.
Andrei Moravcsik,docente di scienze politiche a Harvard
ed esperto sui fatti che riguardano l’Unione,
ha sostenuto in un recente articolo, pubblicato sul
Journal of Common Market Studies, che l’Unione
Europea è ancora sostanzialmente un’unione
economica, un’area di libero scambio con opportune
regolamentazioni e liberalizzazioni: “Molto
viene perciò tralasciato dall’agenda
dell’Unione: dalle priorità fiscali,
al welfare, dalla difesa all’istruzione,
alla promozione culturale, dal finanziamento delle
infrastrutture civili a molte altre decisioni che
non sono collegate all’attività economica
di scambio tra le nazioni… L’Unione Europea
non tassa, non spende, non si impegna e non si impone
e, in molte aree, non ha un monopolio legale di autorità
pubblica”.
Cosa significa questo per la legittimazione, la democrazia
e il ruolo del pubblico o del discorso pubblico? Si
tratta di una questione molto complessa perciò
evidenzierò solo un aspetto della questione
sempre riferendomi all’articolo di Moravcsik:
“Delle cinque problematiche più importanti
nelle democrazie dell’Europa occidentale –
sanità, istruzione, giustizia e sicurezza,
pensioni e welfare sociale, regime fiscale
– nessuno è principalmente di competenza
dell’Unione”. Neppure lo sono le politiche
per la sicurezza interna ed esterna, ovvero, le questioni
di guerra e pace. Moravicsik conclude: “La mancanza
di rilevanza, e non la mancanza di opportunità,
può imporre una vincolante limitazione alla
partecipazione politica europea”.
Ovviamente deploriamo questa mancanza di rilevanza
ma, date le scarse risorse, cognitive ed emotive,
a disposizione, il tutto si risolverebbe in uno spostamento
dell’attenzione verso le questioni tecniche
che coinvolgono l’Unione.
Si potrebbe sostenere che le competenze dell’Unione
dovrebbero essere considerevolmente potenziate, permettendo
così un aumento della rilevanza dell’Ue.
Ma si aprirebbe un altro dibattito: quali sono le
reali ragioni per sostenere un’ulteriore integrazione
politica all’interno dell’Unione Europea?
Attualmente il dibattito pubblico su queste questioni
è scarso e limitato alle cerchie intellettuali.
L’euroscetticismo, come viene chiamato, sembra
essere intellettualmente indegno, un affare per masse
non illuminate, fuorviate dai populisti, come nel
caso di qualche isolato conservatore inglese guidato
dalla Thatcher, e di qualche, altrettanto isolato,
progressista francese ancora allettato dall’idea
di realizzare il socialismo in un unico paese. I circoli
intellettuali di sinistra, il centro e anche la destra
moderata non vedono il problema. Ma non sorprende
almeno un po’ il fatto che tanti intellettuali
e pubblicisti liberali e di sinistra siano a favore
di una maggiore centralizzazione politica su larga
scala, dal momento che un tempo una considerevole
parte della sinistra sosteneva la decentralizzazione?
La conferma del potere della sfera nazionale
Cosa spiegare l’inerzia, la rigidità
delle sfere pubbliche? Le politiche abituali dell’Unione
non hanno abbastanza sex-appeal per diventare
una questione all’attenzione di un pubblico
vasto, ma ci sono altre cause da evidenziare.
Le sfere pubbliche nazionali sono caratterizzate da
specifiche infrastrutture per la comunicazione da
tratti culturali distintivi che si manifestano in
schemi interpretativi, strutture di rilevanza, memorie
collettive e altre fonti culturali. Queste differenze
non esistono indipendentemente da altri aspetti propri
delle rispettive società nazionali. In molti
casi, infatti, sono legate a pratiche sociali e strutture
istituzionali che influenzano il carattere delle sfere
pubbliche e i modi della riproduzione culturale. In
altre parole, le sfere pubbliche hanno una base sociale
e culturale che si estende ben oltre il mercato dei
media e delle loro organizzazioni. Molte altre strutture
che influenzano la produzione intellettuale e la sua
ricezione come anche gli interessi collettivi giocano
un ruolo in questo senso. Pensiamo al settore dell’istruzione
e della ricerca, al giornalismo, alle reti di produttori
culturali, e alla proprietà intellettuale.
