Questo
articolo è tratto da Reset n. 100.
Oggi sempre di più affidiamo all’arte
il compito di estrarre le comunità urbane (e
soprattutto suburbane) dalle ordinate macerie di periferie
abbandonate, di quartieri cresciuti casualmente, di
edifici dormitorio tristi e poco funzionali. Altro che
inutile; l’arte è diventata, nel dibattito
sul futuro, la zattera che ci salverà dal naufragio
nella barbarie.
Il tema è complesso, e come si vede il rischio
di affrontarlo enfaticamente è alto. Soprattutto,
nonostante le sempre più numerose esperienze
internazionali, la sua declinazione in salsa italica
deve fare i conti con una concezione dell’arte
e della cultura legata al passato e renitente a mescolarsi
con la realtà quotidiana. Se volessimo tracciare
una mappa dei percorsi urbani (le persone che si spostano
da casa al lavoro, ai luoghi di socializzazione, alle
vie dei negozi, e così via) scopriremmo che l’offerta
culturale è sostanzialmente tagliata fuori, non
tanto perché sia ignorata o snobbata, quanto
perché essa stessa si pone al di fuori dalla
vita quotidiana; l’effetto è abbastanza
preoccupante: i luoghi e i percorsi della creatività
si sviluppano al di fuori dai luoghi della cultura,
accentuando in questo modo una cesura tra antico e contemporaneo,
se si vuole tra conservazione e produzione.
Inutile dire chi vince e chi perde. Da qualche anno
le imprese private in Italia sostengono finanziariamente
il settore culturale (con poco più di 30 milioni
di euro nell’ultimo anno), ma la loro preferenza
va ai grandi teatri d’opera o ai grandi musei,
non certo alla sperimentazione espressiva o all’arte
contemporanea; allo stesso modo, le fondazioni di origine
bancaria svolgono una massiccia opera a vantaggio della
cultura (con 420 milioni nell’ultimo anno), ma
il grosso della loro azione è focalizzato sul
passato. Certo, restaurare, conservare, tutelare sono
attività imprescindibili. Ma alla fine dei conti
l’enfasi sull’antico ha finito per creare
un fenomeno di diffidenza e disprezzo nei confronti
dell’arte contemporanea; nell’immaginario
delle comunità urbane questa temperie incide
non poco, alimentando il fenomeno della nostalgia per
una società forse mai davvero esistita, ma desiderata
contro l’evidenza. Non sono poche le città
che affidano la costruzione del senso di appartenenza
della comunità locale a operazioni passatiste,
foto sbiadite e posticce ricostruzioni.
Da questa atmosfera malinconica e rassegnata rimane
fuori proprio il futuro. Il nostro futuro urbano, fatto
di relazioni, di esperienze quotidiane, di condivisione
e di evoluzione. Un esempio? Il Teatro degli Arcimboldi
di Milano, scomodo contenitore attualmente privo di
contenuto nel quale la Fondazione Teatro alla Scala
si è sentita “in temporaneo esilio”
e dal quale è fuggita a gambe levate non appena
ha potuto riaprire il teatro del Piermarini; eppure
avrebbe potuto raddoppiare il pubblico (se solo avesse
seguito il virtuoso esempio dell’Opéra
di Parigi, che da anni usa due sedi), magari sostenendone
l’accesso con adeguate campagne di proselitismo
e un efficace servizio di trasporto gratuito (è
vero, c’erano gli autobus da Piazza Duomo, ma
solo all’andata: al ritorno ce n’erano solo
tre o quattro e chi non correva subito fuori si trovava
in mezzo al nulla). Un esempio contrario? Sarebbe facile
richiamarsi all’Auditorium romano, ma sembrerebbe
di voler alimentare un confronto infondato e poco edificante
tra le due capitali d’Italia.
Andiamo allora vicino ai confini, e troviamo il Teatro
Cristallo di Bolzano, vecchio cinema parrocchiale di
periferia riaperto l’anno scorso dopo un efficace
adeguamento tecnologico, e meta di un pubblico crescente
e curioso; guardandoci intorno troveremmo buoni motivi
per comprendere che la cultura e l’arte possono
davvero contribuire – in modo infungibile e sistematico
– alla crescita del benessere urbano, e al consolidamento
di una serie di valori che proprio il dibattito italiano
ritiene insufficienti: il senso di appartenenza, il
rapporto con il territorio, la socializzazione e la
tolleranza, il capitale sociale.
