La filosofia
e lo specchio della natura? Un libro fuorviante.
Rorty come il pensatore che ha unito analitici e continentali?
Per nulla, è un lavoro che hanno fatto ben prima
Cavell e Habermas. E ancora: Wittgenstein e Heidegger?
Pensatori con una visione “cultuale” della
filosofia, che oggi non ci serve più. Neoaristotelica,
antirelativista, a favore di una visione universalista
della filosofia come impegno politico per una difesa
dei diritti umani e dell’eguaglianza tra individui:
si sapeva che Martha Nussbaum non fosse vicina alle
posizioni di Rorty. La filosofia americana spiega perché
la vera stella filosofica americana non è Rorty,
ma, piuttosto, John Rawls.
Rorty è stato l’autore che ha
teorizzato la cosiddetta “svolta linguistica”,
l’idea della natura intrinsecamente linguistica
di tutte le nostre idee e azioni. Questa tesi si accompagnava
all’argomentazione relativa all’impossibilità
di “catturare” la realtà in sé.
Qual è stata l’importanza di questa scoperta
per la filosofia americana?
In realtà, direi che molti sono gli autori prima
di lui che si sono focalizzati sul linguaggio. La centralità
del linguaggio era una caratteristica del positivismo
logico degli anni ’50 e ’60. In ambito morale,
ad esempio, C. L. Stevenson e R. M. Hare anticiparono
l’idea che l’etica deve cominciare dallo
studio del significato e della funzione del linguaggio
morale. Quello che Rorty ha fatto è stato più
che altro teorizzare questo approccio in maniera più
astratta.
La critica verso una filosofia che rivendica
la possibilità di descrivere in maniera oggettiva
il mondo esterno, finalizzata al possesso della “Verità”,
era in Rorty strettamente legata alla decostruzione
del concetto di autorità. Quanto è importante
questa decostruzione per la filosofia e più in
generale per la democrazia e la politica?
Secondo me la principale opera filosofico-storica di
Rorty, La filosofia e lo specchio della natura,
non è affatto un’opera riuscita. Ha fornito
una visione molto parziale e distorta della storia della
filosofia e basato la sua “decostruzione”
su quella visione. Per esempio, ha praticamente ignorato
il mondo antico, che non aveva alcuna nozione di rappresentazione
mentale come rispecchiamento del mondo. Sarebbe assai
difficile trovare quella visione tra i pensatori greci
e romani, e tuttavia essi espressero una vasta gamma
di questioni filosofiche. Ecco perché la tesi
che la teorizzazione filosofica richieda quella visione
è problematica e Rorty non l’ha mai argomentata
in maniera convincente. Per questo non trovo quel libro
utile, né credo che coloro che studiano la storia
della filosofia possano trarvi giovamento.
Rorty ha però “importato”
autori come Heidegger, Nietzsche e Wittgenstein e in
qualche modo gettato un ponte tra pensatori analitici
e continentali. Quali sono state secondo lei le conseguenze
filosofiche di questa operazione? E quanto importante
sono questi autori per lei?
Di nuovo, credo che si stia largamente sovrastimando
il ruolo di Rorty. I lavori di Wittgenstein sono stati
assolutamente centrali per la filosofia anglo-americana
durante la vita di Wittgenstein e successivamente: dopo
tutto, lavorava e insegnava in Inghilterra e i suoi
più importanti allievi erano inglesi o americani.
Nietzsche è stato molto influente attraverso
varie fonti. Bernard Williams, ad esempio, ha avuto
sempre un amore per Nietzsche, ed è stato proprio
lui a generare il mio interesse per il filosofo tedesco,
prima ancora che Rorty avesse scritto alcunché
sul pensatore tedesco. Heidegger è stato sempre
insegnato ad Harvard da Stanley Cavell, che oggi ha
ottant’ani, ovvero cinque più di Rorty.
Ed è Cavell quello che ha davvero cominciato
a unire analitici e continentali in maniera esplicita.
Lo stesso hanno fatto Habermas e Rawls, che sono anagraficamente
più anziani di Rorty. Insomma, Rorty ha fatto
cose filosoficamente significative, ma non era certo
solo.
Quanto sono stati importanti, in ogni caso,
per lei quegli autori?
In realtà, nessuno di questi autori è
centrale per me oggi, perché nessuno ha dato
un contributo significativo alla filosofia politica.
Su Nietzsche tuttavia ho scritto e tenuto corsi. Ritengo
invece l’intero approccio heideggeriano alla filosofia
altamente discutibile, soprattutto nella misura in cui
Heidegger si pose come una sorta di guru rispetto ai
suoi discepoli, e creando una sorta di vero e proprio
culto. Credo infatti che i culti non debbano avere alcuno
spazio nella filosofia, che è un’attività
socratica democratica. Ma non ritengo neanche che Heidegger
fosse un filosofo importante. Insomma, non trovo un
uso possibile dei suoi lavori. Wittgenstein è
stato invece un filosofo di rilievo, ma anche qui, la
sua pratica della filosofia era troppo amante del culto
e focalizzata sul ruolo della personalità. Preferisco,
ripeto, un approccio più democratico. Non è
un caso che il filosofo continentale che ritengo più
degno di essere studiato e che ammiro di più
è Habermas, che continua in maniera lodevole
la tradizione del razionalismo kantiano, con un impegno
profondo verso l’apertura e l’autonomia
dei suoi studenti.
