320 - 02.05.07


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Tra democrazia e secolarizzazione

Alessandro Lanni


“Se la Turchia deve scegliere, la democrazia è più importante della secolarizzazione”. In Turchia – a differenza che in buona parte dell'Occidente – rispetto delle regole, pluralismo e laicità dello Stato non sono (sempre) valori condivisi in egual misura da tutti. Sull'ultimo numero, l'Economist prende una posizione netta rispetto al grave conflitto istituzionale che si sta svolgendo in questi giorni tra Ankara e Istanbul. Quella in corso nel Palazzo e per le strade sarebbe, secondo la copertina del settimanale, “una battaglia per definire l'anima del paese”. Dopo la rivolta dei militari in difesa dello Stato secolare fondato da Ataturk e contro la deriva teocratica che avrebbe preso il governo e dopo l'annullamento della nomina a capo di Stato del ministro degli Esteri Abdullah Gul perché “troppo” musulmano, le acque sembrano più calme. In pochi giorni la tensione era schizzata alle stelle: le dichiarazioni dei militari contro il governo, le manifestazioni in piazza, gli scontri durante le celebrazioni per il 1 maggio, la richiesta di nuove elezioni. Si è evitata, per ora, una crisi irreversibile ma tuttavia i problemi nella politica e nella società turca sono tutt'altro che risolti.

Il 22 luglio si svolgeranno elezioni politiche anticipate (erano previste per il 4 novembre) ed è probabile che il partito islamico moderato (l'Ak del primo ministro Erdogan e di Gul, i due protagonisti del recente scontro) avrà nuovamente la maggioranza rispetto ai laici del Chp, il partito fondato da Ataturk. Dunque, una resa dei conti solamente rinviata. Il conflitto tra democrazia e secolarismo potrebbe esplodere di nuovo, forse con una violenza anche maggiore di quella della scorsa settimana.

“Per quanto possa essere desiderabile preservare l'eredità laica e secolare di Ataturk – scrive l'Economist – questo non può avvenire a spese del normale processo democratico, anche se esso produce governi cattivi, che funzionano poco e mediamente islamici”. L'articolo prosegue ricordando il caso dell'Algeria, dove morirono 150mila persone durante una guerra civile scatenata anche dall'esercito dopo la vittoria del partito islamista alle elezioni. “Certo, la Turchia non è l'Algeria, ma i militari devono stare attenti a sovvertire il risultato elettorale. Punire i governi spetta agli elettori, non ai soldati”. Malgrado le manifestazioni di massa dei giorni scorsi in difesa dello Stato secolare contro il velo per le donne e la sharia, nessuno – sottolinea la rivista britannica – sa indicare una sola legge promulgata dal governo in carica che mini le fondamenta della costituzione. “Nessuno la sa indicare perché non esiste una tale legge”.

Secondo l'Economist non sarebbe in corso semplicemente un conflitto religioso, ma in rotta di collisione sarebbero interi blocchi sociali antagonisti. Da una parte, la vecchia borghesia laica nata con Kemal Ataturk (“i turchi bianchi”) e non disponibile a cedere un millimetro alle istanze sollevate dalla maggioranza musulmana. Dall'altra i milioni di emigrati che negli ultimi decenni sono arrivati nelle grandi città provenienti dalle campagne dell'Anatolia. Religiosi e imprenditori aggressivi stanno mettendo in crisi l'élite di un tempo che dopo aver trasformato la Turchia non è stata in grado di trasformare se stessa.

Quello che preoccupa gli analisti interni ed esterni, non è solo il gusto dell'esercito turco per la politica ma anche il rischio che esso abbia una certa autonomia d'intervento nelle questioni mediorientali. E per questo motivo Ue e Stati Uniti si sono mosse con i piedi di piombo in questi giorni di crisi. “L'incubo per l'America – scrive l'Economist – è che soldati turchi e americani si sparino contro in Iraq. Evento, se ci si basa sulle ultime settimane, non può essere escluso a priori”.



 

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