
Internet è considerato generalmente un’invenzione
americana, un mito questo che viene tenuto vivo anche
negli Stati Uniti. Un breve sguardo alla storia di questa
rivoluzione tecnologica ci permette di correggere l’errore.
Il salto di qualità, che ha sottratto internet
alla sfera esclusiva delle università, dei patiti
di computer e dell’esercito, è avvenuto
in Europa. E’ stato l’inglese Tim Berners-Lee
a inventare lo standard
html, che ha trasformato
la rete nel
world wide web e l’ha resa
praticabile e utilizzabile per milioni di utenti. Lo
standard Mp3, che comprime i file musicali fino a un
ventesimo delle loro dimensioni originali e ha portato
l’industria musicale sull’orlo della rovina,
è stato sviluppato da un piccolo gruppo di scienziati
del
Fraunhofer-Institut für Integrierte Schaltungen
(il
Fraunhofer-Institut per i circuiti
integrati) di Erlangen in Germania. E infine la rete
nel suo attuale aspetto non potrebbe esistere se non
fosse stato per il finlandese Linu Thorvald che ha inventato
il software
Linux. Questo software non è
molto diffuso tra i personal computer ma molto utilizzato
dai server, per esempio da quei computer che alimentano
i contenuti in internet. Senza
Linux, l’intera
popolazione della rete avrebbe dovuto pagare delle vere
e proprie licenze a
Microsoft e internet avrebbe
avuto uno sviluppo decisamente rudimentale.

Perciò
è stata l’Europa a trasformare per prima
la rete in un
mass medium eppure non si tratta
di un successo europeo. Sorprendentemente, tutte le
idee sul business della rete sono state sviluppate negli
Stati Uniti.
Yahoo
resta il più importante portale di internet e
offre oggi infiniti e differenziati strumenti per milioni
di clienti.
Amazon
non ha solo sconvolto il commercio dei libri ma ha alterato,
tranquillamente e quasi senza essere notato, l’intero
pubblico letterario in maniera decisiva.
Ebay
ha messo radicalmente in questione le pratiche esistenti
relative alla distribuzione e ai prezzi del commercio
al dettaglio nonché le relazioni con i consumatori
su scala mondiale.
Google
è diventato sinonimo di internet e combina una
posizione di monopolio alla
Microsoft con un’immagine
piacevole alla
Apple.

L’Europa
ha offerto standard gratuiti e di portata industriale
per l’incredibile avanzata di internet, ma solo
gli americani hanno avuto idee irresistibili per poterlo
sfruttare. I gruppi finanziari inflessibili e le strutture
di potere dell’economia europea che, nonostante
il boom di internet e della Borsa di 4 anni fa, hanno
reso impossibile lo sviluppo di nuove idee per la rete,
vanno annoverate tra le ragioni dell’attuale situazione.
Il fallimento del gruppo
Bertelsmann,
uno dei più grandi a livello mondiale nel settore
del commercio di libri via internet è esemplare.
Mentre Jeff Bezos aveva avviato Amazon in un piccolo
magazzino di Seattle, Bertelsmann investiva, fin dall’inizio,
tra i 150 e i 300 milioni di euro per sconfiggere Amazon
e controllare il mercato internazionale.
Bol,
tuttavia, non ha mai raggiunto più del 20% del
giro d’affari di Amazon.. Alla fine Bertelsmann
ha chiuso il commercio via internet e ha venduto, per
una cifra irrisoria, le migliaia di indirizzi e-mail
dei suoi clienti tedeschi a
Thalia, il suo
più grande concorrente nel commercio librario
in area tedesca. Nel frattempo
Amazon.de è
diventato il più grande rivenditore di libri
in Germania.
La goffaggine dell’Europa nello sfruttare internet
si è tristemente ripetuta per quanto riguarda
le sfere pubbliche – o
Öffentlichkeiten
– europee, o, almeno, per quanto riguarda le sfere
pubbliche dell’Europa occidentale, ed è
arrivata fino ai circoli esclusivi del pubblico degli
intellettuali. A differenza di quanto avviene negli
Stati Uniti, dove molti quotidiani restano gratuiti
on line, molti giornali in Europa hanno rinunciato al
pubblico di internet.
El Pais in Spagna,
Il
Corriere della Sera in Italia,
il Süddeutsche
Zeitung e il Frankfurter Allgemeine Zeitung in
Germania offrono, infatti, i propri contenuti solo agli
utenti abbonati. In questo modo non si raggiungeranno
certo nuovi lettori per il prodotto cartaceo dal momento
che gli internauti, ormai abituati alla rete, si registrano
solo in quei media che si trovano, in primo luogo, on
line.