Ma pensiamo pure ai partiti, ai gruppi di interesse,
alle organizzazioni sociali. Un motivo del relativo
attaccamento anche del discorso “alto”
o intellettuale al livello nazionale può avere
a che fare con il fatto che spesso si tratta di persone
che fanno fondamento su università o istituzioni
mediali nazionali.
Tutte queste condizioni non sono così facilmente
riproducibili a livello europeo. Ciò non significa
tuttavia che bisogna opporsi allo scambio culturale
o a un aumento del dialogo e della cooperazione. Significa
solo che è assai improbabile la realizzazione
di una sfera pubblica europea fortemente integrata
in tempi brevi.
I flussi di comunicazione europei e quelli
transatlantici
Infine dobbiamo considerare un altro interessante
aspetto della transnazionalizzazione del discorso
pubblico. Se riuscissimo a mappare i flussi di comunicazione
oltre confine, in particolare quelli del discorso
o dibattito pubblico, tracceremmo uno schema che è
rimasto relativamente costante nel tempo. Vi apparirebbe
non tanto una sfera europea, ma , più marcatamente,
una sfera transatlantica con un maggiore scambio di
comunicazione e idee. Ciò significa che lo
scambio culturale, i flussi di idee e argomentazioni,
di libri, di articoli di riviste e quotidiani sono
molto più densi tra i paesi europei e il nord
America, e più specificamente gli Stati Uniti,
piuttosto che tra i paesi membri dell’Unione.
I dati raccolti durante la ricerca dell’Università
di Brema non sono ancora molto precisi, ma lo schema
generale sembra chiaro e corrisponde alla nostra esperienza
quotidiana. C’è una vera e propria rete
di flussi di comunicazione che attraversa l’intero
Occidente, e che comprende il Nord America e l’Europa
(dal 1989, anche i paesi post-comunisti dell’Europa
centrale). Ci sono evidenti asimmetrie, ovviamente.
Delle particolari affinità esistono tra alcuni
paesi europei e le loro sfere pubbliche e gli Stati
Uniti, si pensi alla Germania o alla Gran Bretagna.
Ma le asimmetrie riguardano anche gli elementi culturali
che vengono scambiati tra gli Stati Uniti e l’Europa:
sembrerebbe che gli Stati Uniti esportino di più
rispetto all’Europa. E ciò non solo per
quanto riguarda elementi della cultura di massa, ma
anche libri importanti, riviste e giornali intellettuali
e politici, contributi intellettuali in numerose altre
forme. Siamo arrivati a lamentarci della dominazione
americana in molti settori della cultura di massa,
ma, guardando alla cultura alta, in particolare a
quella accademica e scientifica e al discorso pubblico
alto, gli Stati Uniti hanno di nuovo un ruolo di primo
piano, se non altrettanto dominante.
Che cosa si può dedurre da tutto questo? C’è
una lezione da imparare? Ci potremmo ovviamente lamentare
e parlare di imperialismo culturale, sostenendo la
necessità di creare un blocco culturale in
grado da fare da contrappeso all’egemonia americana.
In realtà però non ha molto senso entrare
in competizione per ottenere una fetta del mercato
intellettuale formando alleanze nazionali o riunendo
un qualche campo culturale e intellettuale transnazionale,e
forse europeo. La competizione culturale e intellettuale,
se ha senso utilizzare un termine del genere in questo
settore, non funziona attraverso la formazione di
alleanze o la costruzione di blocchi. La creatività
può essere potenziata, tra le altre cose, proprio
dallo scambio culturale. Ma ciò non porta a
nessun vantaggio particolare per la cooperazione e
lo scambio intellettuale su base regionale. L’interesse
nella produttività culturale e nell’innovazione
dovrebbe portarci a essere aperti a tutte le possibili
influenze che possono arricchire i nostri discorsi.
