La mafia
e le sue storie dimenticate, quelle che raccontare è
impegno civile prima che lavoro artistico. Una Sicilia
tra Guttuso e Sciascia è la scena muta di L’uomo
di vetro, biografia di Leonardo Vitale, primo pentito
di mafia. Dietro la ricostruzione della vicenda anomala
di questo uomo c’è il libro di Salvatore
Parlagreco, coautore anche della sceneggiatura, uscito
nel 1998, che ricostruisce dettagliatamente i tratti
della personalità di questo figlio di Cosa Nostra
alla ricerca di una giustizia e detentore di una verità.
La città di Palermo è protagonista sin
dalle prime scene ed è fin troppo credibile nel
disegnare tra le sue strade un passato non troppo lontano
e che ancora le appartiene. Set ideale e quasi obbligato
del film di mafia, la città, in bilico perenne
tra resurrezione e definitivo precipizio, è anche
un prodigioso caleidoscopio temporale per le sue vie
e il suo disordine che lasciano ancora sopravvivere
diverse risacche di passato. Come quel 1973, anno cardine
nella storia di Leonardo Vitale. La cinepresa di Stefano
Incerti a tratti accentua la suggestione; un rapido
zoom della lente, il colore, le luci e si è in
un’azione d’annata. Ma l’obiettivo
cerca effettivamente altro. Non si lancia nel seguire
la vicenda mafiosa, che pure è presente nel racconto,
ma cerca di delimitare il mistero di quel primo pentito
e della sua verità, nascosta dietro a una condanna
a dieci anni di manicomio criminale e sommersa dal proscioglimento
di tutti gli uomini d’onore da lui denunciati.
Leonardo Vitale incarna la follia in un’organizzazione
sociale in cui la norma della violenza non ha alternative.
E’ un uomo che apparentemente va incontro al suo
destino segnato da eventi che non può controllare.
Stretto tra il codice comportamentale mafioso e senza
un’alternativa di vita, è bandito dall’ambiente
della malavita e abbandonato dalla legge, forse non
ancora pronta a comprendere gli eventi e comunque asservita
al potere di mafia.
Vitale confessa una prima incerta collusione con l’ambiente
mafioso, poi, apparentemente per una crisi mistica,
per un desiderio di giustizia che prima di tutto sembra
religioso, fa i nomi dei mandanti del sequestro dell’ingegner
Cassina. Il fervore mistico gioca a favore della Cupola
alle strette e dell’amministrazione complice.
Gli strascichi di una sifilide e le esaltazioni cattoliche
diventano inoppugnabili prove di uno stato mentale alterato.
Nell’inafferrabilità di una personalità
così complessa, Incerti sceglie di dare al personaggio
una strana ingenuità e di farne quasi un profeta
inascoltato, lucido e mistico insieme. Il corpo del
pentito, interpretato convincentemente da David Coco,
diventa una figura quasi messianica.
Il mafioso Leonardo Vitale è prima dei pentiti
civili, prima dei “collaboratori di giustizia”;
anche se ha coscienza di una collusione tra potere politico
e mafia, è l’urgenza della salvezza dell’anima,
più che quella di un’azione contro la malavita,
a motivare i suoi comportamenti. Nella sua storia si
confondono elementi culturali distinti come la famiglia,
la mafia, la religione e lo Stato. Dietro le sue confessioni
non ci sono patteggiamenti, sconti di pena e questo
le rende ancora meno credibili. Di litania in litania,
come in un rosario, sgrana i nomi dei mandanti del sequestro
Cassina e la composizione della Cupola. E, come il suo
avvicinarsi alla giustizia appare totalmente religioso,
in passato la sua educazione alla mafia è stata
naturale. Un crescere di violenza che ha il grado zero
nello zio boss che lo ha allevato. Un’educazione
spietata che parte dallo scannare un cane e arriva all’omicidio
più brutale, via naturale alla malavita che si
alimenta nei rapporti intimi, nelle relazioni familiari
e coinvolge anche la sfera del desiderio, come nel caso
della relazione con la sorella Maria, ombrosa nemesi
della giovane Anna, la ragazza che lo porterà
a confessare. Una confusione che si spinge fino al limite
dell’incesto. Eppure il racconto annulla il giudizio
fino a far credere che l’uomo sia effettivamente
vittima di un errore giudiziario, o almeno di un contesto
talmente intricato da non poter essere compreso appieno,
e forse per questo al personaggio viene affidata un’umanità
fuori dal comune.
Le immagini non possono spiegare cosa scattò
effettivamente nella mente di Leonardo Vitale e quei
lunghi anni passati tra una confessione e un’altra,
tra un carcere e una clinica; si fermano onestamente
a raccontare lo strazio di un uomo divenuto l’ombra
fragile di ciò che era stato. La confessione,
quel salmodiare di avemarie e nomi illustri, lentamente
si sfibra, distorta dalla quantità di psicofarmaci,
sottoposta alla tortura dell’elettroshock, all’angosciante
esperienza del manicomio e della solitudine, fino ad
annientarsi in un silenzio di sottintesi carichi di
responsabilità. Perché apparentemente
Leonardo Vitale ha già detto tutto, la sua è
sempre stata una sola versione dei fatti. Come il silenzio
che cade continuamente intorno alla mafia, un silenzio
gravido di responsabilità, che si interrompe
solo quando le strade di Palermo si tingono di sangue.
L’uomo di vetro
Regia: Stefano Incerti
Interpreti: David Coco,
Anna Bonaiuito, Tony Sperandeo
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