Questa
intervista è tratta da Reset n. 100.
Una dimensione esplicitamente politica si è
affermata nel tuo lavoro solo a partire dagli anni Settanta;
cosa ha preparato questo
mutamento rispetto al tuo percorso precedente?
Fino al 1964 avevo fatto parte del gruppo di giovani
artisti attorno a Piazza del Popolo. Si pensava che
cambiando la lingua si migliorasse il mondo, si aprissero
le porte di un’arte nuova. L’espressionismo
astratto era stato alla base dei nostri primi tentativi,
della nostra riflessione sul rapporto con la realtà:
conoscevamo da vicino gli artisti americani.
Poi ci fu il 1964 e la Biennale con la rivelazione della
pop art. I pittori americani facevano le stesse
cose che avevamo cominciato a fare dal ’57-58,
ma in dimensioni che noi non avevamo mai raggiunto,
opere di oltre tre
metri, immagini gigantesche vicine al design industriale
e pubblicitario.
Capii subito che era il seppellimento italiano, mentre
gli altri no, pensarono “Siamo sulla giusta strada,
andiamo a New York!”.
Non fu così: chi andò in America ci rimase
un anno, due, ma alla fine tutti dovettero tornare.
L’America non naturalizzò gli artisti italiani.
Le ragioni sono diverse e note.
E quale fu invece la tua reazione?
Mi fermai a riflettere, era evidente che la cultura
artistica aveva spostato il suo baricentro.
Da una parte c’era New York, culturalmente vitale,
e dall’altra un’attesa altrettanto vitale
per la Russia che ancora non aveva prodotto nulla; in
mezzo si apriva una grande valle che comprendeva l’Italia,
un paese in qualche modo culturalmente scartato
per diverse ragioni, per la lingua forse; ma comunque
scartata era anche l’Inghilterra, benché
tra Roma e Londra ci fossero stati artisti che avevano
intuito la nuova realtà della società
dei consumi. Per qualche anno, dal ’64 al ’68,
non ho fatto mostre.
Sono stati anni di riflessione?
Una specie di depressione riflessiva, in cui notavo
che gli americani erano più brutali, più
diretti.
Noi avevamo inconsciamente l’occhio a una misura
classica.
C’era su di noi l’ombra della grande arte.
Non riuscivamo ad affrontare la realtà, non saremmo
stati capaci di fare una scultura con la Coca-Cola.
L’ho scritto altre volte: la bottiglia del Chianti
non poteva avere la stessa funzione emblematica, rimaneva
dialettale. Era necessaria una presa di posizione di
fondo; volevo capire. Da quando, e dove?
Ho iniziato dalla prima giovinezza, dalla mia biografia.
C’era stato il fascismo, la guerra, lo sterminio
degli ebrei. Dovevo ricominciare da lì, analizzare
i disastri subiti, il freddo, la fame, la paura, i bombardamenti.
Uno scoppio – un terremoto – quando si usciva
all’aperto non vedevi più il palazzo di
fronte, sentivi che una famiglia era morta.
Ho cominciato a riflettere su tutto questo. Impresso
nella memoria trovai un raduno di Ludi juveniles
a Firenze, nei giardini di Boboli, dove ero stato con
Pasolini, Fabio Luca Cavazza, Francesco Leonetti. Avevamo
incontrato i giovani della Hitlerjugend. Le
ragazze con le treccine, i maschi solo biondi, alti
uguali. Noi eravamo un po’ diseguali, uno con
le fasce storte, l’altro col fez in un modo ecc.
Ripensando a quelle giornate riflettevo sull’aspetto
politico e storico del destino, a come la storia incide
sulla vicenda
dei singoli. Sembra un incidente, ma è la sostanza
di una vita.
Come si trasformò allora il ricordo
dei Ludi juveniles in un
lavoro artistico?
Volevo fare una mostra che riferisse di queste memorie,
presentando un oggetto storico, senza aggiungere niente.
Da un vecchio negoziante avevo trovato il microfono
di Mussolini, l’originale, chiuso in una scatola
come
una reliquia, sepolto nella bambagia. In quel microfono
era passata la voce, lo sputo di Mussolini… dai
piccoli buchi era filtrata la dichiarazione di guerra.
Milioni di persone erano divenute soggetti di un destino.