Questo non significa necessariamente, d’altro
canto, che non dovremmo prendere in considerazione
le affinità culturali. Lo scambio culturale
quotidiano è più facile e in genere
più soddisfacente, se ci sono comuni convincimenti
culturali, un repertorio condiviso, infrastrutture
sociali e istituzionali compatibili. Perciò
dobbiamo certamente lottare per essere cosmopoliti,
per aprirci al mondo, ma andremo ancora avanti leggendo
soprattutto riviste, quotidiani e giornali europei
e nord americani, e per una buona ragione.
Infatti, noi già formiamo una comunità
che comunica e discorre, in un certo senso, e dovremmo
svilupparla ulteriormente costruendo su fondamenta
che già esistono. Questo non è necessariamente
più importante della costruzione di nuovi ponti
culturali con altre parti del mondo. Si tratta semplicemente
di un differente obiettivo.
Non abbiamo forse buone ragioni per fare avanzare
il progetto di una comune cultura europea, di uno
spazio pubblico e culturale europeo condiviso come
preferibile alternativa a un ulteriore sviluppo di
uno spazio pubblico e culturale transatlantico già
esistente? Ovviamente, possiamo avere ragioni molto
buone per fare qualcosa per la cooperazione e lo scambio
intellettuale all’interno dell’Europa.
Queste ragioni possono andare dalla semplice constatazione
della vicinanza geografica a un marcato interesse
per alcune tematiche che sono specifiche della nostra
regione – per esempio l’eredità
del passato comunista in alcune zone dell’Europa.
Ma tali considerazioni si riferiscono solo ad alcune
aree del discorso pubblico, ad alcuni argomenti o
campi tematici.
Ci sono ragioni per pensare a un progetto europeo
aldilà di queste? Si potrebbe tornare alle
obiezioni alla dominazione americana o a specifiche
politiche americane. E’ facile vedere come esistano
ottimi motivi per opporsi alle pessime decisioni prese
dall’attuale amministrazione statunitense. Ma
oltre questo ho dei seri dubbi. Lasciando da parte
quanto possa essere significativo opporsi alla preponderanza
economica e militare americana attraverso un blocco
europeo, non riesco a capire perché e come
una tale opposizione a politiche governative possa
portarci alla formazione di un blocco intellettuale
e culturale.
Consideriamo un appello per unire le forze culturali
progressiste europee per formare un contrappeso agli
Stati Uniti basata non solo sulla politica ma anche
sulla cultura. Qualcosa del genere è stato
tentato da Jürgen Habermas e Jacques Derrida
che si sono impegnati per la difesa di un modello
culturale e politico europeo unico contro quello che
hanno descritto come il modello egemonico, neoliberale
e unilaterale statunitense. Si sono richiamati alle
differenze nei programmi sociali, nel ruolo e nel
mandato dello stato, nelle politiche penali e nel
multilateralismo nelle politiche estere. Il dubbio
che esistano delle differenze in questi settori tra
i paesi europei e gli Stati Uniti è davvero
piccolo. Ma si tratta di differenze non molto più
grandi di quelle che si ritrovano all’interno
della stessa Europa, e che vengono comunque sorpassate
in importanza da alcuni fondamentali elementi in comune
negli orientamenti, negli impegni politici e persino
nell’esperienza storica. Ma anche se ci fosse
una crescente divisione non solo in materia di politica
internazionale e di politica interna, ma anche da
un più generale punto di vista culturale –
e anche se (un se davvero grande questa volta!) questa
divisione riguardasse non solo le élites politiche
ed economiche statunitensi ma anche gli intellettuali,
gli esponenti del mondo accademico, i giornalisti,
gli scrittori, e gli editori che dovrebbero essere
i nostri primi interlocutori – questo non dovrebbe
portarci a tentare di aumentare il dialogo e lo scambio
culturale e intellettuali piuttosto che richiuderci
nel nostro vicinato europeo? (Credo che Habermas stesso
sosterrebbe la prima alternativa)
Il ruolo dei giornali culturali nella sfera
pubblica europea
Progettare, leggere e godere di tali pubblicazioni
non ha bisogno di alcuna giustificazione in termini
pubblici o sociali, e neppure di una valutazione sui
loro effetti sociali e culturali. Da scienziato sociale,
tuttavia la mia curiosità va proprio alle funzioni
e agli effetti culturali e sociali di ampio respiro.