Per quanto sia legittimo il rifiuto di fornire gratuitamente
dei contenuti che sono, in realtà, costosi
da produrre, resta aperta la questione se l’offerta
gratuita dei contenuti in rete abbia finora danneggiato
economicamente le riviste che l’hanno praticata.
E’ vero, almeno in massima parte, che internet
ha attaccato i vecchi media, ma non per via dei contenuti
gratuiti. Piuttosto per via della sezione relativa
a professioni e beni immobili su cui i giornali difficilmente
riusciranno a risalire la china – da questo
punto di vista internet è semplicemente troppo
pratico. Tuttavia è proprio su questo punto
che i media europei si sono dimostrati incapaci. La
tattica di mettersi imbronciati in un angoletto, scelta
da molti media dopo l’isteria del boom e il
panico del crash di cui erano in realtà responsabili,
non porterà alcun beneficio né ai giornali
né al pubblico.
Ancora peggiore, persino catastrofico, lo scenario
dei circoli intellettuali europei, almeno quando si
considera la presenza dei giornali culturali. Il caso
di Micromega, la rivista culturale italiana
che è diventata il punto focale dell’opposizione
intellettuale contro il governo Berlusconi e che fino
a oggi si astiene da qualsiasi presenza in rete, è
un esempio lampante. Quanto potere la rivista e gli
intellettuali italiani avrebbero acquisito se si fossero
aperti al pubblico internazionale? In Germania riviste
come Lettre
International, Kommune
,Merkur
o Literaturen
offrono alcuni rudimenti dei loro contenuti gratuitamente
– ma anche in Germania le possibilità
offerte da internet sono state poco sfruttate. In
Francia, dove i giornali intellettuali erano appartenuti
un tempo agli organi centrali del pensiero cosmopolita,
Esprit
ha inaugurato, dopo una lunga assenza, un indirizzo
internet tappezzato da carrelli della spesa, ed euro.
Non si riesce neppure a leggere gli editoriali del
numero corrente che, tutto sommato, dovrebbero pubblicizzare
la scelta dei temi gratuiti.
Giornali come Commentaire
o Le
Débat – tra gli indirizzi intellettuali
migliori in Francia - non riescono neppure a offrire
un indice comprensibile dei contenuti on line. In
questo modo, da arroganti e ignoranti, ci si avvia
sulla strada dell’irrilevanza internazionale.
Sembrerebbe che i media europei abbiano avuto paura
di internet, che abbiano visto i rischi ma nessuna
delle formidabili opportunità offerte dalla
rete.
Nell’anno dell’allargamento dell’Unione
a dieci nuovi paesi, gli intellettuali europei stanno
disperatamente cercando una sfera pubblica europea
senza però riuscire a trovarla. I singoli paesi
– almeno questo vale per l’Europa occidentale
– sono concentrati su se stessi e fermi nella
propria scelta a favore o contro gli Stati Uniti.
Per esempio, se si dovesse misurare l’influenza
culturale della Germania sulla Francia o viceversa,
si noterebbe un drastico declino a partire dagli anni
Cinquanta. Allo stesso tempo i grandi giornali europei
non sono mai stati in grado di creare una rete. I
tentativi come quello di Liber di Pierre Bourdieu
si sono fermati agli stadi iniziali. Le università
sono connesse, ma manca loro il pubblico generale.
I giornali culturali operano ai margini è sono
appena notati dai grandi quotidiani.
L’incarnazione più triste della “vecchia
Europa” di Donald Rumsfeld si è avuta
nel tentativo compiuto dal filosofo tedesco Jürgen
Habermas con il lancio dell’iniziativa Kerneuropa
contro la guerra in Iraq e per la “nuova Europa”,
attraverso diversi quotidiani. Habermas pubblicò
il suo articolo sul Frankfurter Allgemeine Zeitung,
mentre altri suoi colleghi avevano scritto sul Süddeutsche
Zeitung , su El Pais e sul Corriere
della Sera. Nessuno di questi quotidiani ha pubblicato
però gli articoli on line. Ciò significa
che un intellettuale di Madrid, Parigi o Berlino,
se interessato, avrebbe dovuto fare il giro di diverse
stazioni ferroviarie prima di riuscire ad acquistare
quattro quotidiani di tre nazioni diverse. Pochi giorni
dopo, il dibattito era già stato dimenticato.