Ho fatto di
tutto per avere quell’attrezzo. Ho detto bassezze,
“Noi fascisti…”.
Ero pronto ad aprire un mutuo per acquistare il microfono,
l’idea era eloquente. Il simbolo parlava di una
realtà storica italiana, europea.
E te lo ha dato alla fine?
No, il vecchio non c’è cascato…
Nel frattempo, era il 1971, Giorgio Pressburger mi chiamò
all’Accademia d’Arte Drammatica per un seminario
e una performance.
Avevo sempre in mente quel che avrei potuto fare con
il microfono di Mussolini.
Da questa idea derivò Che cosa è il
fascismo. Decisi di rimettere in piedi con gli
allievi dell’Accademia il raduno di Boboli, cercando
di ricostruirne esattamente l’atmosfera, togliendo
il cowboy o la pin-up dalla gestualità
dei giovani, insegnando alle ragazze a sedersi con le
ginocchia chiuse e ai ragazzi a stare diritti, a marciare
e ubbidire subito agli ordini…
Il primo insegnamento consisteva nell’essere di
un’epoca per loro sconosciuta. Mi sono messo in
cerca di testi di Mistica Fascista, li ho trovati e
assemblati per ricreare quegli scambi tautologici che
ricordavo di aver ascoltato: “Perché credi
nel Duce?”, “Perché il Duce ha detto
di credere in lui”, “Ed è giusto?”,
“Sì, lo ha detto il Duce!”
In quegli anni qual era la tua percezione del
fascismo?
Lo consideravi una “parentesi”, come aveva
detto Croce, una pagina nera della storia italiana,
oppure, come Gobetti, l’autobiografia della nazione,
un’ideologia che aveva avuto un seguito reale
nel paese?
Del fascismo non parlava più nessuno, lo si
giudicava un’esperienza politica chiusa, che la
democrazia aveva già giudicato e condannato.
Non era vero: Che cosa è il fascismo
è andato in scena tre giorni dopo il golpe Borghese!
Tutte le volte che io ho ripreso Che cosa è il
fascismo ho dovuto lottare fino all’ultimo contro
questa riluttanza a fare i conti con la realtà.
Gobetti aveva molta ragione.
Che cosa è il fascismo è stato
pensato più in termini teatrali, come messa in
scena, o come una performance che coinvolgeva in modo
specifico interpreti e pubblico?
È teatrale nel senso che ho inventato una scena,
una sintesi spaziale di ciò che avevo vissuto,
ma la scena era anche un’installazione orientata
come un tunnel.
Non c’era una trama, ma un percorso mentale. Le
tribune nere, attorno al grande tappeto, disegnavano
l’unico punto della dottrina fascista di una certa
consistenza: il corporativismo.
C’erano le tribune dei familiari, dei giornalisti,
degli ingegneri, dei grandi proprietari terrieri, ironicamente.
Il pubblico assumeva o meglio subiva la sua parte, sedendosi
in tribuna. Erano perfetti attori involontari, borghesi,
popolari, ignari, stupiti, divertiti, offesi, vecchi
e giovani.
E c’era anche la tribuna “razziale”.
Sì, due tribune, piccole, con la stella ebraica.
Era un modo per rendere la “normalità”
iniziale delle leggi razziali che furono anche la fine
dell’identificazione della mia dolce vita giovanile
con la vita fascista.
E quale visione volevi fare emergere in quella
e nelle altre tue performance che hanno come tema il
fascismo?
Avevo trovato il fondo di un carattere critico, il
mio. E il possibile inganno delle idee. La performance
doveva essere una specie di termometro della storia
italiana, di un fascismo diffuso, del suo essere classista,
del privilegiare i più forti, della sua essenziale
superficialità.
Una cosa ricordo bene: i capimanipolo, i capiclasse,
i capisquadra, erano i più stupidi, sempre; più
sciocchi e più autoritari perché avevano
bisogno di qualcuno che detenesse la verità che
loro amministravano, e questo ovunque. Nel gruppetto
di intellettuali con cui condividevo una piccola notorietà
bolognese – Pasolini, Serra, Cavazza, Telmon…
– iniziammo a sentire il ridicolo
delle parole d’ordine, della mascherata settimanale…
La performance era anche un modo per “politicizzare”
la scena
dell’arte?
