325 - 20.07.07


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Cinquant’anni nella casa dei matti

Francesco Roat


È davvero senza peli sulla lingua la voce dell’io narrante dell’ultimo mordace romanzo di Paolo Teobaldi. L’autore ha scelto di far parlare un’ex infermiera – donna anziana non acculturata ma vivace e schietta – intorno al mondo chiuso manicomiale che esisteva in Italia fino al 1978. Ne emerge un quadro che alterna le tinte forti su metodi come elettroshock e camicie di forza ai pastelli tenui delle scene su una quotidianità ospedaliera non certo sempre e solo all’insegna della contenzione/repressione disumana della pazzia.

Tilde (Matilde), la protagonista del libro, ci parla del vecchio manicomio di Pesaro, ma quello di Teobaldi non è esattamente un romanzo storico e la realtà reclusoria da lui descritta potrebbe riferirsi a qualunque altro ospedale psichiatrico dell’Italia che fu, di cui nel libro si tratteggia un ampio arco temporale: dal periodo tra le due guerre mondiali sino alla riforma Basaglia e anche dopo, giacché l’ultimo amarissimo capitolo sul trattamento dei cosiddetti residui manicomiali (parola orrenda, volta a indicare quegli incurabili e vecchi malati cronici che ancora abitano ciò che rimane degli ex ospizi dei folli), ci mostra come non tutto sia mutato per il meglio nel trattamento dei diversi per antonomasia. Ma veniamo alla vicenda.

La prima impressione della giovane infermiera, appena varcati i cancelli dell’ospedale, è di trovarsi entro “una specie di prigione” o peggio “un inferno”; e in effetti quello era il manicomio: tristo luogo detentivo in cui “era facile entrare”, assai più “difficile era uscire”. E lì ci finivano un tempo – ci ricorda Tilde – gente che spesso aveva ben poco a che fare con l’alienazione mentale; ad esempio la cattiva moglie che avesse azzardato “rispondere al marito” o si fosse messa anche solo “a fare la preziosa a letto, a non lavare i panni, a fare la sfacciata”. Non sono esagerazioni. Siamo nel 1938, durante il fascismo, e – al di là di quanto riporta il testo di Teobaldi – in quegli anni all’ospedale dei matti ci finiva pure l’ubriacone che disturbava in piazza, l’oppositore che sbeffeggiava le camicie nere, o (tanto per fare un esempio documentato) la giovane trentina Ida Valser, che dalla sua relazione con Mussolini ebbe un figlio, osò attribuirne la paternità al Duce e per questa sua follia fu cacciata in manicomio a Pergine.

Tornando al romanzo, l’autore, man mano la narrazione e l’esperienza professionale di Tilde procedono, ci rende partecipi della sua presa di coscienza della realtà manicomiale e di come il disagio psichico in molti, troppi casi fosse dovuto in quei tempi grami a: “la miseria, la pellagra, la guerra, la spagnola, le botte, le umiliazioni”. Riuscitissime sono le pagine intorno al periodo bellico (dal 1943 al 44) in cui è narrato lo sfollamento dei matti che, causa gli attacchi aerei, vengono trasferiti in montagna sull’Appennino e lì, lasciati liberi in mezzo alla natura, si acquietano senza bisogno di troppi farmaci o letti di contenzione. È un capitolo gustoso e ricco (come del resto quasi tutti), che si legge d’un fiato. C’è la guerra, ci stanno i matti in libera uscita, ci sono le onnipresenti ed algide monache dagli ampi, alati copricapi, i tedeschi in ritirata dal grilletto facile, e innumerevoli altre figure minori, ancor più stravaganti e balzane degli stessi malati di mente.
Si alternano quindi nel racconto di Teobaldi – che, si accennava, copre una cinquantina d’anni – brani riflessivi a cronache sapide, ironiche e gustose, a descrizioni minuziose di un po’ tutti gli ambiti e i trattamenti all’interno del manicomio: da quelli estremi come l’elettroshock, al lavoro-terapia nei laboratori dove gli alienati impagliano sedie con perizia non comune, fino all’umile prendersi cura da parte delle infermiere dei malati incapaci persino di lavarsi da soli. Perché era realtà vasta, poliedrica e sfaccettata il mondo chiuso manicomiale: caratterizzato appunto in primis dall’impossibilità di uscirne a piacere. A metà fra la caserma, il convento e il carcere, nell’ospedale psichiatrico – confessa Tilde – “eravamo tutti un po’ prigionieri”. Ed è particolarmente significativa la pagina esemplare sulle voci: quelle con cui da dentro i malati emettono, afono o assordante che sia, il proprio grido di dolore per la libertà o la salute perdute; ma pure quelle che provengono da fuori: tutto il vociare e il frastuono del mondo non recluso che penetrano attraverso pareti e finestre, a rendere ancora più straniante e malinconica la vita di chi non può evadere da quelle mura, da quelle alienazioni.

Così vediamo trascorrere, assieme alla vita lavorativa e familiare di Tilde (che sposerà Delfo – bella figura, scolpita a tutto tondo da Teobaldi, di uomo positivo – e avrà una figlia non destinata a realizzare il sogno della madre: divenire medico psichiatra), più di mezzo secolo di storia patria: dal fascismo alla legge Basaglia (anzi Pazzaglia come la chiama Tilde, incline all’anarchia linguistica e al vernacolo ancor più che al dialetto), cioè fino al mutamento epocale che portò alla chiusura degli ospedali psichiatrici; evento che segna la fine del romanzo attraverso pagine sofferte sulle condizioni pietose di folli abbandonati a sé stessi, che vagano senza meta né scopo attraverso i cortili e gli androni dell’ex manicomio, rintronati da massicce dosi di psicofarmaci, lo sguardo perso e vacuo di chi ha smarrito pure la speranza di poter un giorno evadere dal carcere dei matti, perché è gia successo e una volta fuori si sta forse anche peggio.


Paolo Teobaldi,
Il mio manicomio,
Edizioni e/o,
pp. 185, € 15,50

 

 


 

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