320 - 02.05.07


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Una necessaria complicità

Michele Trimarchi


Questo articolo è tratto da Reset n. 100.

Oggi sempre di più affidiamo all’arte il compito di estrarre le comunità urbane (e soprattutto suburbane) dalle ordinate macerie di periferie abbandonate, di quartieri cresciuti casualmente, di edifici dormitorio tristi e poco funzionali. Altro che inutile; l’arte è diventata, nel dibattito sul futuro, la zattera che ci salverà dal naufragio nella barbarie.

Il tema è complesso, e come si vede il rischio di affrontarlo enfaticamente è alto. Soprattutto, nonostante le sempre più numerose esperienze internazionali, la sua declinazione in salsa italica deve fare i conti con una concezione dell’arte e della cultura legata al passato e renitente a mescolarsi con la realtà quotidiana. Se volessimo tracciare una mappa dei percorsi urbani (le persone che si spostano da casa al lavoro, ai luoghi di socializzazione, alle vie dei negozi, e così via) scopriremmo che l’offerta culturale è sostanzialmente tagliata fuori, non tanto perché sia ignorata o snobbata, quanto perché essa stessa si pone al di fuori dalla vita quotidiana; l’effetto è abbastanza preoccupante: i luoghi e i percorsi della creatività si sviluppano al di fuori dai luoghi della cultura, accentuando in questo modo una cesura tra antico e contemporaneo, se si vuole tra conservazione e produzione.

Inutile dire chi vince e chi perde. Da qualche anno le imprese private in Italia sostengono finanziariamente il settore culturale (con poco più di 30 milioni di euro nell’ultimo anno), ma la loro preferenza va ai grandi teatri d’opera o ai grandi musei, non certo alla sperimentazione espressiva o all’arte contemporanea; allo stesso modo, le fondazioni di origine bancaria svolgono una massiccia opera a vantaggio della cultura (con 420 milioni nell’ultimo anno), ma il grosso della loro azione è focalizzato sul passato. Certo, restaurare, conservare, tutelare sono attività imprescindibili. Ma alla fine dei conti l’enfasi sull’antico ha finito per creare un fenomeno di diffidenza e disprezzo nei confronti dell’arte contemporanea; nell’immaginario delle comunità urbane questa temperie incide non poco, alimentando il fenomeno della nostalgia per una società forse mai davvero esistita, ma desiderata contro l’evidenza. Non sono poche le città che affidano la costruzione del senso di appartenenza della comunità locale a operazioni passatiste, foto sbiadite e posticce ricostruzioni.

Da questa atmosfera malinconica e rassegnata rimane fuori proprio il futuro. Il nostro futuro urbano, fatto di relazioni, di esperienze quotidiane, di condivisione e di evoluzione. Un esempio? Il Teatro degli Arcimboldi di Milano, scomodo contenitore attualmente privo di contenuto nel quale la Fondazione Teatro alla Scala si è sentita “in temporaneo esilio” e dal quale è fuggita a gambe levate non appena ha potuto riaprire il teatro del Piermarini; eppure avrebbe potuto raddoppiare il pubblico (se solo avesse seguito il virtuoso esempio dell’Opéra di Parigi, che da anni usa due sedi), magari sostenendone l’accesso con adeguate campagne di proselitismo e un efficace servizio di trasporto gratuito (è vero, c’erano gli autobus da Piazza Duomo, ma solo all’andata: al ritorno ce n’erano solo tre o quattro e chi non correva subito fuori si trovava in mezzo al nulla). Un esempio contrario? Sarebbe facile richiamarsi all’Auditorium romano, ma sembrerebbe di voler alimentare un confronto infondato e poco edificante tra le due capitali d’Italia.

Andiamo allora vicino ai confini, e troviamo il Teatro Cristallo di Bolzano, vecchio cinema parrocchiale di periferia riaperto l’anno scorso dopo un efficace adeguamento tecnologico, e meta di un pubblico crescente e curioso; guardandoci intorno troveremmo buoni motivi per comprendere che la cultura e l’arte possono davvero contribuire – in modo infungibile e sistematico – alla crescita del benessere urbano, e al consolidamento di una serie di valori che proprio il dibattito italiano ritiene insufficienti: il senso di appartenenza, il rapporto con il territorio, la socializzazione e la tolleranza, il capitale sociale.