Se Habermas avesse investito poche migliaia di euro
per costruire un suo piccolo sito, se avesse pubblicato
contemporaneamente e in inglese il suo articolo e
quelli dei suoi colleghi, l’impatto sarebbe
stato forte. I quotidiani sarebbero stati costretti
a parlarne. Forse sarebbero intervenuti nel dibattito.
Allo stesso tempo il pubblico avrebbe potuto discutere
nei forum di Kerneuropa.org e, grazie all’uso
della lingua inglese, l’intero pubblico internazionale
sarebbe stato in grado di partecipare.
Gli intellettuali europei devono costatare che l’Europa
come istituzione sta acquistando potere, mentre come
spazio pubblico esiste appena. Allo stesso tempo,
il pubblico è stato globalizzato dalla rete,
come hanno dimostrato i discorsi seguiti all’11
settembre. I grandi media americani inserirono on
line molto materiale d’archivio sull’Afghanistan,
Bin Laden e il terrorismo, e una settimana dopo il
tedesco Spiegel
citava interi paragrafi dal New
Yorker , senza tuttavia nominare la fonte. Quando
Arundhati Roy in Outlook
India pubblicò una furiosa invettiva contro
gli americani, allora i media europei quasi contemporaneamente
ne presero nota, grazie a nuovi servizi offerti da
internet come Arts&Letters
Daily o Perlentaucher.
Questi esempi mostrano che, dalla prospettiva di internet,
il contrasto non è tra Europa e America ma
tra il pubblico che è in grado di parlare la
lingua inglese e tutto il resto. Un sito internet
come Arts&Letters Daily che seleziona degli “articoli
degni di nota” per la sua rassegna stampa da
riviste culturali e media di qualità, può
fare affidamento su centinaia di fonti, dal quotidiano
arabo Al
Ahram, al Guardian
fino ad arrivare a uno sconosciuto giornale pubblicato
da un istituto universitario statunitense.
Persino nei paesi di madre lingua inglese, alcuni
media possono chiudersi alle possibilità offerte
dalla rete, ma, generalmente, i quotidiani americani
o inglesi assicurano un accesso più libero
ai propri contenuti senza offrire, per questo, tutto
gratuitamente. Il New
York Times fornisce uno dei migliori e più
accessibili servizi sulla rete e, stando ai dati,
ne trae profitto. Anche le riviste culturali americane
sono più generose di quelle europee. Spesso
hanno degli sponsor e non sono interessate primariamente
alla vendita dei loro contenuti quanto piuttosto alla
loro diffusione presso un pubblico il più vasto
possibile. Si sono così aperte a un lettorato
nuovo che prima sapeva a stento della loro esistenza
e che oggi le rintraccia facilmente tramite Google.
Se Samuel Huntington scrivesse su Foreign
Policy sulla minoranza messicana negli Stati Uniti,
il FAZ, un quotidiano che non è in
rete, lo citerebbe già il giorno successivo.
La tendenza verso la lingua inglese diventerà
ancora più irresistibile grazie a internet.
L’inglese migliorerà il pubblico europeo.
L’Europa seguirà il percorso già
compiuto dai paesi del Terzo Mondo: i dibattiti fondamentali
avverranno in inglese e i nuovi media e le nuove reti
si svilupperanno formando questo nuovo pubblico. Dalla
prospettiva della rete, l’Europa appare come
un mosaico di identità e idiomi, che, a differenza
di quanto avviene nel mosaico africano o in quello
indiano, apparentemente restano autonomi gli uni dagli
altri.
Quello che è straordinario in tutto questo
è che, specialmente i due grandi paesi della
Kerneuropa, Germania e Francia ignorano quasi
del tutto questo sviluppo e si nascondono dietro un’apparente
accusa di globalizzazione e dietro l’insistenza
sul “vecchio modo di fare le cose”. L’accusa
di globalizzazione non riesce a cogliere l’opportunità
che si cela dietro questa tendenza verso l’inglese,
l’opportunità, in primo luogo, di mostrare
una differenza regionale all’interno di un idioma
globalizzato cercando contemporaneamente la compatibilità
con tutte le altre identità. L’India
non sarebbe la più grande democrazia al mondo
senza l’inglese. Straordinario tuttavia è
anche il fatto che fino a ora, solo un grande quotidiano
ha i mezzi per costruire un pubblico europeo con un
giornale di lingua inglese: il New York Times
con l’International Herald Tribune.
(c) Eurozine, www.eurozine.com
Thierry Chervel è direttore e cofondatore di
Perlentaucher.
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