In ricordo
di Richard Rorty, da poco scomparso, pubblichiamo questa
intervista apparsa su Reset n. 85 settembre-ottobre
2004
Le sembra plausibile l’idea che con l’11
settembre sia accaduto qualcosa di rilevante anche per
la filosofia? Se sì, quali sono state, secondo
lei, le più importanti conseguenze sul modo di
fare filosofia?
L’11 settembre ha costretto le persone a ripensare
alla questione di cosa fosse necessario per l’ordine
del mondo e per la cooperazione internazionale. Ha sollevato
domande, per esempio, su come cambiare la legge internazionale
in modo da prendere in considerazione il fatto che non
ci sono più solo stati nazione, ma anche gruppi
criminali, in grado di sviluppare armi di distruzione
di massa. Tuttavia, io non credo che questo ripensamento
abbia delle conseguenze sulla filosofia. Penso che dovremmo
guardarci da quella che il filosofo francese Vincent
Descombes ha chiamato the philosophy of current
events, la tentazione di affermare che la cristianità
sia impossibile dopo i papati dei Borgia, o che la poesia
sia impossibile dopo Auschwitz, o che l’esistenza
dei gulag renda impossibile l’essere socialisti,
o che, infine, una certa visione filosofica non possa
essere più sostenuta dopo l’11 settembre.
Non pensa che a volte accadano fatti che cambiano
il modo in cui le persone concepiscono il mondo e il
modo in cui esse sono nel mondo?
Sicuramente. Ma non credo che si possa dimostrare che
un certo evento debba generare un tale cambiamento –
o, in altre parole, che la sola risposta appropriata
a un dato evento sia creare un dato cambiamento. Il
legame tra eventi e Weltanschauungen non è
mai stato così forte, e mai lo sarà.
Nessun evento può dunque confutare una
visione filosofica? E qual è la sua opinione
su una filosofia che nega ogni controllo dei suoi contenuti
in base a qualche fatto reale?
La filosofia consiste nel relazionare alcuni dei nostri
discorsi ad altri discorsi – nel cercare di ammorbidire
i conflitti apparenti tra il descrivere le cose in un
modo e il descriverle con un differente campionario
di termini. Alcuni dei nostri discorsi, come alcune
delle nostre istituzioni, sono stati gradualmente modificati
per via dell’impatto di eventi come la caduta
dell’Impero Romano, il terremoto di Lisbona, la
Rivoluzione francese, la caduta del comunismo etc. Ma
questo non vuol dire che un evento possa confutare o
attestare una visione filosofica. Il rapporto tra la
filosofia e gli eventi è molto più blando.
La tesi fondamentale della critica alla filosofia
post-modernista, naïf quanto vuole, consiste
nel dire che uno shock tremendo nella realtà
ci porta a riconsiderare attentamente un rifiuto del
legame tra ciò che è reale e ciò
che rispecchia la realtà nel nostro pensiero
e nel nostro linguaggio.
Alcuni filosofi ritengono che il pensiero e il linguaggio
siano uno specchio della realtà, altri (come
me) pensano che la metafora dello specchio sia disperatamente
fuorviante. Qualunque posizione si voglia prendere in
questo dibattito, non vedo come eventi scioccanti possano
fare tanta differenza nella strategia impiegata per
contestare filosofi che la pensano in maniera diversa.
Può spiegare la differenza tra filosofia
pubblica e filosofia privata?
Alcuni filosofi, come Hobbes, Kant e Rawls, scrivono
del tipo di vita che la comunità dovrebbe condurre.
Altri, come Kierkegaard, Nietzsche e Heidegger, scrivono
del tipo di vita che una persona, con determinati sentimenti
e interessi, dovrebbe condurre. Altri, come Platone,
scrivono di entrambi gli argomenti.
Si affaccia una tesi plausibile e cioè
che quando lei riconosce, nella battaglia teoretica
tra Habermas e Derrida (e più in generale tra
una prospettiva modernista e una post-modernista), il
ruolo di filosofo pubblico al primo e attribuisce quello
di filosofo privato al secondo, questo equivalga a una
sorta di capitolazione. Come si difende?
