È
uno dei più interessanti jazzisti del momento,
suona praticamente ovunque nelle migliori sale delle
più importanti città europee e nei festival
di maggior richiamo, ha fondato un gruppo di successo
come gli Aires Tango che hanno inciso 9 cd in dieci
anni, suona con i migliori jazzisti europei, non si
stanca di sperimentare con i più giovani e ha
fondato recentemente un quartetto di sassofoni classici.
Ma quando ti parla tutto questo sembra non saperlo.
Risponde franco e attento alle domande, riflette un
attimo serio di fronte alle questioni che lo riguardano
da vicino oltre la musica, come la salvaguardia dell’ambiente
e la situazione politica del suo paese, l’Argentina.
Non un briciolo di presunzione. Questo è Javier
Girotto, un musicista di eccezionale talento e un uomo
di grande carisma che ha percorso la sua carriera da
un continente all’altro fermandosi in Italia,
per quello che il verbo “fermarsi” può
significare nella vita di un musicista. Abbiamo parlato
con lui di musica e di progetti, curiosando nella sua
idea di Europa.
Tu sei argentino ma hai scelto l’Italia
come paese d’adozione; quale era l’idea
che avevi dell’Europa prima di venire a viverci?
Le mie origini sono italiane, come dice chiaramente
il mio cognome; mio nonno era infatti di Fasano, una
cittadina pugliese, ma si era trasferito con la sua
famiglia in Argentina quando era piccolissimo e perciò
si riteneva argentino. L’Italia era una vaga idea
che circolava in famiglia come ricordo lontano ma non
la sentivo parte della mia vita e men che meno un posto
dove tornare. Quando ero molto giovane e cominciavo
a pensare di intraprendere la carriera di musicista
pensavo di trasferirmi in Francia. La Francia attira
molto i musicisti argentini, c’è un nucleo
di artisti legati al mondo del tango che hanno un filo
diretto con la Francia e così mi sembrava che
se ci fosse stato un posto dove stabilirmi in Europa
quello doveva essere la Francia.
E invece le cose non sono andate proprio così.
In Francia ho passato un periodo di un anno, lavorando
per l’Orchestra Nazionale del Jazz a Parigi nel
2000. Dal punto di vista musicale è stata un’esperienza
interessante ma la vita a Parigi non mi è piaciuta
granché, la città è molto violenta,
c’è un senso di insicurezza generale; e
poi sento gli italiani più vicini alla mentalità
sudamericana e argentina. Qui in Italia ho avvertito
subito una familiarità diversa. Ero arrivato
a Roma poco più che ventenne, nel gennaio 1991,
dopo quattro anni trascorsi negli Stati Uniti grazie
ad una borsa di studio al Berklee di Boston; l’obbiettivo
era quello di prendere il passaporto europeo grazie
alle mie origini italiane per poi trasferirmi in Francia.
E invece è stato amore a prima vista; ho capito
subito che Roma era un bel posto per vivere. Mi piaceva
l’arte e l’architettura che si respira in
questa città, mi colpiva la natura dei dintorni
e così decisi su due piedi di rimanere, cercando
di guadagnarmi da vivere suonando. All’inizio
presi contatto con i musicisti argentini che erano a
Roma, suonavo nelle sale da ballo di salsa, in varie
formazioni. Da lì sono cominciati i primi contatti
con musicisti con cui ho formato alcuni gruppi di latin
jazz e nel 1994 ho dato vita ad Aires Tango, che è
quella più nota tra le formazioni con cui suono.
Non c’è dubbio che Roma sia una
città affascinante dal punto di vista storico
e artistico; e dal punto di vista musicale?
Non credo ci sia un’altra città in Italia
musicalmente più vivace di Roma. Anche Milano,
che in passato è stata senz’altro all’avanguardia
adesso scarseggia di locali dove si possa ascoltare
del buon jazz, rischia di essere battuta da un qualsiasi
paesino che metta su un festival jazz e ce ne sono moltissimi
davvero interessanti specialmente nel periodo estivo.
La Roma del jazz deve molto senz’altro a Walter
Veltroni, che ha dato un impulso estremamente positivo
intanto alla creazione della Casa del Jazz (la villa
a ridosso delle mura aureliane che è stata inaugurata
nel 2005 e che si occupa di divulgare il jazz, ndr)
e poi ha creato le condizioni per cui anche nei cartelloni
dell’Auditorio ci fosse molto spazio per questo
genere di musica.