Per me l’arte che si politicizza in realtà
è l’arte che approfondisce la coscienza
e la conoscenza del mondo, che scopre il destino formato
da caratteri interiori e
personali, persino fisici, e da elementi esterni ed
eterogenei, estranei. La guerra ad esempio, non è
un incidente, ma una percentuale non indifferente che
il
destino occupa nella vita degli individui, e in cui
la politica ha un peso straripante.
Come consideri la scelta di Pasolini con “Salò”,
e cioè mettere in scena il testo di Sade in un
contesto fascista? È un’operazione che
somiglia alla tua da questo punto di vista?
Me lo sono chiesto più volte. Alcuni mi hanno
detto che ho suggerito a molti molte cose, avendole
fatte una volta sola. Può darsi. Ma di sicuro
non ho mai pensato di sommare Sade e Salò. Il
fascismo è concettualmente orribile, per me,
senza l’aggiunta di orrori. Rappresenta una retorica
ideologica che conduce alla morte.
Nell’agitata atmosfera politica seguita
al Sessantotto qual era la tua posizione?
Io non facevo della politica, ma della coscienza; è
una cosa identica e insieme profondamente diversa. Credo
sia identica alla fine, per me almeno è così.
Insomma rispetto all’impegno tipico di quegli
anni il tuo atteggiamento era diverso.
Sentivo che la volontà di “fare politica”
poteva diventare una presunzione quasi mondana. Molte
volte sono stato invitato a “far parte”
di gruppi, ma ho sempre detto di no: io non faccio arte politica, dicevo, non
sono militante di un partito, non mi calo in una postazione,
o se lo faccio, lo faccio già attraverso la moralità
dell’arte. L’arte che faccio è frutto
di elaborazioni di coscienza, sono operazioni pubbliche
ma fortemente individuali, quasi private. Diventano
politiche nella lunga durata.
La “coscienza” di cui parli ha
insomma a che fare con un principio etico più
che con una visione politica.
È un senso di coscienza storica e politica del
bene e del male, del sociale e dell’individuale.
E parlando di coscienza, fornisco evidentemente delle
indicazioni sul mio concetto di arte e di artista.
Cos’è l’arte? Sono sempre ossessionato
dal capire la mia idea dell’arte, cioè
cosa faccio. È molto vicina a una mia idea di
vita, o è la stessa cosa. Ho fatto un’arte
come rapporto di giudizio tra me e il mondo. Ho scelto
il mondo come interlocutore per capire dov’ero,
e ho avuto un rapporto conflittuale ma dialettico con
l’esistenza.
Questo procedere a occhi sbarrati in una sorta di luce
anziché di buio è il mio personale Not
Afraid of the Dark. Niente ancora mi immobilizza,
sono stato sempre a disposizione dell’ultimo esperimento.
Ora, l’ultimo mio esperimento è la vecchiaia,
che arriva per conto suo ed è di un’altra
epoca, è curioso.
Somiglia nella sua novità a qualcosa che ho già
vissuto in un’età disadatta.
Aver lavorato sul fascismo, sul nazismo, sul
negativo della storia europea, risponde alla ricerca
di una spiegazione delle ragioni del male?
Sì, l’ho già detto, le mie sono
tematiche dell’esperienza; molte volte, dopo aver
visto Che cosa è il fascismo, qualcuno mi chiede:
“Tutto bene, lei ha sperimentato questo e quest’altro,
è vero, ma perché non fa l’analogo
col comunismo?”.
Una domanda severa, politica. “Perché ne
sono incapace” rispondo. Forse è un handicap,
un tabù, ma quella realtà non l’ho
conosciuta frontalmente.
Forse sono stato, e sono, un marxista “colto”:
da bambino invece di Pinocchio mio padre mi
leggeva Marx, mi spiegava il Capitale. Lo teneva
sulla scrivania come una Bibbia, sebbene fosse un categorico
liberale. Ci congratulavamo
con Marx o lo disapprovavamo. Sono marxista come un
altro sarebbe crociano.
E in seguito sei stato comunista?
Mai, no.
Si potrebbe dire che il totalitarismo in sé
sia il tuo oggetto di studio.
