Se il termine
non fosse oggi così abusato e quindi usurato,
si potrebbe dire che quest’ultimo libretto di
George Steiner è una lectio magistralis:
una piccola prova, un "saggio" della stupefacente
e enciclopedica cultura dell’erudito cosmopolita.
Che è oggi forse il rappresentante maggiore di
quella cultura di origine ebraica universalistica, curiosa
e tollerante, di cui si sente sempre più il bisogno
in un mondo che sembra volgere inesorabilmente verso
le semplificazioni manicheistiche del pensiero e le
polarizzazioni ideologiche (anche nel mondo ebraico,
purtroppo) che non lasciano presagire nulla di buono
all’orizzonte.
Steiner si mette alla prova con un passo delle
Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà
umana di Schelling (1798) in cui si accenna alla
"tristezza connessa ad ogni vita finita" e
al "fondamento oscuro" su cui riposa la conoscenza
e la stessa "personalità" o "identità"
umana. Steiner cerca di darci dieci possibili "giustificazioni"
(in altrettanti capitoletti) di questa tristezza, spaziando
come sempre dal campo delle scienze logiche e applicate
a quello della teoria del linguaggio e della critica
letteraria, ma mettendo questa volta in primo piano,
questa volta forse più che mai, quello della
filosofia. È su questo terreno che voglio affrontare
perciò, in queste brevi righe, il "magistrale"
testo steineriano. Il quale, mi sembra, segni un importante
ritorno, ovvero una difesa, dell’"idealismo":
sia nel senso più generale e condivisibile, ma
oggi spesso negletto; sia nel suo senso più particolare
e più discutibile che contrappone l’idealismo
al realismo.
Cominciamo dalla "verità" permanente,
diciamo pure così, dell’idealismo, quella
che faceva dire a Hegel che, volenti o nolenti, ogni
filosofia è idealistica. Qui veramente chiarificatore
e di altissimo profilo è la nota introduttiva:
Steiner osserva che le riflessioni sulle verità
ultime sono sempre "necessariamente inadeguate,
perché prese nella spirale autoreferenziale in
cui è coinvolto ogni tentativo di pensare il
pensiero nel processo stesso del pensare" (p.12).
Non penso dunque sono, quindi, ma penso -sono. La nostra
identità è pensiero. "Quando tentiamo
di pensare il pensiero, l’oggetto della nostra
indagine è interiorizzato e disseminato nel momento
stesso in cui lo facciamo. È sempre immediato
e insieme fuori portata" (pp. 12- 13). È
ciò che i filosofi chiamano in gergo l’intrascendibilità
del pensiero, l’impossibilità per esso
di guardarsi dal di fuori, e che costituisce il nucleo
permanentemente valido di ogni idealismo: dall’Io
penso o appercezione trascendentale di Kant (ma forse
già prima dalla coincidenza parmenidea di pensiero
ed essere ad alcune riflessioni agostiniane sino al
cogito cartesiano) alle elaborazioni e precisazioni
di Fichte, Hegel e Schelling sino all’Atto puro
di Gentile. Senza però dimenticare che anche
la filosofia del Novecento non prescinde in alcuni filoni,
a cominciare dalla linea Husserl-Heidegger, da questo
orizzonte di fondo.
Più problematiche le cose diventano quando Steiner
si pone come "idealista" (spiritualista) in
contrasto con il cosiddetto "realismo" (materialismo).
Qui sembra ritornare in qualche modo alle tesi di Berkeley:
esse est percipi, incamminandosi sulle vie
di un complicato discorso sullo scarto fra il pensiero
e le sue conseguenze. "Nessun pittore, per quanto
capace, può trasferire appieno sulla tela –
scrive – la sua visione interna" (p.51).
Ma si potrebbe ugualmente dire che a volte la "visione
interna" è molto più povera e meno
articolata, o addirittura inesistente, di quanto emerge
sulla tela: ci sono pittori che si mettono a dipingere
avendo un’idea vaghissima che si concretizza proprio
nel mentre si articola nelle forme "materiali"
del quadro. E continua: "Perfino nella sua forma
più rigorosa, la musica incorpora solo parzialmente
il complesso dei sentimenti, idee, relazioni astratte
del suo compositore". Un esempio per il quale vale
lo stesso discorso di prima, così come vale per
la scrittura per quanto Steiner non ne parli: chi di
noi non ha vissuto l’angoscia di un foglio che
poi si riempie di parole che prima non esistevano sotto
il fuoco di un eroico furore?
“‘Non ho le parole per dirlo’: lo
dice l’amante, lo dice l’uomo colpito dal
dolore; ma anche il poeta e il filosofo” (p.51).