Habermas scrive sui presupposti della comunicazione
razionale, mentre Derrida (come me) non ritiene che
tali presupposti esistano. Ma questo disaccordo, piuttosto
strettamente filosofico, non cambia il fatto che Habermas
e Derrida siano d’accordo su molte questioni politiche.
Uno può (come Habermas e me) non riuscire a cogliere
la rilevanza del lavoro di Derrida nel perseguimento
della giustizia o di altri ideali sociali. Se così,
leggerà Derrida per propositi – diciamo
– di edificazione privata. Ma non vedo come la
nozione di “capitolazione” possa essere
rilevante. Se uno leggesse un tipo di romanzo per riflettere
sulla condizione della società, e un altro tipo
di romanzo per riflettere sullo stato individuale, non
direbbe che il secondo scrittore ha “capitolato”
davanti al primo. “Filosofia” è un
termine utilizzato per indicare molti progetti intellettuali
differenti. Nessuno di questi progetti è prioritario
rispetto agli altri. Non si dovrebbe cercare di rispondere
a cattive domande del tipo “Qual è la funzione
della filosofia?” più di quanto non si
risponde a cattive domande come “Qual è
la funzione del romanzo?”. Non si dovrebbe classificare
i filosofi o i romanzieri in base a risposte date a
domande di questo tipo.
Accetta l’idea del post-modernismo nella
filosofia?
Il termine “post-modernismo” non è
molto utile. Ma voglio utilizzarlo per indicare quell’area
di sovrapposizione che va da Nietzsche a William James
e, in particolare, la proposta di smettere di pensare
alla verità come corrispondente all’intrinseca
natura della realtà. In questo senso, io sono
un post-modernista, come lo è stato Dewey. Tuttavia,
preferisco il termine “pragmatismo” che
ha il vantaggio di far comprendere che non c’è
nulla di particolarmente nuovo e alla moda nella visione
filosofica in questione.
Una delle tesi principali a favore dell’anti-fondazionalismo
è che ogni principio di fondazione è in
genere accompagnato da pretese autoritarie, e dai pericoli
conseguenti. Tuttavia, come sottolineano alcuni filosofi,
come Maurizio Ferraris, adesso l’approccio liberale
“rilassato” deve vedersela non solo con
un nemico tradizionale (come la Chiesa, il fondamentalismo
religioso, e i vari “possessori della Verità”)
ma anche con i sostenitori di un approccio liberale
non rilassato, come i neoconservatori. Il rischio di
una tirannia, in altre parole, può attaccarci
da più lati. Come si può reagire a questi
rischi senza nessuna argomentazione filosofica?
Perché dovremmo pensare agli imam che incitano
all’odio per l’occidente come a un fenomeno
differente dal modo in cui la chiesa cattolica era solita
agire? La chiesa è stata violenta come i terroristi,
fino a che ha potuto. Basta considerare le crociate.
Non sono state le argomentazioni filosofiche ad ammansire
la Chiesa cattolica e a farla smetterle di ricorrere
all’uso della violenza. E non saranno argomentazioni
filosofiche a fermare gli imam assetati di sangue. Se
l’illuminismo islamico ci sarà, non sarà
certo perché i filosofi hanno trovato nuove e
magnifiche argomentazioni; sarà piuttosto perché
la borghesia dei paesi musulmani ha affrontato lo stesso
cambiamento graduale di pensiero e di prospettiva che
aveva affrontato la borghesia cristiana tra il 1650
e il 1850. La filosofia non farà molto per portare
questo cambiamento.
Rimanendo in tema, lei sa che la Chiesa ha
più volte attaccato il pensiero post-modernista,
il relativismo. Non ho bisogno di menzionarle l’enciclica
“Fides et Ratio” perché è
un attacco filosofico tradizionale al relativismo. In
sostanza, lei non pensa che la posizione del post-modernismo
sia sotto tiro e abbia bisogno di argomenti a sostegno?