Pur senza cercare modelli virtuosi (ogni città italiana è per sua stessa origine e storia del tutto inconfrontabile), ci si può fermare proprio a Bolzano per accorgersi che, sia pure in un impianto urbano reso rigido anche dalla simbolica separazione delle due comunità linguistiche, il percorso è complesso ma preciso: si costruiscono nuovi edifici, magari con una certa attenzione alla loro bellezza esteriore (dal Teatro Comunale all’edificando Museion); al tempo stesso, si sostengono le attività culturali “dal basso”, incoraggiandone l’emersione e il consolidamento anche in spazi non convenzionali (e già in questo modo si c rea un tessuto di attività sparso nel territorio); infine, si programmano direttamente attività che i singoli non potrebbero sostenere (una delle più recenti è Kunstart, fiera dell’arte contemporanea che ha guadagnato una reputazione notevole in soli quattro anni).

Così, pur senza rinunciare al mercatino di Natale o alle corali alpine, Bolzano e il suo territorio stanno immaginando il proprio futuro in termini evolutivi, e ne stanno progettando le dinamiche. L’effetto è sorprendente: tutte le forme di offerta culturale, con l’unica eccezione del cinema, mostrano nella provincia di Bolzano il grado di partecipazione più elevato del paese, con distanze a volte notevoli tra il dato bolzanino e la media nazionale. Si vede con chiarezza che è la cultura a dettare l’agenda dello sviluppo urbano; e che non si tratta più della memoria ma dell’immaginazione.

In questo senso, proprio a pochi passi dal Teatro degli Arcimboldi si sta sviluppando un coagulo di progetti destinati a cambiare la faccia dei comuni a nord di Milano e al confine con la costituenda provincia di Monza-Brianza. Sono comuni segnati da un legame forte con il lavoro in fabbrica, e nei quali certamente non mancheranno segni evidenti di questa identità; ma vedono già molti insediamenti industriali trasformarsi in musei, biblioteche e centri culturali, promettendo un’estesa fruizione ai residenti, attraendo possibilmente studenti e professionisti che gravitano intorno alla Bicocca, rivolgendosi comunque a un bacino sociale ampio e diversificato e con l’intenzione primaria di ridisegnare l’identità del luogo assecondando e anticipando l’evoluzione della società.

Certo, il lavoro da fare è massiccio. Sia pure in un contesto ostile, la lezione che si può trarre dalle esperienze di successo è quella della necessaria complicità: non è possibile immaginare una crescita del benessere urbano solo per effetto di un’offerta culturale di valore; al contrario, questa da sola spesso ha prodotto fenomeni di rigetto da parte della comunità locale, “spiazzata” da turisti di massa e dall’adattarsi commerciale del territorio alla produzione di reddito nel breve periodo; una crescita solida e sostenibile si può conseguire soltanto a patto di coinvolgere nel processo l’intero governo strategico del territorio, ossia tanto i diversi livelli di governo quanto una serie contigua di rami dell’amministrazione, in modo che la dotazione infrastrutturale (i teatri, i musei, gli spazi destinati alla cultura) sia la base su cui si innesta una varia e intensa attività di creazione e produzione culturale.

Non si dimentichi che la filosofia dell’azione pubblica in campo culturale è tuttora quella del sostegno all’eccellenza, con la quale si finisce per inaridire la fertilità naturale delle attività creative. Al contrario, le città dovrebbero capire che solo investendo sul pluralismo scomposto della produzione culturale si può ottenere un benessere infungibile nel lungo periodo; così, piuttosto che escogitare meccanismi bizantini di sostegno finanziario, potrebbe bastare la concessione gratuita ed esente dal fisco di residenze e laboratori per decine di artisti creativi con un progetto per il quartiere in cui vanno a vivere e creare. Il sacrificio immediato ( perdita di reddito e di gettito) sarebbe più che compensato dai benefici che se ne potrebbero trarre in tempi ragionevolmente contenuti. La cultura è dunque lo snodo cruciale, è quel paio d’occhiali che può ridare vita a città spesso messe sotto una bolla di cristallo per turisti non biodegradabili.

L’emergenza è rappresentata dalla bruttezza (o, se si vuole, dalla mancanza di una credibile identità) e dall’isolamento dell’offerta culturale in luoghi spesso bellissimi ma quasi mai dialoganti con il tessuto urbano. La scommessa è tornare a parlare alla società contemporanea. Spesso basta poco: nella Langhe c’è una piccola chiesa in mezzo alle vigne, uguale a tante chiese del Barocco piemontese; interamente decorata da Sol Lewitt, contrasta la dolcezza sbiadita delle colline con le sue fasce di colori accesi, e mostra che la bellezza si può declinare in tanti modi, permettendo a ciascuno di riconoscersi al tempo stesso nei segni antichi di un paesaggio disegnato dall’uomo e in quelli contemporanei di forme e colori che raccontano la velocità amica della nostra vita quotidiana.

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