Ma io aggiungerei: il cattivo poeta e il cattivo filosofo.
Il fatto è che, a mio avviso, soggiace al fondo
di queste riflessione steineriane un antico pregiudizio
intellettualistico, su cui capisco si è fondata
la metafisica e la cultura greco-giudaico-cristiana,
cioè occidentale, che porta a separare corpo
e pensiero, carne e spirito. Il senso più profondo
non dell’idealismo a questo punto, ma dell’idealrealismo
(l’espressione, se non erro, è di Nicolai
Hartmann) o dello storicismo hegeliano, almeno di un
certo Hegel, è proprio qui: nel titanico tentativo
di riunire, ovvero di vedere la connessione in atto,
ciò che la nostra cultura ha visto come separato.
Nel tentativo di costruire una logica (del finito) che
unisse essenza ed esistenza, concetti e cose. Ed è
qui che si situa la spesso mal compresa affermazione
dell’”hegeliano” Croce nella sua Estetica:
“In tanto si intuisce, in quanto si esprime”.
Croce che poi diceva, in un’icastica frase, che
si muove in direzione opposta all’idealiano steineriano,
pressappoco così: “chi dice di avere tante
belle idee in testa ma non riuscire a comunicarle, in
verità quelle idee non le ha proprio”.
È chiaro che in questa scissione di fondo, in
questa impossibilità di conciliazione, risiede
la tristezza del pensiero a cui fa riferimento Steiner
(ma è lo stesso anche per Schelling?). Ed è
altresì chiaro che da ciò derivi il "relativismo"
di fondo del suo pensiero: "la contraddizione interna
(aporia), questa ambiguità che ci è
destinata, è inerente – afferma significativamente
– a ogni atto di pensiero, a tutte le concettualizzazioni
e intuizioni (pp. 19- 20). E ancora più esplicitamente:
"Quando si rivolge alla verità, quando l’invoca,
il pensiero relativizza questo criterio nel momento
stesso in cui vi si appella... Il pensiero esistenziale,
i procedimenti del pensiero nella vita quotidiana e
intellettuale non possono “aprirsi un varco”
verso alcun regno di verità autoevidente, incontrovertibile,
eterno" (pp. 37-39). Non si può non essere
d’accordo. Hegel (l’altro Hegel) su questo
punto pensò che l’ostacolo potesse essere
superato proprio con la sua logica del finito, con l’"inclusione"
dell’ideale nel reale. Senonché, la verità
a cui lui faceva riferimento, in una rigorosa ottica
immanentistica, era una verità inferiore, "penultima",
rispetto a quella verità "ultima" a
cui si riferisce Steiner e che consiste nel desiderio
che ci è proprio di trascendere l’orizzonte
che è nostro, di andare verso un orizzonte "altro"
che, non perché non possiamo raggiungere, per
ciò stesso deve essere considerato una pia illusione,
immaginazione della nostra mente. È come se Hegel,
filosofo della contraddizione, avesse a un certo punto
pensato di chiudere il cerchio di ogni tensione.
Come se ne esce, allora, senza scegliere né
la strada ottimisticamente totalizzante di Hegel né
quella classicamente dicotomica (di qua l’anima
di là il corpo) di Steiner? Secondo me in una
maniera un po' pilatesca, che è, ammetto, un
non uscirne: con una decisione, con la scelta di concentrarsi
sulle "verità penultime". Abbandonando
la filosofia per troppa filosofia e scegliendo, casomai,
la strada del moralismo, che è poi quella più
consona a un grande pensatore come Steiner che anche
in questo libretto distilla tanti insegnamenti "vitali"
e "edificanti". Fosse pure la strada di un
moralismo classicheggiante, quello che ad esempio si
evince quando il nostro liquida le avanguardie artistiche,
quasi en passant, in questo modo: i prodotti del Dada
e di “certi esperimenti futuristici – scrive
– si sono rivelati banalità più
o meno incomprensibili” (pp. 33-34). Oppure quando
offre una descrizione dell’amore “più
intenso”, esperienza rarissima e quasi “impossibile”,
come “una negoziazione, mai conclusiva, tra solitudini”
(p. 67; anche se forse sarebbe stato giusto non collocare
la "solitudine" al livello a questo punto
"banalmente" filosofico della "impenetrabilità
degli animi" di cui già Croce aveva parlato).
Era veramente tanto tempo che non mi capitava di leggere
un libro come questo che in poche pagine riuscisse a
stimolare in me così tante, e credo profonde,
riflessioni.
George Steiner,
Dieci (possibili) ragioni
della tristezza del pensiero,
Garzanti, Milano 2007,
pagine 89, Euro 11,00.
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