328 - 25.09.07


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“È Roma la mia capitale del jazz”

Javier Girotto con
Daniela Gangale


È uno dei più interessanti jazzisti del momento, suona praticamente ovunque nelle migliori sale delle più importanti città europee e nei festival di maggior richiamo, ha fondato un gruppo di successo come gli Aires Tango che hanno inciso 9 cd in dieci anni, suona con i migliori jazzisti europei, non si stanca di sperimentare con i più giovani e ha fondato recentemente un quartetto di sassofoni classici. Ma quando ti parla tutto questo sembra non saperlo. Risponde franco e attento alle domande, riflette un attimo serio di fronte alle questioni che lo riguardano da vicino oltre la musica, come la salvaguardia dell’ambiente e la situazione politica del suo paese, l’Argentina. Non un briciolo di presunzione. Questo è Javier Girotto, un musicista di eccezionale talento e un uomo di grande carisma che ha percorso la sua carriera da un continente all’altro fermandosi in Italia, per quello che il verbo “fermarsi” può significare nella vita di un musicista. Abbiamo parlato con lui di musica e di progetti, curiosando nella sua idea di Europa.

Tu sei argentino ma hai scelto l’Italia come paese d’adozione; quale era l’idea che avevi dell’Europa prima di venire a viverci?

Le mie origini sono italiane, come dice chiaramente il mio cognome; mio nonno era infatti di Fasano, una cittadina pugliese, ma si era trasferito con la sua famiglia in Argentina quando era piccolissimo e perciò si riteneva argentino. L’Italia era una vaga idea che circolava in famiglia come ricordo lontano ma non la sentivo parte della mia vita e men che meno un posto dove tornare. Quando ero molto giovane e cominciavo a pensare di intraprendere la carriera di musicista pensavo di trasferirmi in Francia. La Francia attira molto i musicisti argentini, c’è un nucleo di artisti legati al mondo del tango che hanno un filo diretto con la Francia e così mi sembrava che se ci fosse stato un posto dove stabilirmi in Europa quello doveva essere la Francia.

E invece le cose non sono andate proprio così.

In Francia ho passato un periodo di un anno, lavorando per l’Orchestra Nazionale del Jazz a Parigi nel 2000. Dal punto di vista musicale è stata un’esperienza interessante ma la vita a Parigi non mi è piaciuta granché, la città è molto violenta, c’è un senso di insicurezza generale; e poi sento gli italiani più vicini alla mentalità sudamericana e argentina. Qui in Italia ho avvertito subito una familiarità diversa. Ero arrivato a Roma poco più che ventenne, nel gennaio 1991, dopo quattro anni trascorsi negli Stati Uniti grazie ad una borsa di studio al Berklee di Boston; l’obbiettivo era quello di prendere il passaporto europeo grazie alle mie origini italiane per poi trasferirmi in Francia. E invece è stato amore a prima vista; ho capito subito che Roma era un bel posto per vivere. Mi piaceva l’arte e l’architettura che si respira in questa città, mi colpiva la natura dei dintorni e così decisi su due piedi di rimanere, cercando di guadagnarmi da vivere suonando. All’inizio presi contatto con i musicisti argentini che erano a Roma, suonavo nelle sale da ballo di salsa, in varie formazioni. Da lì sono cominciati i primi contatti con musicisti con cui ho formato alcuni gruppi di latin jazz e nel 1994 ho dato vita ad Aires Tango, che è quella più nota tra le formazioni con cui suono.

Non c’è dubbio che Roma sia una città affascinante dal punto di vista storico e artistico; e dal punto di vista musicale?

Non credo ci sia un’altra città in Italia musicalmente più vivace di Roma. Anche Milano, che in passato è stata senz’altro all’avanguardia adesso scarseggia di locali dove si possa ascoltare del buon jazz, rischia di essere battuta da un qualsiasi paesino che metta su un festival jazz e ce ne sono moltissimi davvero interessanti specialmente nel periodo estivo. La Roma del jazz deve molto senz’altro a Walter Veltroni, che ha dato un impulso estremamente positivo intanto alla creazione della Casa del Jazz (la villa a ridosso delle mura aureliane che è stata inaugurata nel 2005 e che si occupa di divulgare il jazz, ndr) e poi ha creato le condizioni per cui anche nei cartelloni dell’Auditorio ci fosse molto spazio per questo genere di musica.

