Sentirlo
parlare è quasi una lezione di multiculturalismo:
“Vivo in Germania e mi ci trovo bene. Credo che
sia un vantaggio poter scegliere di vivere in un paese
in cui ci si sente bene, ma il fatto che io abbia un’origine
straniera non significa che debba sentirmi lacerato
dentro; nel mio caso non c’è stato un particolare
processo intellettuale, ma si è trattato di una
questione di affetti, di sensazioni: ho sentito nel
mio intimo che la mia patria è la Germania. Questo
però non mi vieta di trovarmi bene anche in Turchia
quando vado a trovare i miei genitori, e mi trovo a
mio agio in mezzo a quel popolo che trovo molto interessante,
allegro, divertente e pieno di paradossi”.
Feridun Zaimoglu vive in Germania dove è approdato
da piccolo al seguito dell’emigrazione dei genitori
dalla Turchia. Ora, a 43 anni, si definisce uno scrittore
tedesco con origine turche. L’energia della sua
scrittura è arrivata ai lettori italiani qualche
anno fa con Schiuma (Einaudi, 1999), romanzo
della “feccia turca”, racconto della vita
di un gruppo di reietti ai margini della società.
Ora è da poco tornato in libreria con Leyla
(Saggiatore), la storia di una ragazza che negli anni
Cinquanta fugge dalla Turchia verso la Germania, conquistando
la sua indipendenza da un padre che in famiglia semina
terrore e violenza. I suoi romanzi sono colorati di
un umore pungente che affiora anche nelle conversazioni
faccia a faccia, come quando rifiuta la parola integrazione
(“è una clava utilizzata a fini politici”)
mentre a un ragazzino turco appena immigrato in Germania
dice: “Alza le chiappe, non farti prendere dall’etno-isteria
e vai incontro alla tua vita”.
In molti hanno descritto Leyla come
il romanzo di una doppia migrazione: dalla Turchia alla
Germania e dalla sottomissione alla libertà.
Come giudica queste osservazioni?
Credo che questa definizione descriva bene il romanzo.
Leyla è la più giovane di cinque fratelli
e decide di rompere un tabù, di lasciare la famiglia,
andare in Germania e dare il via a una sorta di liberazione,
un’audace fuga da casa e dal padre tiranno. Leyla
inizia così la sua corsa verso la libertà,
si sposa giovane e con un bambino di cinque mesi intraprende
un viaggio molto doloroso, che la vede abbandonare il
suo ambiente e la sua cultura per fare un salto verso
un mondo completamente estraneo.
La storia di Leyla è vista e scritta
con occhi di donna. Come è riuscito a raccontare
una vicenda così complessa, tutta al femminile?
Quando metto una storia su carta mi sembra davvero
di diventare un’altra persona, forse tante persone
diverse. Quando inizio a lavorare a un libro ardo davvero
di passione per la storia che sto scrivendo e per la
scrittura in sé; tanta è questa passione
che arrivo a perdere fino a sei o sette chili di peso,
mi vengono gli stessi sintomi dell’innamoramento,
non ho più fame, non ho più sete, sono
dominato da questa specie di inquietudine per la scrittura.
Scrivere vuol dire accendere un rapporto e portarlo
fin dove ti conduce. Ora, ad esempio, sto scrivendo
un romanzo che mi sta prendendo molto, ho perso quattro
chili da quando l’ho iniziato, il che significa
che sono quasi a metà.
La sua vita è una specie di ponte tra
Turchia e Germania, come giudica il particolare momento
storico che vive il suo paese di origine e la possibilità
che entri nell’Unione europea?
Io mi definisco uno scrittore tedesco con genitori
turchi. Spesso mi viene chiesto di parlare dei temi
più disparati, della religione e dell’islam,
mi chiedono se ritengo opportuno che la Turchia diventi
o meno un membro della Unione europea. Quello che posso
rispondere io è che la comunità turca
in Germania non è omogenea, ma è composta
di opinioni diverse, disparate e combattute; tra queste,
alcune sostengono che la Turchia debba diventare membro
dell’Ue perché questo farà al bene
al paese. Io personalmente credo che la Turchia non
entrerà a far parte del Unione, non perché
non lo meriti, ma semplicemente perché non le
è riconosciuto un posto in seno all’Ue
dove è sempre rappresentata come qualcosa di
estraneo.
Se le chiedo una definizione di integrazione,
cosa mi risponde?
Quando sento la parola integrazione mi si irrigidiscono
le vene del collo perché è usata come
un concetto da combattimento, una clava utilizzata a
fini politici, una formula per rappresentare l’esistenza
di un “noi” e di un “voi” divisi
da un fossato insormontabile. È diventato un
mezzo per designare la mancanza di appartenenza, per
indicare un gruppo di persone che definiamo come stranieri.
Che cosa direbbe a un bambino di sei anni che
come lei, nato da genitori turchi, si trova in Germania
a dover imparare una nuova lingua e fare propria una
cultura diversa dalla sua?
Gli direi queste parole: “La Germania è
un paese stupendo in cui vivere, quindi alza le chiappe
e non farti prendere dall’etno-isteria, perché
la vita è una sfida che va vissuta, non bisogna
giocarci a nascondino, ma bisogna uscire fuori e andargli
incontro.”
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