324 - 05.07.07


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L’uomo che conobbe la
mafia e iniziò a raccontarla

Alessandro Russo


La mafia e le sue storie dimenticate, quelle che raccontare è impegno civile prima che lavoro artistico. Una Sicilia tra Guttuso e Sciascia è la scena muta di L’uomo di vetro, biografia di Leonardo Vitale, primo pentito di mafia. Dietro la ricostruzione della vicenda anomala di questo uomo c’è il libro di Salvatore Parlagreco, coautore anche della sceneggiatura, uscito nel 1998, che ricostruisce dettagliatamente i tratti della personalità di questo figlio di Cosa Nostra alla ricerca di una giustizia e detentore di una verità. La città di Palermo è protagonista sin dalle prime scene ed è fin troppo credibile nel disegnare tra le sue strade un passato non troppo lontano e che ancora le appartiene. Set ideale e quasi obbligato del film di mafia, la città, in bilico perenne tra resurrezione e definitivo precipizio, è anche un prodigioso caleidoscopio temporale per le sue vie e il suo disordine che lasciano ancora sopravvivere diverse risacche di passato. Come quel 1973, anno cardine nella storia di Leonardo Vitale. La cinepresa di Stefano Incerti a tratti accentua la suggestione; un rapido zoom della lente, il colore, le luci e si è in un’azione d’annata. Ma l’obiettivo cerca effettivamente altro. Non si lancia nel seguire la vicenda mafiosa, che pure è presente nel racconto, ma cerca di delimitare il mistero di quel primo pentito e della sua verità, nascosta dietro a una condanna a dieci anni di manicomio criminale e sommersa dal proscioglimento di tutti gli uomini d’onore da lui denunciati.

Leonardo Vitale incarna la follia in un’organizzazione sociale in cui la norma della violenza non ha alternative. E’ un uomo che apparentemente va incontro al suo destino segnato da eventi che non può controllare. Stretto tra il codice comportamentale mafioso e senza un’alternativa di vita, è bandito dall’ambiente della malavita e abbandonato dalla legge, forse non ancora pronta a comprendere gli eventi e comunque asservita al potere di mafia.
Vitale confessa una prima incerta collusione con l’ambiente mafioso, poi, apparentemente per una crisi mistica, per un desiderio di giustizia che prima di tutto sembra religioso, fa i nomi dei mandanti del sequestro dell’ingegner Cassina. Il fervore mistico gioca a favore della Cupola alle strette e dell’amministrazione complice. Gli strascichi di una sifilide e le esaltazioni cattoliche diventano inoppugnabili prove di uno stato mentale alterato.

Nell’inafferrabilità di una personalità così complessa, Incerti sceglie di dare al personaggio una strana ingenuità e di farne quasi un profeta inascoltato, lucido e mistico insieme. Il corpo del pentito, interpretato convincentemente da David Coco, diventa una figura quasi messianica.
Il mafioso Leonardo Vitale è prima dei pentiti civili, prima dei “collaboratori di giustizia”; anche se ha coscienza di una collusione tra potere politico e mafia, è l’urgenza della salvezza dell’anima, più che quella di un’azione contro la malavita, a motivare i suoi comportamenti. Nella sua storia si confondono elementi culturali distinti come la famiglia, la mafia, la religione e lo Stato. Dietro le sue confessioni non ci sono patteggiamenti, sconti di pena e questo le rende ancora meno credibili. Di litania in litania, come in un rosario, sgrana i nomi dei mandanti del sequestro Cassina e la composizione della Cupola. E, come il suo avvicinarsi alla giustizia appare totalmente religioso, in passato la sua educazione alla mafia è stata naturale. Un crescere di violenza che ha il grado zero nello zio boss che lo ha allevato. Un’educazione spietata che parte dallo scannare un cane e arriva all’omicidio più brutale, via naturale alla malavita che si alimenta nei rapporti intimi, nelle relazioni familiari e coinvolge anche la sfera del desiderio, come nel caso della relazione con la sorella Maria, ombrosa nemesi della giovane Anna, la ragazza che lo porterà a confessare. Una confusione che si spinge fino al limite dell’incesto. Eppure il racconto annulla il giudizio fino a far credere che l’uomo sia effettivamente vittima di un errore giudiziario, o almeno di un contesto talmente intricato da non poter essere compreso appieno, e forse per questo al personaggio viene affidata un’umanità fuori dal comune.

Le immagini non possono spiegare cosa scattò effettivamente nella mente di Leonardo Vitale e quei lunghi anni passati tra una confessione e un’altra, tra un carcere e una clinica; si fermano onestamente a raccontare lo strazio di un uomo divenuto l’ombra fragile di ciò che era stato. La confessione, quel salmodiare di avemarie e nomi illustri, lentamente si sfibra, distorta dalla quantità di psicofarmaci, sottoposta alla tortura dell’elettroshock, all’angosciante esperienza del manicomio e della solitudine, fino ad annientarsi in un silenzio di sottintesi carichi di responsabilità. Perché apparentemente Leonardo Vitale ha già detto tutto, la sua è sempre stata una sola versione dei fatti. Come il silenzio che cade continuamente intorno alla mafia, un silenzio gravido di responsabilità, che si interrompe solo quando le strade di Palermo si tingono di sangue.


L’uomo di vetro
Regia: Stefano Incerti
Interpreti: David Coco,
Anna Bonaiuito, Tony Sperandeo

 



 

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