Secondo Zygmunt
Bauman, la transizione dal moderno al postmoderno avrebbe
cambiato il ruolo dell'intellettuale nella società.
Da legislatori, individui che in virtù
del loro sapere erano in grado di incidere sull'ordine
sociale, a interpreti, mere cinghie di trasmissione
tra comparti autonomi della società. Praticamente
inutili. Secondo Frank Furedi, sociologo dell'Università
del Kent, e autore di un libretto polemico da poco pubblicato
in Italia – Che fine hanno fatto gli intellettuali?
(Cortina Editore) –, sono molto peggio: sono i
filistei del XXI secolo. In un percorso aggressivo,
Furedi se la prende con la postmodernità, con
l'anti-illuminismo, ma anche con le università
che si stanno vendendo al mercato, con il disconoscimento
del merito a favore di un'inclusione fittizia, con la
trasformazione della cultura in merce da vendere, per
esempio, nei molti festival estivi e con il mito delle
nuove tecnologie grande abbaglio dell'“epoca della
conoscenza” che invece proprio il sapere ha dimenticato.
“L'ideale del cittadino attivo e interessato –
sottolinea il sociologo – è sempre più
rappresentato come il simbolo di un'epoca elitaria ormai
conclusa. Oggi, si guarda al sapere, all'informazione
e alla scienza soprattutto in modo strumentale, pensando
al risultato concreto”.
Qual è il genere di intellettuale che
le manca?
Colui che ha particolari conoscenze o competenze entro
un determinato settore. E che tuttavia non si limita
a essere esperto in un determinato ambito del sapere,
bensì nutre forte interesse a che la comprensione
della sua materia di studio sia in qualche modo agevolata,
resa più semplice e accessibile. Con l’obiettivo
di coinvolgere e attirarvi una fetta sempre più
ampia della società, la quale, di conseguenza,
si vede pungolata a una riflessione critica. L’intellettuale
aspira, in ultima analisi, a rivestire un certo ruolo
pubblico.
Molto spesso, in Italia ma forse anche in Gran
Bretagna, gli intellettuali – specie quelli di
area umanistica – vengono tacciati di ostilità
per principio nei confronti dell’innovazione.
Nel suo libro c'è una critica verso un certo
entusiasmo tecnologico nei confronti, per esempio, di
internet. Non si sente in qualche modo colpito da tale
accusa?
Non direi proprio. In realtà, ed è fatto
curioso, il classico intellettuale umanistico crede
fermamente nell’innovazione e, se si guarda alle
prime fasi dello sviluppo della scienza e del pensiero
intellettuale in genere, appare chiaro come il progresso
venga letto in chiave decisamente ottimistica. A mio
parere, è negli ultimi decenni – da 30,
40 o 50 anni a questa parte, per intenderci –
che gli intellettuali hanno via via assunto un forte
orientamento antimodernista. Quel che lei dice è
vero: la figura dell’intellettuale è divenuta
estremamente ambigua, turbato com’è dall’idea
del cambiamento, della ricerca scientifica, del progresso
e dell’innovazione. Così, l’intellettuale
finisce col diventare conservatore. Ma il mio libro
non è scritto da una prospettiva conservatrice.
Uno dei suoi presupposti, difatti, è che l’intellettuale
sia chiamato a guardare al futuro, aiutando la società
e gli individui a scorgere in anticipo quel che li attende.
Allora cos'è che non va con le nuove
tecnologie?
A mio avviso, credere che il web rappresenti la panacea
ai mali sopraccitati, o una soluzione tecnica al profondo
disordine morale della nostra epoca, sarebbe fuorviante.
Ciò detto, ribadisco il mio sincero entusiasmo
per le opportunità offerte da internet, che incarna
un enorme potenziale quale nuova infrastruttura capace
di rendere più positiva la vita intellettuale.
No, non sono un detrattore del web. Mi limito a contestarne
l’uso improprio. Son contrario al tentativo di
ricorrere a espedienti tecnici per ovviare ai problemi
del nostro tempo. Ciò che avviene nelle società
occidentali. Quando nacque il fenomeno dei blog, per
dire, tutti presero a pontificare: “Che meraviglia!
Ecco i nuovi giornali e la nuova letteratura!”.
Ho condotto uno studio su quel fenomeno, soprattutto
con riferimento alla fascia di utenza giovanile. Studio
che ha fatto emergere, tra gli altri, un dato particolarmente
interessante: l’espressione più di frequente
utilizzata dai blogger è: “Ci sono! Dai,
connettiti!”.
Occorre anche rilevare, in tal senso, le differenze
tra internet e televisione. Lei cita Pierre Bourdieu,
che ha parlato di “fast thinkers”, ossia
di quegli intellettuali che popolano i talk-show. Mi
pare che internet rappresenti un fenomeno un po’
diverso. E che quantomeno esso offra altre opportunità
rispetto alla tv.
