326 - 07.08.07


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Steiner, il ritorno
dell’idealismo

Corrado Ocone


Se il termine non fosse oggi così abusato e quindi usurato, si potrebbe dire che quest’ultimo libretto di George Steiner è una lectio magistralis: una piccola prova, un "saggio" della stupefacente e enciclopedica cultura dell’erudito cosmopolita. Che è oggi forse il rappresentante maggiore di quella cultura di origine ebraica universalistica, curiosa e tollerante, di cui si sente sempre più il bisogno in un mondo che sembra volgere inesorabilmente verso le semplificazioni manicheistiche del pensiero e le polarizzazioni ideologiche (anche nel mondo ebraico, purtroppo) che non lasciano presagire nulla di buono all’orizzonte.

Steiner si mette alla prova con un passo delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana di Schelling (1798) in cui si accenna alla "tristezza connessa ad ogni vita finita" e al "fondamento oscuro" su cui riposa la conoscenza e la stessa "personalità" o "identità" umana. Steiner cerca di darci dieci possibili "giustificazioni" (in altrettanti capitoletti) di questa tristezza, spaziando come sempre dal campo delle scienze logiche e applicate a quello della teoria del linguaggio e della critica letteraria, ma mettendo questa volta in primo piano, questa volta forse più che mai, quello della filosofia. È su questo terreno che voglio affrontare perciò, in queste brevi righe, il "magistrale" testo steineriano. Il quale, mi sembra, segni un importante ritorno, ovvero una difesa, dell’"idealismo": sia nel senso più generale e condivisibile, ma oggi spesso negletto; sia nel suo senso più particolare e più discutibile che contrappone l’idealismo al realismo.

Cominciamo dalla "verità" permanente, diciamo pure così, dell’idealismo, quella che faceva dire a Hegel che, volenti o nolenti, ogni filosofia è idealistica. Qui veramente chiarificatore e di altissimo profilo è la nota introduttiva: Steiner osserva che le riflessioni sulle verità ultime sono sempre "necessariamente inadeguate, perché prese nella spirale autoreferenziale in cui è coinvolto ogni tentativo di pensare il pensiero nel processo stesso del pensare" (p.12). Non penso dunque sono, quindi, ma penso -sono. La nostra identità è pensiero. "Quando tentiamo di pensare il pensiero, l’oggetto della nostra indagine è interiorizzato e disseminato nel momento stesso in cui lo facciamo. È sempre immediato e insieme fuori portata" (pp. 12- 13). È ciò che i filosofi chiamano in gergo l’intrascendibilità del pensiero, l’impossibilità per esso di guardarsi dal di fuori, e che costituisce il nucleo permanentemente valido di ogni idealismo: dall’Io penso o appercezione trascendentale di Kant (ma forse già prima dalla coincidenza parmenidea di pensiero ed essere ad alcune riflessioni agostiniane sino al cogito cartesiano) alle elaborazioni e precisazioni di Fichte, Hegel e Schelling sino all’Atto puro di Gentile. Senza però dimenticare che anche la filosofia del Novecento non prescinde in alcuni filoni, a cominciare dalla linea Husserl-Heidegger, da questo orizzonte di fondo.

Più problematiche le cose diventano quando Steiner si pone come "idealista" (spiritualista) in contrasto con il cosiddetto "realismo" (materialismo). Qui sembra ritornare in qualche modo alle tesi di Berkeley: esse est percipi, incamminandosi sulle vie di un complicato discorso sullo scarto fra il pensiero e le sue conseguenze. "Nessun pittore, per quanto capace, può trasferire appieno sulla tela – scrive – la sua visione interna" (p.51). Ma si potrebbe ugualmente dire che a volte la "visione interna" è molto più povera e meno articolata, o addirittura inesistente, di quanto emerge sulla tela: ci sono pittori che si mettono a dipingere avendo un’idea vaghissima che si concretizza proprio nel mentre si articola nelle forme "materiali" del quadro. E continua: "Perfino nella sua forma più rigorosa, la musica incorpora solo parzialmente il complesso dei sentimenti, idee, relazioni astratte del suo compositore". Un esempio per il quale vale lo stesso discorso di prima, così come vale per la scrittura per quanto Steiner non ne parli: chi di noi non ha vissuto l’angoscia di un foglio che poi si riempie di parole che prima non esistevano sotto il fuoco di un eroico furore?