E fra le città europee? Dove ti sei
sentito più a casa?
Mi ha colpito molto Praga; l’ho trovata un posto
davvero affascinante, ricca di monumenti di grande impatto
architettonico. Di sicuro il fatto che avessimo un concerto
all’interno della Fortezza, uno dei luoghi più
suggestivi della città, ha rafforzato la mia
impressione…
Torniamo alla musica. Quanto c’è
di argentino e quanto di europeo nella musica che scrivi
e nei progetti che hai realizzato in questi anni?
Il mio nonno italiano suonava il bandoneon e dirigeva
alcune bande nella mia cittadina. Con lui ho cominciato
a suonare il clarinetto e il sassofono, e poi ho continuato
a studiare sostanzialmente da autodidatta e a sperimentare
in un ambito legato al nostro folklore. Andando avanti
con gli anni e con gli studi musicali sentivo il desiderio
di guardare alle altre tradizioni musicali e in particolare
al jazz americano e per questo desideravo lasciare l’Argentina,
come poi in effetti ho fatto appena maggiorenne, trascorrendo
quattro anni negli Stati Uniti. Venendo in Europa mi
è accaduta una cosa strana: ho avuto nostalgia
del sudamerica e ho cominciato a guardare alla tradizione
del nostro folklore, che da noi viene considerato quasi
un repertorio di serie B, con occhi diversi, nel desiderio
di recuperare tutto quello che di vitale c’è
nella nostra musica. Il mio progetto era partire da
Piazzolla e continuare una ricerca che potesse portare
ad un’ulteriore evoluzione. Ecco perché
ho cercato musicisti italiani e non argentini, ed ecco
perché non ho voluto il bandoneon nelle formazioni,
uno strumento che dà una connotazione eccessivamente
folklorica. Soprattutto per Aires Tango ho scritto moltissimi
pezzi nuovi che puntavano in questa direzione, realizzando
ben nove cd.
Ma Javier Girotto non è solo Aires Tango,
o sbaglio?
No, non sbagli. Nella musica, come nella vita, è
importante non fermarsi mai, cercare sempre nuove strade
per evolversi e per rinnovare la propria energia. Ecco
perché non ho mai smesso di portare avanti altri
progetti che mi permettessero di esplorare nuove formazioni
e nuove situazioni musicali. Ultimamente ho inciso un
disco, Nahuel, con un quartetto d’archi, il Vertere
String Quartet.
Sto poi formando un quartetto di sassofoni classici
composto di giovani musicisti italiani. Il confronto
con i giovani attraverso l’insegnamento è
molto stimolante per me. La musica è fondamentalmente
uno scambio di energia e quando fai questo lavoro per
molto tempo, il rischio è di perdere la verve
che hai all’inizio, la voglia di crescere e di
sperimentare; trovare energie nuove ogni giorno è
difficile e il rischio dietro l’angolo è
quello di far diventare la musica un mestiere. I giovani
danno una grande carica e ti mettono a riparo da questo
pericolo; hanno più energia, più disponibilità
e tempo da investire.
Venendo in Europa non hai dimenticato i problemi
importanti della tua terra, l’Argentina. Molti
tuoi cd contengono brani dedicati ai desaparecidos e
ai parenti di queste vittime della dittatura, altri
invece sono dedicati alla difesa dell’ambiente
e delle popolazioni indios, spesso vittime della globalizzazione.
Anche se io non ho subito personalmente i danni della
dittatura e sono uscito dal mio paese molto giovane,
negli anni della mia infanzia e adolescenza ho sentito
attorno a me il peso di queste tragedie e sento la responsabilità
di non dimenticare, di testimoniare anche attraverso
la musica i problemi che sono di tutti in un mondo globalizzato.
Specialmente l’ambiente e la vita di popolazioni
indigene danneggiate da multinazionali che comprano
i loro territori e limitano l’accesso all’acqua
e alle risorse naturali, di fatto decretandone la fine,
mi sta particolarmente a cuore e penso che in Europa
possiamo fare molto per non dimenticarli e scrivere
una fine diversa per la loro storia.
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