Un indizio
l'autore ce lo offre già dal titolo: “Tre
storie belle”. Il suggerimento ci viene dall'aggettivo
che segue - e non precede - il sostantivo. “Tre
belle storie” sarebbero stati racconti fatti di
happy end e ritratti di personaggi, sentimenti
e famiglie troppo simili agli spot pubblicitari di qualche
marca di biscotto. “Tre storie belle”, invece,
non escludono ombre, malinconie, emozioni dolorose e,
neppure, i tentativi del nostro inconscio di negarci
alla prova del sentimento.
Francesco Roat scrive di tre amori incapaci di essere
vissuti, di un amare malato che lascia soli, in fuga
e che, a volte, si trasfigura in un eritema infiammato
che lega il polso come un bracciale troppo stretto.
Una donna, vinta da una delusione d’amore troppo
forte, decide di abbandonare tutto, di farsi suora senza
molto convincimento e di trasferirsi sull’isola
di Ceylon per curare e accudire gli orfani del posto.
Vede nei bambini abbandonati i figli che non ha mai
avuto, la madre che non è mai potuta diventare
e, un giorno, improvvisamente riscopre la propria femminilità,
fino ad allora annullata sotto il velo.
Un uomo-orco, che continua a definirsi un professionista
stimato e viaggia su automobili di lusso, è,
nella realtà, un commerciante di bambini per
il traffico di organi. E’ un uomo solo che ha
imparato a essere indifferente alla sofferenza dopo
un’infanzia di abusi e abbandoni. Un giorno però
un bambino rumeno, anche lui destinato al mercato degli
organi, gli fa riscoprire tutte le ombre del suo passato.
Infine, un uomo anziano ha sempre amato una donna impossibile.
L’operaio e la contessa, servo e Signora: un amore
mai vissuto appieno, mai rivelato, platonico, quasi
cortese.
Francesco Roat ci guida attraverso le sue storie con
una scrittura che è, allo stesso tempo, semplice
e ricca, reale e metaforica nella descrizione dei luoghi,
delle persone, delle cose. E tuttavia, ogni elemento
dei suoi racconti tende a superare la barriera della
realtà materiale e a inoltrarsi nel campo dei
sentimenti e delle emozioni nascoste. Il vento o la
pioggia non soffiano e cadono a caso. A tratti, addirittura,
è l’emozione nascosta a irrompere nella
materia e così i sentimenti che sono stati negati
troppo a lungo si fanno prurito, bruciore, piaga sulla
pelle dei protagonisti.
Tantissimi autori hanno scritto di amori strani, angosciati.
Kundera scriveva di amori ridicoli. Ma le storie di
Roat respirano un’atmosfera differente, come fossero
sospese. In quest’idea dell’amore negato
e potente, dell’emozione sofferta, non può
sfuggire un’affinità “elettiva”,
riconosciuta dallo stesso Roat, con una grande, e spesso
dimenticata, scrittrice italiana, Anna Maria Ortese.
Le emozioni dei personaggi di Roat, le loro ombre, il
loro lato oscuro li avrebbe potuti commentare la Ortese
stessa, magari così: “Sono cose che accadono,
almeno una volta nella vita, a tutti. Alcuni le ricordano,
e le rivivono, per sempre”.
Francesco Roat,
Tre storie belle,
Travenbooks, 2007
pp.167 – 14,00 €
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