“‘Non ho le parole per dirlo’: lo dice l’amante, lo dice l’uomo colpito dal dolore; ma anche il poeta e il filosofo” (p.51). Ma io aggiungerei: il cattivo poeta e il cattivo filosofo. Il fatto è che, a mio avviso, soggiace al fondo di queste riflessione steineriane un antico pregiudizio intellettualistico, su cui capisco si è fondata la metafisica e la cultura greco-giudaico-cristiana, cioè occidentale, che porta a separare corpo e pensiero, carne e spirito. Il senso più profondo non dell’idealismo a questo punto, ma dell’idealrealismo (l’espressione, se non erro, è di Nicolai Hartmann) o dello storicismo hegeliano, almeno di un certo Hegel, è proprio qui: nel titanico tentativo di riunire, ovvero di vedere la connessione in atto, ciò che la nostra cultura ha visto come separato. Nel tentativo di costruire una logica (del finito) che unisse essenza ed esistenza, concetti e cose. Ed è qui che si situa la spesso mal compresa affermazione dell’”hegeliano” Croce nella sua Estetica: “In tanto si intuisce, in quanto si esprime”. Croce che poi diceva, in un’icastica frase, che si muove in direzione opposta all’idealiano steineriano, pressappoco così: “chi dice di avere tante belle idee in testa ma non riuscire a comunicarle, in verità quelle idee non le ha proprio”.

È chiaro che in questa scissione di fondo, in questa impossibilità di conciliazione, risiede la tristezza del pensiero a cui fa riferimento Steiner (ma è lo stesso anche per Schelling?). Ed è altresì chiaro che da ciò derivi il "relativismo" di fondo del suo pensiero: "la contraddizione interna (aporia), questa ambiguità che ci è destinata, è inerente – afferma significativamente – a ogni atto di pensiero, a tutte le concettualizzazioni e intuizioni (pp. 19- 20). E ancora più esplicitamente: "Quando si rivolge alla verità, quando l’invoca, il pensiero relativizza questo criterio nel momento stesso in cui vi si appella... Il pensiero esistenziale, i procedimenti del pensiero nella vita quotidiana e intellettuale non possono “aprirsi un varco” verso alcun regno di verità autoevidente, incontrovertibile, eterno" (pp. 37-39). Non si può non essere d’accordo. Hegel (l’altro Hegel) su questo punto pensò che l’ostacolo potesse essere superato proprio con la sua logica del finito, con l’"inclusione" dell’ideale nel reale. Senonché, la verità a cui lui faceva riferimento, in una rigorosa ottica immanentistica, era una verità inferiore, "penultima", rispetto a quella verità "ultima" a cui si riferisce Steiner e che consiste nel desiderio che ci è proprio di trascendere l’orizzonte che è nostro, di andare verso un orizzonte "altro" che, non perché non possiamo raggiungere, per ciò stesso deve essere considerato una pia illusione, immaginazione della nostra mente. È come se Hegel, filosofo della contraddizione, avesse a un certo punto pensato di chiudere il cerchio di ogni tensione.

Come se ne esce, allora, senza scegliere né la strada ottimisticamente totalizzante di Hegel né quella classicamente dicotomica (di qua l’anima di là il corpo) di Steiner? Secondo me in una maniera un po' pilatesca, che è, ammetto, un non uscirne: con una decisione, con la scelta di concentrarsi sulle "verità penultime". Abbandonando la filosofia per troppa filosofia e scegliendo, casomai, la strada del moralismo, che è poi quella più consona a un grande pensatore come Steiner che anche in questo libretto distilla tanti insegnamenti "vitali" e "edificanti". Fosse pure la strada di un moralismo classicheggiante, quello che ad esempio si evince quando il nostro liquida le avanguardie artistiche, quasi en passant, in questo modo: i prodotti del Dada e di “certi esperimenti futuristici – scrive – si sono rivelati banalità più o meno incomprensibili” (pp. 33-34). Oppure quando offre una descrizione dell’amore “più intenso”, esperienza rarissima e quasi “impossibile”, come “una negoziazione, mai conclusiva, tra solitudini” (p. 67; anche se forse sarebbe stato giusto non collocare la "solitudine" al livello a questo punto "banalmente" filosofico della "impenetrabilità degli animi" di cui già Croce aveva parlato).
Era veramente tanto tempo che non mi capitava di leggere un libro come questo che in poche pagine riuscisse a stimolare in me così tante, e credo profonde, riflessioni.

George Steiner,
Dieci (possibili) ragioni
della tristezza del pensiero,

Garzanti, Milano 2007,
pagine 89, Euro 11,00.

 

 

 


 

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