È
davvero senza peli sulla lingua la voce dell’io
narrante dell’ultimo mordace romanzo di Paolo
Teobaldi. L’autore ha scelto di far parlare un’ex
infermiera – donna anziana non acculturata ma
vivace e schietta – intorno al mondo chiuso manicomiale
che esisteva in Italia fino al 1978. Ne emerge un quadro
che alterna le tinte forti su metodi come elettroshock
e camicie di forza ai pastelli tenui delle scene su
una quotidianità ospedaliera non certo sempre
e solo all’insegna della contenzione/repressione
disumana della pazzia.
Tilde (Matilde), la protagonista del libro, ci parla
del vecchio manicomio di Pesaro, ma quello di Teobaldi
non è esattamente un romanzo storico e la realtà
reclusoria da lui descritta potrebbe riferirsi a qualunque
altro ospedale psichiatrico dell’Italia che fu,
di cui nel libro si tratteggia un ampio arco temporale:
dal periodo tra le due guerre mondiali sino alla riforma
Basaglia e anche dopo, giacché l’ultimo
amarissimo capitolo sul trattamento dei cosiddetti residui
manicomiali (parola orrenda, volta a indicare quegli
incurabili e vecchi malati cronici che ancora abitano
ciò che rimane degli ex ospizi dei folli), ci
mostra come non tutto sia mutato per il meglio nel trattamento
dei diversi per antonomasia. Ma veniamo alla
vicenda.
La prima impressione della giovane infermiera, appena
varcati i cancelli dell’ospedale, è di
trovarsi entro “una specie di prigione”
o peggio “un inferno”; e in effetti quello
era il manicomio: tristo luogo detentivo in cui “era
facile entrare”, assai più “difficile
era uscire”. E lì ci finivano un tempo
– ci ricorda Tilde – gente che spesso aveva
ben poco a che fare con l’alienazione mentale;
ad esempio la cattiva moglie che avesse azzardato
“rispondere al marito” o si fosse messa
anche solo “a fare la preziosa a letto, a non
lavare i panni, a fare la sfacciata”. Non sono
esagerazioni. Siamo nel 1938, durante il fascismo, e
– al di là di quanto riporta il testo di
Teobaldi – in quegli anni all’ospedale dei
matti ci finiva pure l’ubriacone che disturbava
in piazza, l’oppositore che sbeffeggiava le camicie
nere, o (tanto per fare un esempio documentato) la giovane
trentina Ida Valser, che dalla sua relazione con Mussolini
ebbe un figlio, osò attribuirne la paternità
al Duce e per questa sua follia fu cacciata
in manicomio a Pergine.
Tornando al romanzo, l’autore, man mano la narrazione
e l’esperienza professionale di Tilde procedono,
ci rende partecipi della sua presa di coscienza della
realtà manicomiale e di come il disagio psichico
in molti, troppi casi fosse dovuto in quei tempi grami
a: “la miseria, la pellagra, la guerra, la spagnola,
le botte, le umiliazioni”. Riuscitissime sono
le pagine intorno al periodo bellico (dal 1943 al 44)
in cui è narrato lo sfollamento dei matti che,
causa gli attacchi aerei, vengono trasferiti in montagna
sull’Appennino e lì, lasciati liberi in
mezzo alla natura, si acquietano senza bisogno di troppi
farmaci o letti di contenzione. È un capitolo
gustoso e ricco (come del resto quasi tutti), che si
legge d’un fiato. C’è la guerra,
ci stanno i matti in libera uscita, ci sono le onnipresenti
ed algide monache dagli ampi, alati copricapi, i tedeschi
in ritirata dal grilletto facile, e innumerevoli altre
figure minori, ancor più stravaganti e balzane
degli stessi malati di mente.
Si alternano quindi nel racconto di Teobaldi –
che, si accennava, copre una cinquantina d’anni
– brani riflessivi a cronache sapide, ironiche
e gustose, a descrizioni minuziose di un po’ tutti
gli ambiti e i trattamenti all’interno del manicomio:
da quelli estremi come l’elettroshock, al lavoro-terapia
nei laboratori dove gli alienati impagliano sedie con
perizia non comune, fino all’umile prendersi cura
da parte delle infermiere dei malati incapaci persino
di lavarsi da soli. Perché era realtà
vasta, poliedrica e sfaccettata il mondo chiuso manicomiale:
caratterizzato appunto in primis dall’impossibilità
di uscirne a piacere. A metà fra la caserma,
il convento e il carcere, nell’ospedale psichiatrico
– confessa Tilde – “eravamo tutti
un po’ prigionieri”. Ed è particolarmente
significativa la pagina esemplare sulle voci:
quelle con cui da dentro i malati emettono, afono o
assordante che sia, il proprio grido di dolore per la
libertà o la salute perdute; ma pure quelle che
provengono da fuori: tutto il vociare e il frastuono
del mondo non recluso che penetrano attraverso pareti
e finestre, a rendere ancora più straniante e
malinconica la vita di chi non può evadere da
quelle mura, da quelle alienazioni.
Così vediamo trascorrere, assieme alla vita
lavorativa e familiare di Tilde (che sposerà
Delfo – bella figura, scolpita a tutto tondo da
Teobaldi, di uomo positivo – e avrà una
figlia non destinata a realizzare il sogno della madre:
divenire medico psichiatra), più di mezzo secolo
di storia patria: dal fascismo alla legge Basaglia (anzi
Pazzaglia come la chiama Tilde, incline all’anarchia
linguistica e al vernacolo ancor più che al dialetto),
cioè fino al mutamento epocale che portò
alla chiusura degli ospedali psichiatrici; evento che
segna la fine del romanzo attraverso pagine sofferte
sulle condizioni pietose di folli abbandonati a sé
stessi, che vagano senza meta né scopo attraverso
i cortili e gli androni dell’ex manicomio, rintronati
da massicce dosi di psicofarmaci, lo sguardo perso e
vacuo di chi ha smarrito pure la speranza di poter un
giorno evadere dal carcere dei matti, perché
è gia successo e una volta fuori si sta forse
anche peggio.
Paolo Teobaldi,
Il mio manicomio,
Edizioni e/o,
pp. 185, € 15,50
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