Se con “post-modernismo” intendiamo le
idee che io condivido con Vattimo, allora ritengo che
il post-modernismo sia già piuttosto forte. Vattimo
e io pensiamo che non esista un’autorità
da interpellare al di là del libero consenso,
che la secolarizzazione sia l’esito naturale dell’etica
cristiana dell’amore. Se questa posizione venisse
accettata come universale allora il cardinale Ratzinger
rimarrebbe senza lavoro. Credo che il post-modernismo
sia una continuazione della reazione, avviata dall’illuminismo,
alle regole imposte dal clero e dai sovrani. L’unica
differenza tra il post-modernismo e il razionalismo
illuminista (per esempio quello di Kant) è che
i post-modernisti sono d’accordo con Hume (altro
ottimo pensatore illuminista, anche se non razionalista):
abbandonano cioè l’idea che esista una
forza chiamata “ragione” che assicuri che
la ricerca del libero consenso ci garantisca il contatto
con la realtà. La visione post-modernista è
che si può benissimo tralasciare la discussione
sulla ragione e sulla realtà e semplicemente
discutere di politica – di come aumentare la libertà
umana, di come assicurare che le voci degli oppressi
siano ascoltate. Secondo la visione post-modernista,
la posizione di Ratzinger è solo una voce in
più nella conversazione. Il fatto che parli a
nome di un’istituzione autoritaria non dovrebbe
farci smettere di ascoltarlo, ma dovrebbe farcelo ascoltare
con un minimo di diffidenza. È nell’interesse
di istituzioni simili descrivere l’anti-autoritarismo
come “relativismo”.
Sappiamo che lei è un liberale, un progressista,
forse anche di peggio: un uomo di sinistra! Apprezziamo
i suoi scritti sulla sinistra americana e, più
in generale, il suo impegno politico. Tuttavia, può
descrivere ai nostri lettori il rapporto, se un rapporto
esiste, tra le sue idee politiche e la sua filosofia?
L’unico rapporto che riesco a vedere è
che sarebbe una cosa positiva se i cittadini delle società
democratiche smettessero di credere che esista una qualunque
autorità politica fatta eccezione il libero consenso
dei cittadini, che smettessero di pensare che esista
qualcosa chiamato il “Volere di Dio” o “Il
Tribunale della Ragione” che possa avere la meglio
su quel consenso. La mia versione del pragmatismo incorpora
il rifiuto che ci sia un’autorità del genere
e perciò anch’io reclamo la mia utilità
politica. Tuttavia è bene ricordare che a un
certo punto Mussolini, dopo aver letto Papini e William
James, si dichiarò un pragmatista. Quindi ovviamente
il rapporto tra la filosofia pragmatista e il singolo
punto di vista politico è piuttosto libero.
Uno dei suoi autori preferiti è John
Dewey. Quel tipo di connessione forte, quel tipo di
unione, tra ricerca intellettuale, politica e filosofia
in un uomo è ancora possibile?
Dewey, Habermas e Vattimo sono esempi di filosofi ugualmente
capaci di raggiungere nuovi traguardi in filosofia e
di contribuire al dibattito politico. Non credo che,
dai tempi di Dewey, sia cambiato qualcosa e che sia
più difficile oggi per un filosofo impegnarsi
nella politica, o considerare il proprio lavoro filosofico
utile alla realizzazione dei propri ideali politici.
Non pensa che la destra americana, e in particolare
i “neocon”, siano più dotati della
sinistra in termini filosofici e ideologici?
Forse ci sono degli intellettuali italiani di destra
di particolare interesse che io non ho letto, ma certamente
non ho incontrato nessun intellettuale americano di
destra che avesse una qualche rilevanza. I neoconservatori
americani sono bravi nell’attaccare i liberali,
ma terribili nell’avanzare una qualsiasi proposta
costruttiva su come combinare libertà e giustizia
sociale. Non hanno nessuna idea originale, e nessun
programma – solo rancori e sospetti.
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