Rorty si definiva più come un pragmatista
che come un post-modernista. Lei ha spesso sottolineato
l’importanza per la sua filosofia delle riflessioni
di Dewey. Ritiene che il pragmatismo sia la tradizione
filosofica americana più fertile?
In verità, ho scritto solo sugli scritti di
Dewey relativi all’educazione, perché sono
quelli che conosco meglio. Ad ogni modo, non sono stata
molto influenzata dal pragmatismo. Sono sicura che sia
una tradizione importante, ma mi volgerei anche alla
tradizione precedente di Thoreau e Emerson, ripresa
poi da Stanley Cavell. Personalmente, ritengo che il
filosofo più importante della tradizione filosofica
americana sia di gran lunga John Rawls.
Rorty condivideva l’espressione, coniata
da Vattimo, di “pensiero debole”, una declinazione
particolare del post-modernismo. Le sue peculiarità
sono il rifiuto di un concetto forte di verità
e la difesa di un relativismo leggero, tollerante e
solidale. Come giudica questa posizione?
Il relativismo rortiano non è certo la posizione
più difendibile; al contrario, ci sono forme
di realismo, come ad esempio il “realismo interno”
di Putnam, assai molto più seducenti. Oppure,
sempre in ambito etico, trovo attraente la visione non
relativista della giustificazione di Rawls, tanto che
l’ho ampiamente usata nella mie riflessioni.
Condivide almeno l’idea rortiana che
la filosofia sia molto vicina alla letteratura?
Non userei granché grandi categorie astratte
come “filosofia” e “letteratura”.
Credo che possiamo dire cose più sensate solo
se facciamo affermazioni più specifiche. Io,
ad esempio, ho affermato che determinate visioni nell’etica
normativa (visioni caratterizzate da un interesse neo-aristotelico
nella virtù e nella percezione) dovrebbero essere
integrate attraverso lo studio di un tipo particolare
di romanzo (quelli di Henry James e Proust sono esempi
centrali) per sviluppare le proprie intuizioni nel modo
più perspicuo. Ci sono altre asserzioni concrete
che si possono fare circa singole connessioni tra parti
della filosofia e tipi specifici di scrittura letteraria.
Ognuna di queste rivendicazioni va però valutata
separatamente, sui suoi propri meriti.
Come giudica il modello di religione difeso
da Rorty e Vattimo, un modello dove la credenza in Dio
e Cristo è in qualche modo secondaria rispetto
alla tolleranza e alla carità? È vicina
al suo modo di vivere la religione?
La mia religione è l’ebraismo riformato,
nel quale l’impegno verso la giustizia sociale
è centrale, e le credenze teologiche e metafisiche
secondarie. Quanto alla religione in generale e al rapporto
tra religione e politica, credo che in una società
pluralistica come la nostra dobbiamo esigere principi
politici che mostrino rispetto per tutti i cittadini,
qualsiasi sia la loro dottrina religiosa. Ecco perché
ritengo che essi non debbano essere basati su una visione
come la mia, che potrebbe non essere supportata e condivisa
da altri cittadini ragionevoli. I principi politici
non dovrebbero fare alcuna rivendicazione metafisica
e dovrebbero focalizzarsi sul terreno etico, quello
che tutti i cittadini sono in grado di condividere nella
loro ricerca di giustizia.
Qual era, per concludere, la sua relazione
con Rorty? Che ricordi ha di lui e quali emozioni le
suscita la sua scomparsa?
Purtroppo conoscevo pochissimo Rorty. Quando ho insegnato,
come Young faculty member, a Princeton nel
1978-9, lui era in anno sabbatico, e così ho
perso l’opportunità di conoscerlo a fondo.
Quando più tardi lo incontrai, intorno all’incirca
al 1981, non ebbi di nuovo la chance di approfondire
i nostri rapporti perché Rorty era un uomo molto
timido. In effetti, i filosofi di quella generazione
che conosco meglio sono Bernard Williams e John Rawls,
(sulle cui morti ho scritto), Richard Wollheim, che
ho molto amato, Robert Nozick, che pure ho ammirato
tantissimo e che è scomparso in maniera tragicamente
precoce, e, infine, i miei cari amici (viventi) Hilary
Putnam e Stanley Cavell. Entrambi stanno molto bene.
Putnam ha appena celebrato il suo ottantesimo compleanno
in grande salute, e sta lavorando alacremente in molti
ambiti, dalla filosofia politica alla filosofia della
matematica. Sarà un relatore all’incontro
annuale della nostra Human Development and Capability
Association a New York quest’anno. Queste sono
le persone verso cui ho, insomma, forti emozioni. Tuttavia
l’anno scorso, quando Rorty ha tenuto la Dewey
Lecture alla nostra Law School, sono stata felice di
avere l’opportunità di parlare ancora una
volta con lui. Sfortunatamente, ebbe cattive notizie
sulla sua malattia proprio durante quella vista, così
rientrò prima di quanto stabilito. In ogni caso,
nonostante non abbia ricordi personali emozionanti relativi
a Rorty, sono davvero spiaciuta del fatto che sia scomparso
così presto. Come Williams, che è morto
sempre a settantacinque anni, aveva ancora un grande
contributo da dare.
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