“Se
la Turchia deve scegliere, la democrazia è più
importante della secolarizzazione”. In Turchia
– a differenza che in buona parte dell'Occidente
– rispetto delle regole, pluralismo e laicità
dello Stato non sono (sempre) valori condivisi in egual
misura da tutti. Sull'ultimo numero, l'Economist
prende una posizione netta rispetto al grave conflitto
istituzionale che si sta svolgendo in questi giorni
tra Ankara e Istanbul. Quella in corso nel Palazzo e
per le strade sarebbe, secondo la copertina del settimanale,
“una battaglia per definire l'anima del paese”.
Dopo la rivolta dei militari in difesa dello Stato secolare
fondato da Ataturk e contro la deriva teocratica che
avrebbe preso il governo e dopo l'annullamento della
nomina a capo di Stato del ministro degli Esteri Abdullah
Gul perché “troppo” musulmano, le
acque sembrano più calme. In pochi giorni la
tensione era schizzata alle stelle: le dichiarazioni
dei militari contro il governo, le manifestazioni in
piazza, gli scontri durante le celebrazioni per il 1
maggio, la richiesta di nuove elezioni. Si è
evitata, per ora, una crisi irreversibile ma tuttavia
i problemi nella politica e nella società turca
sono tutt'altro che risolti.
Il 22 luglio si svolgeranno elezioni politiche anticipate
(erano previste per il 4 novembre) ed è probabile
che il partito islamico moderato (l'Ak del primo ministro
Erdogan e di Gul, i due protagonisti del recente scontro)
avrà nuovamente la maggioranza rispetto ai laici
del Chp, il partito fondato da Ataturk. Dunque, una
resa dei conti solamente rinviata. Il conflitto tra
democrazia e secolarismo potrebbe esplodere di nuovo,
forse con una violenza anche maggiore di quella della
scorsa settimana.
“Per quanto possa essere desiderabile preservare
l'eredità laica e secolare di Ataturk –
scrive l'Economist – questo non può avvenire
a spese del normale processo democratico, anche se esso
produce governi cattivi, che funzionano poco e mediamente
islamici”. L'articolo prosegue ricordando il caso
dell'Algeria, dove morirono 150mila persone durante
una guerra civile scatenata anche dall'esercito dopo
la vittoria del partito islamista alle elezioni. “Certo,
la Turchia non è l'Algeria, ma i militari devono
stare attenti a sovvertire il risultato elettorale.
Punire i governi spetta agli elettori, non ai soldati”.
Malgrado le manifestazioni di massa dei giorni scorsi
in difesa dello Stato secolare contro il velo per le
donne e la sharia, nessuno – sottolinea la rivista
britannica – sa indicare una sola legge promulgata
dal governo in carica che mini le fondamenta della costituzione.
“Nessuno la sa indicare perché non esiste
una tale legge”.
Secondo l'Economist non sarebbe in corso semplicemente
un conflitto religioso, ma in rotta di collisione sarebbero
interi blocchi sociali antagonisti. Da una parte, la
vecchia borghesia laica nata con Kemal Ataturk (“i
turchi bianchi”) e non disponibile a cedere un
millimetro alle istanze sollevate dalla maggioranza
musulmana. Dall'altra i milioni di emigrati che negli
ultimi decenni sono arrivati nelle grandi città
provenienti dalle campagne dell'Anatolia. Religiosi
e imprenditori aggressivi stanno mettendo in crisi l'élite
di un tempo che dopo aver trasformato la Turchia non
è stata in grado di trasformare se stessa.
Quello che preoccupa gli analisti interni ed esterni,
non è solo il gusto dell'esercito turco per la
politica ma anche il rischio che esso abbia una certa
autonomia d'intervento nelle questioni mediorientali.
E per questo motivo Ue e Stati Uniti si sono mosse con
i piedi di piombo in questi giorni di crisi. “L'incubo
per l'America – scrive l'Economist –
è che soldati turchi e americani si sparino contro
in Iraq. Evento, se ci si basa sulle ultime settimane,
non può essere escluso a priori”.
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