Uno stanzone
squallido dove un gruppo di persone lavora in stato
di schiavitù, dove il grande capo controlla i
movimenti di ciascuno, dove le angherie si sprecano
e si moltiplicano i kapò. 1984? Brazil?
La Caienna? No, siamo solo nella redazione di un giornale
online, alla vigilia della Grande Disillusione, quella
secondo cui Internet ha smesso di apparire come il paese
del Bengodi, soprattutto per i web magazine.
E’ questo è il microcosmo che racconta
in Zitto e scrivi (edizioni Stampa Alternativa)
Chiara Lico – un microcosmo che lei conosce bene,
essendo una giornalista trentenne che ha vissuto in
prima persona l’odissea della precarietà
nel mondo illusorio delle news, dove il praticantato
(cioè l’accesso legittimo alla professione
e il primo passo verso un contratto a tempo indeterminato)
fa rima con precariato pieno di promesse, quasi mai
mantenute, fatto di contratti a termine (dove il termine
è tre mesi al massimo) e inquadramenti “da
metalmeccanico” (non per modo di dire).
E’ facile immaginare che sia lei, l’Aristea
del romanzo, unica giornalista della redazione web con
un minimo di dignità e di senso critico, intenta
a prendere note febbrili su quell’universo parallelo:
“Questi sono momenti da registrare”, scrive
Aristea. “Ma ci si crederebbe, a raccontarlo fuori
di questa gabbia?” . Invece è tutto vero:
i direttori che meritano il soprannome di “Merda
Reale”; i vicecapi che sfruttano a sangue i loro
sottoposti, costruendo il proprio piccolo potere su
un mix di intimidazione e lusinga (in questo caso la
kapò è una donna – si fa per dire,
visto che il suo soprannome è l’Uoma),
contando sul fatto che c’è sempre qualcuno
più giovane, più stacanovista e più
leccaculo pronto a prendere il posto di chi cerca di
far valere un minimo di diritti umani, prima ancora
che “giornalistici”. Non mancano ovviamente
i raccomandati – siamo in Italia, che diamine
– in questo caso una “tipa bbona”
e ben imparentata, con il titolo e il contratto –
lei sì – di caporedattrice, anche se il
suo contributo consiste nel limarsi le unghie e, occasionalmente,
darla bene.
Zitto e scrivi è una tragicommedia,
ma è anche un trattatello socioeconomico sulla
realtà contemporanea, su cosa sono diventati
nel nostro Paese il giornalismo e, in generale, il mercato
del lavoro. Ed è assai azzeccata l’idea
dell’autrice di far parlare tutti, ciascuno dal
proprio punto di vista, per farci capire che in fondo
sono tutti vittime, polli di Renzo che si beccano gli
uni con gli altri invece di prendersela con chi tiene
in mano le redini, e si assicura che una situazione
così grottesca si perpetui all’infinito.
Uno dei personaggi prenderà la pistola, ma auguriamo
ai lettori di prendere, a romanzo terminato, la matita
copiativa per votare contro il “precariato”
e la “flessibilità” (non-parole orwelliane
che significano sfruttamento indiscriminato dell’uomo,
o Uoma, sull’uomo) e proseguire con il megafono
per rimettere in riga chi, una volta arrivato al governo,
si rimangia le promesse elettorali. E soprattutto per
difendere, anche se non si fa di mestiere il giornalista
(ma a maggior ragione se lo si fa), un settore che tanto
più è ridotto in schiavitù, tanto
meno saprà fare da cane da guardia in difesa
della società civile – perché alla
fine dovrebbe essere questo, il ruolo dei mass media,
nonostante la contemporaneità sia esempio dell’esatto
contrario. Zitto e scrivi fa ridere (amaro),
fa arrabbiare e commuove. Ma ancora più importante,
fa venire la voglia di alzarsi e dire: “I'm as
mad as hell, and I'm not going to take this anymore".
Chiara Lico
Zitto e scrivi
Stampa Alternativa
pagg.177, 10,00 euro
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