Richard Rorty
è morto venerdì 8 giugno a 75 anni. È
stato uno dei più importanti e influenti filosofi
della seconda parte del XX secolo. Ha insegnato a Princeton,
in Virginia e negli ultimi anni era professore emerito
di letteratura comparata a Stanford.
Rorty ha molti meriti. Innanzitutto, ha dato nuova
linfa a una tradizione come quella del pragmatismo americano
che dopo i grandissimi protagonisti dell'inizio del
Novecento (Peirce, Dewey e James) aveva perso vitalità
e originalità. Ha saputo poi, e forse questo
è il suo merito più grande, gettare un
ponte tra scuole filosofiche molto lontane tra loro
mostrando l'anima per molti versi comune di alcuni dei
big del pensiero contemporaneo. Un'operazione ermeneutica
coraggiosa – intrapresa fin dal suo capolavoro
La filosofia e lo specchio della natura del
1979 – che è stata anche un tentativo estremo
di cambiare alla radice la natura del fare filosofico.
“Questo è un libro che si presenta esplicitamente
come epocale” scrivevano Diego Marconi
e Gianni Vattimo nella nota introduttiva per i lettori
italiani allo Specchio della natura. L'idea
che la filosofia, almeno per come la si era intesa fino
ad allora, non doveva essere riformata ma andava abbandonata
per una nuova stagione aveva in sé qualcosa di
grandioso. La filosofia con la sua storia millenaria,
secondo Rorty, sarebbe dovuta scendere dal piedistallo
e riconoscersi come gioco linguistico tra gli altri,
conversazione tra uomini in carne e ossa senza avere
ambizioni sistematiche e soprattutto la presunzione
dell'ultima parola.
Addio “soggetto”, addio “mente”,
addio “fondazione ultima”, Rorty invitava
in quel volume e in tutta la sua successiva produzione
ad abbandonare l'armamentario metafisico del passato.
L'idea di una verità oggettiva da scoprire diveniva
un idolo da abbattere. Anche i numi tutelari della modernità,
Cartesio e Kant, andavano superati per riscoprire Hegel
quale riferimento di un modo più umano e meno
ambizioso di fare filosofia.
A quasi 40 anni dall'uscita di quel volume non fa più
così impressione associare la filosofia continentale
e quella analitica e più in generale anglo-americana.
L'hanno fatto in molti negli ultimi decenni in Europa
(Karl Otto Apel, per fare un esempio, ma lo stesso Habermas
per certi versi) e anche negli Stati Uniti. Eppure,
quando Rorty scrisse che i tre pilastri della filosofia
novecentesca erano John Dewey, Martin Heidegger e Ludwig
Wittgenstein ovvero un progressista americano, un fenomenologo
sui generis tedesco e un austriaco considerato tra i
padri della filosofia analitica destò critiche
e sospetti. Il suo “neopragmatismo” raccoglieva
da tutte e tre queste figure l'attenzione per il contesto
linguistico, culturale, semiotico o pragmatico come
unico ambiente nel quale anche le parole più
astratte e i concetti più rarefatti prendono
vita. In questa direzione si vedano i saggi raccolti
in Conseguenze del pragmatismo (1982).
In molti hanno bollato il “programma filosofico
rortyano” come un progetto di suicidio della filosofia
e della stessa razionalità. Rorty, con Derrida,
è stato indicato come una delle bandiere del
postmoderno, paladino dello slogan nicciano “niente
fatti, ma solo interpretazioni”, di un'ermeneutica
“dilettantesca” e soprattutto di quel relativismo
che tanto spaventa in questi anni. Gli illuministi contemporanei
(ma pure i conservatori) lo hanno avversato. Juergen
Habermas gli riconosceva il merito di aver decostruito
l'immagine classica dello “specchio della natura”
ma con un’operazione che faceva sprofondare scienza
e la stessa prassi quotidiana in contesti casuali. “Nel
laboratorio come nella vita – scriveva Habermas
in una critica a Rorty – domina ormai la stessa
cultura dell'ambiguità, dopo che tutti gli standard
di razionalità, cioè tutte le pratiche
di giustificazione non pretendono di essere considerate
niente di più che delle convenzioni fattualmente
praticate”. Eppure, la sfida di Rorty è
proprio quella di prendere sul serio i contesti: tirare
le conseguenze fino in fondo della storicizzazione e
della contingenza del pensiero che da Hegel a Nietszche
e poi lo stesso Derrida, oltre la triade già
citata, s'impone alla filosofia contemporanea.
Negli ultimi anni, Richard Rorty aveva criticato fortemente
la presidenza Bush, lo ricordano in molti in questi
giorni. Ma l'interesse per la politica non è
una novità per il filosofo neopragmatista. Recuperare
la sinistra di Dewey e Walt Withman è un suo
progetto per un “partito della speranza”
e non del dogma. In particolare nel volume Achieving
Our Country (in italiano Una sinistra per il
prossimo secolo del 1999), Rorty raccoglie le sue
idee sull'evoluzione della sinistra Usa e sulla deriva
culturalista che avrebbe preso dalla fine degli anni
'60. La “sinistra culturale”, così
la definisce dispregiativamente, preferisce non parlare
di soldi. Il riferimento della lotta politica non sono
più le ingiustizie sociali ma quelle determinate
sulla base delle differenze identitarie.
Come suonano attuali (per gli Stati Uniti ma anche per
la sinistra italiana) le parole che Rorty scrisse a
proposito dei progressisti americani che una quarantina
di anni fa si spostavano da un impianto economicista
a uno identitario. “Se la Sinistra culturale insiste
nella sua attuale strategia – nel chiedere di
rispettarci l'un l'altro nelle differenze piuttosto
che chiederci di non badare più a esse –
dovrà trovare un nuovo modo di creare un senso
di appartenenza comune al livello della politica nazionale.
Solo una retorica dell'appartenenza comune può
creare una maggioranza vincente per le elezioni nazionali”.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|