“Solo
adesso, a distanza di anni, è possibile capire
interamente, almeno per me che vivo fuori dell’Iraq,
cosa fu la dittatura di Saddam Hussein, quale incredibile,
disumana atrocità fu quel periodo della storia
del mio paese”. Così lo scrittore Younis
Tawfik, nato a Mosul nel 1958 e esule in Italia dal
1979, rievoca, con accenti drammatici, lo spietato regime
del tiranno di Baghdad. Del resto, è proprio
la tragedia patita dal popolo iracheno sotto Saddam
e dell’esilio cui furono costretti gli oppositori
a segnare, come un unico filo rosso, la narrativa di
Tawfik, da La straniera fino al recentissimo
Il profugo (Rizzoli). Leggendo quest’ultimo,
romanzo in gran parte autobiografico, si assiste all’impossibile
tentativo di ricomporre un universo familiare ed esistenziale
che la dispersione causata dalla fuga in Europa ha inesorabilmente
frantumato.
Cosa ricorda dell’Iraq di Saddam Hussein?
Ricordo un Paese in cui si viveva sostanzialmente in
prigione, un luogo serrato dal quale uscire era impossibile,
e anche quando si era usciti una vera libertà
era impossibile.
Lei ne usci molto presto, già nel 1979.
Riuscii ad andarmene ottenendo un permesso per studiare
a Torino, ma anche arrivato in Italia e iniziata la
mia attività di scrittore non potevo parlare,
non potevo dire nulla su come si viveva in Iraq.
Come venne accolto in Italia?
Per noi iracheni non esisteva la possibilità
di usufruire dello status, comunque vantaggioso, di
rifugiato politico, perché esso veniva accordato
solo a coloro che arrivavano dalle ex colonie italiane,
come la Libia e la Somalia, o dall’est europeo.
Quindi le difficoltà erano molte, la condizione
di profugo era difficilissima da superare. Riuscii ad
andare avanti studiando, lavorando, cercando di affermarmi
come scrittore. Ma non era semplice, perché allora,
parlo dei primi anni ’80, ben pochi, in Occidente,
avevano capito cosa fosse la dittatura di Saddam, nessuno
si rendeva conto che era uno stato-prigione.
Voi esuli avreste potuto testimoniarlo.
Non potevamo. Sapevamo con certezza che, qualora avessimo
parlato, qualora avessimo raccontato la realtà
della vita in Iraq, le nostre famiglie restate lì
avrebbero pagato duramente. E’ difficile rendersi
conto di quali atrocità fosse capace il regime
con tutti coloro che potevano essere sospettati di opposizione,
e anche con i loro parenti. Non va dimenticato del resto
che Saddam non ebbe scrupoli neppure con i propri familiari
e amici: non appena c’era qualche sospetto, arrivavano
la prigione, la tortura e la morte.
Poi, però, a un certo punto lei decise
di parlare, di raccontare l’Iraq.
Quando ci fu la strage perpetrata a danno dei curdi,
nel 1988, scattò qualcosa dentro di me. Capii
che non potevo più tacere, anche se ciò
sarebbe costato. Del resto, solo allora il mondo aveva
cominciato ad accorgersi della disumana spietatezza
di Saddam, e quanto raccontavo cominciava a poter essere
capito e ascoltato. Quando, nel 1990, l’Iraq invase
il Kuwait, la mia attività di testimone e di
commentatore divenne pressoché quotidiana.
Continuava a temere?
Sapevo, lo sapevamo tutti, che il regime sarebbe prima
o poi crollato, ma eravamo certi che avrebbe tentato
ogni atrocità per sopravvivere. Ma a quel punto
la sfida era iniziata, e oltretutto c’era la certezza
del sostegno del mondo intero.
Come vede l’Iraq di oggi?
Le sembrerà forse paradossale, ma le dico che
oggi l’Iraq sta molto peggio che al tempo di Saddam.
La dittatura sanguinaria è stata abbattuta, ma
al suo posto, sotto la parvenza di una sorta di vaga
democrazia, a dominare sono due elementi congiunti e
strettamente alleati: il terrorismo e il fondamentalismo.
Sì, perché adesso in Iraq comandano le
milizie sanguinarie più o meno legate ad Al Qaeda
e i religiosi oltranzisti che ricevono ordini direttamente
da Teheran. Lo dico senza riserve: gli iraniani sono
ormai i padroni di gran parte dell’Iraq. Era prevedibile,
certo. La guerra ha scatenato il caos, all’atrocità
è seguita una nuova atrocità. Ma io avevo
sperato che andasse diversamente, e quello che vedo
nell’Iraq attuale è l’esatto contrario
di ciò che noi esuli, profughi, avevamo per anni
voluto e sognato.
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