323 - 21.06.07


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Rorty, il filosofo che
ha segnato un'epoca

Alessandro Lanni


Richard Rorty è morto venerdì 8 giugno a 75 anni. È stato uno dei più importanti e influenti filosofi della seconda parte del XX secolo. Ha insegnato a Princeton, in Virginia e negli ultimi anni era professore emerito di letteratura comparata a Stanford.

Rorty ha molti meriti. Innanzitutto, ha dato nuova linfa a una tradizione come quella del pragmatismo americano che dopo i grandissimi protagonisti dell'inizio del Novecento (Peirce, Dewey e James) aveva perso vitalità e originalità. Ha saputo poi, e forse questo è il suo merito più grande, gettare un ponte tra scuole filosofiche molto lontane tra loro mostrando l'anima per molti versi comune di alcuni dei big del pensiero contemporaneo. Un'operazione ermeneutica coraggiosa – intrapresa fin dal suo capolavoro La filosofia e lo specchio della natura del 1979 – che è stata anche un tentativo estremo di cambiare alla radice la natura del fare filosofico.

“Questo è un libro che si presenta esplicitamente come epocale” scrivevano Diego Marconi e Gianni Vattimo nella nota introduttiva per i lettori italiani allo Specchio della natura. L'idea che la filosofia, almeno per come la si era intesa fino ad allora, non doveva essere riformata ma andava abbandonata per una nuova stagione aveva in sé qualcosa di grandioso. La filosofia con la sua storia millenaria, secondo Rorty, sarebbe dovuta scendere dal piedistallo e riconoscersi come gioco linguistico tra gli altri, conversazione tra uomini in carne e ossa senza avere ambizioni sistematiche e soprattutto la presunzione dell'ultima parola.

Addio “soggetto”, addio “mente”, addio “fondazione ultima”, Rorty invitava in quel volume e in tutta la sua successiva produzione ad abbandonare l'armamentario metafisico del passato. L'idea di una verità oggettiva da scoprire diveniva un idolo da abbattere. Anche i numi tutelari della modernità, Cartesio e Kant, andavano superati per riscoprire Hegel quale riferimento di un modo più umano e meno ambizioso di fare filosofia.

A quasi 40 anni dall'uscita di quel volume non fa più così impressione associare la filosofia continentale e quella analitica e più in generale anglo-americana. L'hanno fatto in molti negli ultimi decenni in Europa (Karl Otto Apel, per fare un esempio, ma lo stesso Habermas per certi versi) e anche negli Stati Uniti. Eppure, quando Rorty scrisse che i tre pilastri della filosofia novecentesca erano John Dewey, Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein ovvero un progressista americano, un fenomenologo sui generis tedesco e un austriaco considerato tra i padri della filosofia analitica destò critiche e sospetti. Il suo “neopragmatismo” raccoglieva da tutte e tre queste figure l'attenzione per il contesto linguistico, culturale, semiotico o pragmatico come unico ambiente nel quale anche le parole più astratte e i concetti più rarefatti prendono vita. In questa direzione si vedano i saggi raccolti in Conseguenze del pragmatismo (1982).

In molti hanno bollato il “programma filosofico rortyano” come un progetto di suicidio della filosofia e della stessa razionalità. Rorty, con Derrida, è stato indicato come una delle bandiere del postmoderno, paladino dello slogan nicciano “niente fatti, ma solo interpretazioni”, di un'ermeneutica “dilettantesca” e soprattutto di quel relativismo che tanto spaventa in questi anni. Gli illuministi contemporanei (ma pure i conservatori) lo hanno avversato. Juergen Habermas gli riconosceva il merito di aver decostruito l'immagine classica dello “specchio della natura” ma con un’operazione che faceva sprofondare scienza e la stessa prassi quotidiana in contesti casuali. “Nel laboratorio come nella vita – scriveva Habermas in una critica a Rorty – domina ormai la stessa cultura dell'ambiguità, dopo che tutti gli standard di razionalità, cioè tutte le pratiche di giustificazione non pretendono di essere considerate niente di più che delle convenzioni fattualmente praticate”. Eppure, la sfida di Rorty è proprio quella di prendere sul serio i contesti: tirare le conseguenze fino in fondo della storicizzazione e della contingenza del pensiero che da Hegel a Nietszche e poi lo stesso Derrida, oltre la triade già citata, s'impone alla filosofia contemporanea.

Negli ultimi anni, Richard Rorty aveva criticato fortemente la presidenza Bush, lo ricordano in molti in questi giorni. Ma l'interesse per la politica non è una novità per il filosofo neopragmatista. Recuperare la sinistra di Dewey e Walt Withman è un suo progetto per un “partito della speranza” e non del dogma. In particolare nel volume Achieving Our Country (in italiano Una sinistra per il prossimo secolo del 1999), Rorty raccoglie le sue idee sull'evoluzione della sinistra Usa e sulla deriva culturalista che avrebbe preso dalla fine degli anni '60. La “sinistra culturale”, così la definisce dispregiativamente, preferisce non parlare di soldi. Il riferimento della lotta politica non sono più le ingiustizie sociali ma quelle determinate sulla base delle differenze identitarie.
Come suonano attuali (per gli Stati Uniti ma anche per la sinistra italiana) le parole che Rorty scrisse a proposito dei progressisti americani che una quarantina di anni fa si spostavano da un impianto economicista a uno identitario. “Se la Sinistra culturale insiste nella sua attuale strategia – nel chiedere di rispettarci l'un l'altro nelle differenze piuttosto che chiederci di non badare più a esse – dovrà trovare un nuovo modo di creare un senso di appartenenza comune al livello della politica nazionale. Solo una retorica dell'appartenenza comune può creare una maggioranza vincente per le elezioni nazionali”.

 

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