Sono assolutamente d’accordo. Credo che l’elemento
interattivo, prerogativa del web, abbia un enorme potenziale
a livello di creazione di nuovi rapporti di collaborazione,
e in termini di esplorazione di idee nuove, agenda setting
e sviluppo di nuove modalità di comunicazione.
Per tutte queste ragioni, occorre tesserne le lodi.
Il web riveste un ruolo di fondamentale importanza;
un ruolo che, però, mi pare sia più infrastrutturale
che sostanziale. Mi pare che la questione, sul piano
sostanziale, del rapporto inter-individuale e di un
più ragionevole sviluppo dei modelli di interazione
sia tuttora irrisolta. Di più: se è vero
che vi possono essere importanti scambi anche on line,
in ultima analisi ciò che succede in rete è
il riflesso della vita off line. Di conseguenza, non
è immaginabile che un individuo abbia una vita
on line sorprendentemente positiva mentre la sua esistenza
off line è terribilmente noiosa e, per così
dire, conservatrice. Non è un’idea plausibile.
Prendiamo un’altra delle critiche da
lei mosse nel libro. In questi ultimi anni, in Italia
e credo anche in Gran Bretagna, si assiste, specie nella
stagione primaverile ed estiva, a un fiorire di manifestazioni
culturali che chiamano a raccolta intellettuali, filosofi,
scrittori, musicisti dando loro voce. Lei si professa
estremamente critico verso tali forme di infotainment,
o divertimento culturale, citando a proposito le parole
di Hannah Arendt: “Non […] la cultura di
massa, ma un entertainment di massa alimentato dagli
oggetti della cultura del mondo”. Non crede, però,
che tali eventi possano influire positivamente sull’opinione
pubblica, e favorirne la crescita culturale?
Qualsiasi giudizio al riguardo deve essere molto equilibrato.
Credo che qualsiasi forma di partecipazione popolare
a incontri e letture di poesia, dibattiti su libri o
spettacoli e balletti sia da salutare con entusiasmo.
Né è mia intenzione disdegnare qualsiasi
iniziativa venga lanciata. Quel che ho tentato di illustrare,
piuttosto, è un problema diverso: sempre più,
in Europa e altrove, la cultura è vista non come
elemento importante di per sé, bensì quale
escamotage utile allo sviluppo regionale o alla rivitalizzazione
delle aree urbane, o ai fini di una ripresa dell’economia.
Gli uffici turistici sono in preda alla smania di intercettare
e attirare quanti più visitatori possibili nelle
loro città. Di qui i vari circuiti e incontri
simil-culturali, che non nascono da un autentico desiderio
di esplorare idee nuove, bensì puntano a tutt’altra
meta. Ecco quel che io contesto.
Quella cui lei ha accennato è un po’
la politica del sindaco di Roma, Walter Veltroni. L’evento
culturale quale motore, in ultima analisi, del turismo.
Proprio così. E in Inghilterra il fenomeno sta
assumendo proporzioni davvero notevoli: anche in città
assolutamente grigie e squallide, prive del minimo interesse
o attrattiva, hanno ospitato diversi “festival”
che hanno attirato un certo numero di persone. Ma si
è trattato di eventi assolutamente non-culturali,
e che io non posso che screditare.
Molto ci sarebbe anche da dire sul legame che
si è andato via via imbastendo tra università
e mondo del business. In Italia, e di certo anche in
Gran Bretagna, molti ritengono che questa partnership
rappresenti l’unica soluzione per salvare le scuole
e gli istituti di alta formazione culturale. Come mai
lei si dice contrario?
In tutta sincerità, posso dirle che non sono
contrario all’idea che il mondo imprenditoriale,
non meno di qualsiasi altra realtà, sostenga
gli istituti di alta formazione e le università.
Inizio a preoccuparmi, però, nel momento in cui
l’istruzione di alto livello, alla stregua degli
eventi culturali di cui sopra, viene percepita come
qualcosa che può essere plasmato e pilotato in
base alla scala di priorità dei grandi interessi
economici. Difatti, lo sviluppo di idee nuove e il pensiero
creativo non seguono, ahimè, le logiche di mercato.
Non si può semplicemente rispondere a queste
ultime e dire: “D’accordo. Sarà fatto”,
proprio perché le idee richiedono un particolare
tempo di decantazione, e ognuna va alimentata e coltivata
a modo proprio. Ecco perché, a mio parere, un
sistema di alta formazione calibrato esclusivamente
sul mercato, o che da questo dipenda immediatamente,
rischia di deviare dal sentiero che gli è proprio:
quello dello sviluppo del sapere e della creatività,
che hanno leggi ed esigenze proprie, alle quali non
si può ovviare. Quanto alle università,
due in particolare sono i fenomeni che mi preoccupano:
da un lato, le pressioni del mercato e del mondo degli
affari; dall’altro, quelle politiche e di governo.
In entrambi i casi, si mira a ricorrere all’istruzione
di alto livello quale milieu intellettuale che funga
da panacea ai propri mali.
Traduzione di Enrico Del Sero
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