In particolare, vorrei portare avanti l’ipotesi
di un effetto culturale e intellettuale lento. Piccoli
gruppi intellettuali impegnati non hanno un immediato
impatto politico e culturale sulla più vasta
scena sociale, politica e culturale, come viene spesso
notato (e, a volte, forse senza necessità,
deplorato). Se guardassimo alla questione da un’angolazione
leggermente differente, le cose potrebbero apparire
in qualche modo diverse. Se osservassimo i cambiamenti
culturali e le innovazioni più profonde, lo
sviluppo di idee pubbliche influenti, e infine le
conseguenze pratiche di questi sviluppi, sia per quanto
riguarda la politica che per quanto riguarda la vita
privata di ogni giorno, il quadro potrebbe cambiare.
Infatti gli importanti cambiamenti che si sono verificati
nei due secoli passati sono stati influenzati da quei
discorsi minoritari che hanno avuto luogo in campo
culturale e intellettuale.
Prendiamo in considerazione solo gli ultimi decenni
e consideriamo i cambiamenti nel senso comune sulla
guerra e sulla pace, sulla povertà nel mondo,
sui diritti umani, sulle minoranze culturali e sociali,
sui sessi e sui rapporti familiari, sul nostro rapporto
con il mondo naturale, con i nostri corpi e con il
loro sviluppo: si tratta di elementi che riteniamo
importanti nel nostro repertorio culturale. Non ci
sono sempre stati cambiamenti nelle opinioni della
maggioranza, e certamente non abbiamo avuto un’attenuazione
di opinioni discordanti, ma i cambiamenti nello spettro
delle idee articolate e difese pubblicamente, lo sviluppo
di nuovi schemi e argomentazioni, in breve: una forma
differente del paesaggio culturale e intellettuale.
Non tutto questo è stato certo condizionato
da quello che ho definito discorso pubblico alto.
I cambiamenti sono stati influenzati dalle esperienze
collettive e dai conflitti sociali oltre che dai nuovi
stili di vita e di lavoro. Ma questi cambiamenti non
sarebbero stati possibili senza la produzione di idee
e argomentazioni all’interno di queste sfere
pubbliche più piccole e, in un certo senso,
elitarie. Le idee dovevano venire fuori da qualche
parte. Oltre ciò, sappiamo ben poco si questi
processi di produzione, diffusione e cambiamento culturale.
Sappiamo poco anche dei tipi di reti e dei contatti
informali e semiformali che incoraggiano lo scambio
culturale e intellettuale tra nazioni diverse, o che
rendono possibile la produzione di riviste e giornali
culturali in primo luogo. Mi piacerebbe di certo vedere
una maggiore cooperazione tra gli scienziati sociali
e i produttori di cultura nel tentare di rendere più
chiari questi processi.
(traduzione dall’inglese di Martina Toti)
(c) Eurozine, www.eurozine.com
Bernhard Peters è docente di Teorie della
Politica e Storia delle idee all’Università
di Brema; è tra i fondatori e dirigenti dell’
Institute for Intercultural and International Studies
che ha sede a Brema.
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