E fra le città europee? Dove ti sei sentito più a casa?

Mi ha colpito molto Praga; l’ho trovata un posto davvero affascinante, ricca di monumenti di grande impatto architettonico. Di sicuro il fatto che avessimo un concerto all’interno della Fortezza, uno dei luoghi più suggestivi della città, ha rafforzato la mia impressione…

Torniamo alla musica. Quanto c’è di argentino e quanto di europeo nella musica che scrivi e nei progetti che hai realizzato in questi anni?

Il mio nonno italiano suonava il bandoneon e dirigeva alcune bande nella mia cittadina. Con lui ho cominciato a suonare il clarinetto e il sassofono, e poi ho continuato a studiare sostanzialmente da autodidatta e a sperimentare in un ambito legato al nostro folklore. Andando avanti con gli anni e con gli studi musicali sentivo il desiderio di guardare alle altre tradizioni musicali e in particolare al jazz americano e per questo desideravo lasciare l’Argentina, come poi in effetti ho fatto appena maggiorenne, trascorrendo quattro anni negli Stati Uniti. Venendo in Europa mi è accaduta una cosa strana: ho avuto nostalgia del sudamerica e ho cominciato a guardare alla tradizione del nostro folklore, che da noi viene considerato quasi un repertorio di serie B, con occhi diversi, nel desiderio di recuperare tutto quello che di vitale c’è nella nostra musica. Il mio progetto era partire da Piazzolla e continuare una ricerca che potesse portare ad un’ulteriore evoluzione. Ecco perché ho cercato musicisti italiani e non argentini, ed ecco perché non ho voluto il bandoneon nelle formazioni, uno strumento che dà una connotazione eccessivamente folklorica. Soprattutto per Aires Tango ho scritto moltissimi pezzi nuovi che puntavano in questa direzione, realizzando ben nove cd.

Ma Javier Girotto non è solo Aires Tango, o sbaglio?

No, non sbagli. Nella musica, come nella vita, è importante non fermarsi mai, cercare sempre nuove strade per evolversi e per rinnovare la propria energia. Ecco perché non ho mai smesso di portare avanti altri progetti che mi permettessero di esplorare nuove formazioni e nuove situazioni musicali. Ultimamente ho inciso un disco, Nahuel, con un quartetto d’archi, il Vertere String Quartet.
Sto poi formando un quartetto di sassofoni classici composto di giovani musicisti italiani. Il confronto con i giovani attraverso l’insegnamento è molto stimolante per me. La musica è fondamentalmente uno scambio di energia e quando fai questo lavoro per molto tempo, il rischio è di perdere la verve che hai all’inizio, la voglia di crescere e di sperimentare; trovare energie nuove ogni giorno è difficile e il rischio dietro l’angolo è quello di far diventare la musica un mestiere. I giovani danno una grande carica e ti mettono a riparo da questo pericolo; hanno più energia, più disponibilità e tempo da investire.

Venendo in Europa non hai dimenticato i problemi importanti della tua terra, l’Argentina. Molti tuoi cd contengono brani dedicati ai desaparecidos e ai parenti di queste vittime della dittatura, altri invece sono dedicati alla difesa dell’ambiente e delle popolazioni indios, spesso vittime della globalizzazione.

Anche se io non ho subito personalmente i danni della dittatura e sono uscito dal mio paese molto giovane, negli anni della mia infanzia e adolescenza ho sentito attorno a me il peso di queste tragedie e sento la responsabilità di non dimenticare, di testimoniare anche attraverso la musica i problemi che sono di tutti in un mondo globalizzato. Specialmente l’ambiente e la vita di popolazioni indigene danneggiate da multinazionali che comprano i loro territori e limitano l’accesso all’acqua e alle risorse naturali, di fatto decretandone la fine, mi sta particolarmente a cuore e penso che in Europa possiamo fare molto per non dimenticarli e scrivere una fine diversa per la loro storia.

 

 

 

 

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