È la forza dei piccoli fatti, della storia vissuta
sulla propria pelle e della voce che la racconta. Questa
è la storia che piace a Geert Mak, giornalista
olandese, che nel 1999, ha girato l’Europa in
lungo e in largo, da Parigi a Verdun, da Predappio a
Guernica, passando per Cefalonia, Norimberga, Auschwitz,
Vichy, Berlino e Pietrogrado. Ai confini del ‘900,
Mak ha attraversato il continente raccogliendone l’anima
nei racconti delle persone che a quel secolo hanno dato
vita. Dagli articoli pubblicati durante il viaggio per
il quotidiano olandese NRC Handelsblad è
nato un libro che, come un diario, ripercorre, mese
per mese, le tappe raggiunte: Europa. Viaggio attraverso
il XX secolo (Fazi editore) oltre mille pagine
di quella che gli esperti chiamano storia evenemenziale,
in cui singole voci e singoli fatti si compongono nel
mosaico del secolo europeo.
“La memoria dei nostri padri, dei nostri nonni
– dice Mak – può aiutarci a capire
l’atmosfera, l’aria del loro tempo, e noi,
così, possiamo cercare di riviverlo, anche se
solo nell’immaginazione, avendo di fronte ai nostri
occhi la forza dell’esperienza vissuta che ci
trasmette fatti e sensazioni, con dettagli e particolari
che sfuggono normalmente alla storia ufficiale. È
importante conoscere le storie che camminano parallele
alla Storia”.
Sono importanti le storie dei singoli, ma non
è rischioso leggere il passato attraverso i ricordi
personali? Non si rischia di deviare un po’ dalla
ricostruzione del vero?
Bisogna saper scegliere e selezionare. A volte i ricordi
e la memoria possono essere strani, la gente tende a
dimenticare le cose brutte e a esagerare le cose belle,
bisogna fare attenzione. Ma nei ricordi individuali
emergono elementi che sfuggono ai manuali. Nei racconti
dei tedeschi che si riparavano dai bombardamenti, ad
esempio, si tocca la loro paura, e parlando ora con
quelle persone possiamo capire come hanno fatto esperienza
della storia. Ovviamente non basta alla conoscenza,
la storiografia tradizionale è indispensabile,
ma noi dovremmo cercare di mettere insieme le due cose
per avere una quadro completo.
Per un anno intero ha girato l’Europa
parlando con le persone che incontrava e raccogliendo
testimonianze. Ha trovato, in questa sua esperienza,
un comune sentire per cui si possa dire che le persone
che ha incontrato sono europei e non solamente polacchi,
italiani tedeschi o spagnoli?
No. Le sensazioni della gente e la loro appartenenza
si formano e si identificano a un livello che è
nazionale. In realtà in nazioni diverse ci sono
diverse attitudini nei confronti dell’Europa e
del sentirsi europei.
L’Europa è un’entità dalle
molte facce, e chiunque voglia pensarla come istituzione
ha in mente Bruxelles, una proiezione che va al di fuori
della propria realtà nazionale. Questo è
un problema oggi e lo sarà per il futuro perché
tutti noi ci aspettiamo grandi cose dall’Europa,
ma ciascuno di noi si aspetta cose diverse, non esiste
un progetto univoco, non esistono delle aspettative
e delle aspirazioni univoche verso l’Europa.
Il suo viaggio ha toccato molti paesi dell’est
che sono entrati da poco a titolo effettivo nell’Ue.
Sono paesi in cui la crescita della democrazia conta
molto sulle promesse dell’Unione.
Non è solo una questione di promesse, è
una questione di apertura, possibilità e opportunità.
Sono un po’ pessimista su questo.
Ho visto cambiare con i miei occhi paesi come la Polonia
e l’Ungheria negli ultimi anni, e bisogna dire
che l’Unione europea come fattore di modernizzazione
e di cambiamento funziona, ma non so dire se abbastanza
velocemente. Questa è un’altra cosa.
Stiamo parlando di paesi che scontano un ritardo abbastanza
elevato, soprattutto se leggiamo cifre e dati socio-economici;
gli abitanti della vecchia Europa dell’est si
aspettavano, prima di entrare nell’Ue, che in
pochi anni sarebbero arrivati allo stesso tenore di
vita che hanno i cittadini dell’ovest. Oggi un
miglioramento inizia ad esserci, ma è lento ed
è un cambiamento indirizzato soprattutto alle
generazioni future, sono loro che ne raccoglieranno
i frutti. Gli attuali neocittadini europei probabilmente
non faranno in tempo a vedere le loro condizioni economiche
e di sviluppo radicalmente cambiate e migliorate grazie
all’Unione. Io non so, quindi, se le attuali popolazioni
di questi paesi abbiano pazienza sufficiente per saper
aspettare a lungo. Il pericolo più grande, che
è anche un fattore di accelerazione di questa
impazienza, è il populismo che possiamo veder
vincere e crescere in molte di queste realtà,
come ad esempio Polonia e Ungheria. I leader populisti
stanno cercando di raccogliere queste impazienze e giocarle
a loro favore, portandole verso una direzione che allontanerà
questi paesi dalla modernizzazione. Credo che arriveranno
tempi complicati.
Se ad est l’impazienza non genera fiducia
verso l’Unione europea, ad ovest, persino nei
paesi tradizionalmente euro-entusiasti, la distanza
tra l’Europa, le sue istituzioni, e la vita dei
cittadini sembra tangibile. L’Europa appare sempre
come qualcosa di distante, non sarà che l’europeismo
si percepisce troppo come un discorso da intellettuali
e da politici?
No, no. Credo che sia vero esattamente il contrario.
Esiste un modo di raccontare l’Europa in maniera
esclusivamente filosofica, come se si trattasse di un
argomento tutto intellettuale.
Ma in realtà possiamo vedere l’Europa negli
individui, nei cittadini; oltre ogni discorso filosofeggiante,
possiamo vedere l’esistenza di un’Europa
delle persone, perché l’europeizzazione
è parte della globalizzazione; le nostre vite
sono interconnesse, sono legate tra di loro in un mondo
che attraversiamo con una facilità mai conosciuta
prima. E grazie a questo movimento, grazie alle enormi
possibilità di comunicare agevolmente oltre le
distanze, si formano delle reti di comunicazioni e di
relazioni che sono del tutto nuove rispetto al passato,
e per le quali le distanze non sono un grosso problema.
L’Europa era già anni fa una comunità
basata su questi principi; l’Europa esiste concretamente,
è fatta di connessioni di comunicazione, è
fatta di movimenti artistici, è fatta di discussioni
e di scambi di idee. Questa dimensione esisteva già
negli anni Quaranta, ma dopo la guerra mondiale, abbiamo
dovuto ricostruirla da capo.
Non stiamo facendo altro che riparare ai nostri errori
passati.
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