Pur senza cercare modelli virtuosi (ogni città
italiana è per sua stessa origine e storia del
tutto inconfrontabile), ci si può fermare proprio
a Bolzano per accorgersi che, sia pure in un impianto
urbano reso rigido anche dalla simbolica separazione
delle due comunità linguistiche, il percorso
è complesso ma preciso: si costruiscono nuovi
edifici, magari con una certa attenzione alla loro bellezza
esteriore (dal Teatro Comunale all’edificando
Museion); al tempo stesso, si sostengono le attività
culturali “dal basso”, incoraggiandone l’emersione
e il consolidamento anche in spazi non convenzionali
(e già in questo modo si c rea un tessuto di
attività sparso nel territorio); infine, si programmano
direttamente attività che i singoli non potrebbero
sostenere (una delle più recenti è Kunstart,
fiera dell’arte contemporanea che ha guadagnato
una reputazione notevole in soli quattro anni).
Così, pur senza rinunciare al mercatino di Natale
o alle corali alpine, Bolzano e il suo territorio stanno
immaginando il proprio futuro in termini evolutivi,
e ne stanno progettando le dinamiche. L’effetto
è sorprendente: tutte le forme di offerta culturale,
con l’unica eccezione del cinema, mostrano nella
provincia di Bolzano il grado di partecipazione più
elevato del paese, con distanze a volte notevoli tra
il dato bolzanino e la media nazionale. Si vede con
chiarezza che è la cultura a dettare l’agenda
dello sviluppo urbano; e che non si tratta più
della memoria ma dell’immaginazione.
In questo senso, proprio a pochi passi dal Teatro degli
Arcimboldi si sta sviluppando un coagulo di progetti
destinati a cambiare la faccia dei comuni a nord di
Milano e al confine con la costituenda provincia di
Monza-Brianza. Sono comuni segnati da un legame forte
con il lavoro in fabbrica, e nei quali certamente non
mancheranno segni evidenti di questa identità;
ma vedono già molti insediamenti industriali
trasformarsi in musei, biblioteche e centri culturali,
promettendo un’estesa fruizione ai residenti,
attraendo possibilmente studenti e professionisti che
gravitano intorno alla Bicocca, rivolgendosi comunque
a un bacino sociale ampio e diversificato e con l’intenzione
primaria di ridisegnare l’identità del
luogo assecondando e anticipando l’evoluzione
della società.
Certo, il lavoro da fare è massiccio. Sia pure
in un contesto ostile, la lezione che si può
trarre dalle esperienze di successo è quella
della necessaria complicità: non è possibile
immaginare una crescita del benessere urbano solo per
effetto di un’offerta culturale di valore; al
contrario, questa da sola spesso ha prodotto fenomeni
di rigetto da parte della comunità locale, “spiazzata”
da turisti di massa e dall’adattarsi commerciale
del territorio alla produzione di reddito nel breve
periodo; una crescita solida e sostenibile si può
conseguire soltanto a patto di coinvolgere nel processo
l’intero governo strategico del territorio, ossia
tanto i diversi livelli di governo quanto una serie
contigua di rami dell’amministrazione, in modo
che la dotazione infrastrutturale (i teatri, i musei,
gli spazi destinati alla cultura) sia la base su cui
si innesta una varia e intensa attività di creazione
e produzione culturale.
Non si dimentichi che la filosofia dell’azione
pubblica in campo culturale è tuttora quella
del sostegno all’eccellenza, con la quale si finisce
per inaridire la fertilità naturale delle attività
creative. Al contrario, le città dovrebbero capire
che solo investendo sul pluralismo scomposto della produzione
culturale si può ottenere un benessere infungibile
nel lungo periodo; così, piuttosto che escogitare
meccanismi bizantini di sostegno finanziario, potrebbe
bastare la concessione gratuita ed esente dal fisco
di residenze e laboratori per decine di artisti creativi
con un progetto per il quartiere in cui vanno a vivere
e creare. Il sacrificio immediato ( perdita di reddito
e di gettito) sarebbe più che compensato dai
benefici che se ne potrebbero trarre in tempi ragionevolmente
contenuti. La cultura è dunque lo snodo cruciale,
è quel paio d’occhiali che può ridare
vita a città spesso messe sotto una bolla di
cristallo per turisti non biodegradabili.
L’emergenza è rappresentata dalla bruttezza
(o, se si vuole, dalla mancanza di una credibile identità)
e dall’isolamento dell’offerta culturale
in luoghi spesso bellissimi ma quasi mai dialoganti
con il tessuto urbano. La scommessa è tornare
a parlare alla società contemporanea. Spesso
basta poco: nella Langhe c’è una piccola
chiesa in mezzo alle vigne, uguale a tante chiese del
Barocco piemontese; interamente decorata da Sol Lewitt,
contrasta la dolcezza sbiadita delle colline con le
sue fasce di colori accesi, e mostra che la bellezza
si può declinare in tanti modi, permettendo a
ciascuno di riconoscersi al tempo stesso nei segni antichi
di un paesaggio disegnato dall’uomo e in quelli
contemporanei di forme e colori che raccontano la velocità
amica della nostra vita quotidiana.
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