Ho visto il terrore dell’ideologia, come l’ideologia
possa dare un’idea di un mondo interamente falso
e mascherare le potenzialità distruttive, perché
l’ideologia, ahimè, è un modo in
cui l’uomo pone attorno a sé una serie
di campi minati, per interdire l’accesso al resto
del mondo. L’ideologia totalitaria pensa il mondo
per te, obbligatoriamente. L’uomo apprende tutto
per cartolina, cambia il suo vestito con la divisa,
prende il moschetto invece che l’ombrello. L’ideologia
gli insegna come dare la mano, come salutare. Io mi
sono messo a p e n s a re cos’era l’ideologia
e in che cosa l’ideologia tendeva a fare a meno
o a diversificarsi dall’esperienza, proprio sul
versante della critica della coscienza: la “coscienza
critica” per me è il salvacondotto di ogni
attività, anche artistica.
Il pensiero ideologico è davvero finito,
siamo alla fine entrati
in quella che è stata definita la “post-storia”?
Per me tutta la storia è “post-storia”,
e non ha fondamento come idea moderna. Il modo di pensare
ideologico non è finito: è ineliminabile.
Dopo la caduta del Muro di Berlino tutti hanno pensato
che l’ideologia fosse morta. Io non l’ho
pensato un secondo. Anzi. La storia contemporanea è
scomparsa per due istanti, ed è riemersa subito,
ideologica. La maggioranza degli uomini cerca l’ideologia.
In un certo senso è un sottoprodotto del pensiero.
Per non essere un pensiero aperto, deve fare un’operazione
interna
di chiusura critica. L’ideologia assembla l’uomo
a un’identità centrale, non individuale.
È una tautologia critica. Sopprime con atteggiamento
fermo e feroce ogni idea contraria.
Quindi da un certo punto di vista toglie l’ansia,
cura.
Può togliere l’ansia, ma non cura, perché
ritorna più grave nei fatti.
Ma la religione, tutte le religioni, direbbe
un illuminista, non
hanno proprio questo carattere?
Anche la religione può diventare ideologica.
Cristo condanna i farisei, il loro modo formale di considerarsi
religiosi. Li chiama “vipere”. La religione
è un tragitto verso Dio, complesso e oggettivo
come l’Essere, su cui nessuno discute, o pochi.
Non è un botteghino in cui compri il biglietto
una volta per tutte, né un conforto generico.
È una passione su ciò che credi, che è
Dio, e
una discussione con lui.
Sei o sei stato credente?
Sono stato molto religioso, di una religiosità
che mi ha condotto prima in cliniche dove cercavano
di “guarire” le mie ossessioni, e poi dopo,
per sette anni, a occuparmi, in un paese vicino a Civitavecchia,
dei ragazzi che la
guerra aveva lasciato soli.
Quanti anni avevi?
Dai sedici ai venticinque. Quindi ne uscii, sentivo
che dovevo reincontrare di nuovo la vita comune.
Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?
La fede. Io ormai so che Dio c’è.
Questa parte della tua vita l’hai mai
dimenticata o voluta dimenticare?
No, l’ho avuta sempre in mente.
E la tua esperienza religiosa si è intrecciata
a quella artistica?
Hai intitolato una tua conferenza-performance “Dio
e la
scena”.
Mi sono molto chiesto se a Dio piaceva l’arte
moderna e se per caso gli era piaciuto qualcosa che
faccio io.
Hai trovato una risposta?
La risposta, col tempo, è che a Dio piaceva
Picasso. Certe cose che ho fatto forse gli sono piaciute.
Ma posso ingannarmi, certo...
Per tornare al tuo percorso artistico, c’è
una tua opera in particolare, “Intellettuale”,
che affronta direttamente la questione
del rapporto tra l’opera e il suo autore; avevi
chiesto a Pier Paolo Pasolini di fare da “schermo”
di proiezione per un suo film.
Il Vangelo secondo Matteo.
Sì, e c’è una fotografia
famosa di Pasolini in camicia bianca
mentre l’immagine scorre sul suo petto. Sappiamo
che stava
ascoltando la colonna sonora a volume intenzionalmente
alto.
Si potrebbe dire che tu stessi visualizzando l’estraneità
dell’autore al suo stesso lavoro, il suo essere
accecato e assordato rispetto al semplice spettatore.
Ho scritto sul senso della proiezione. È un
esperimento di fisica.
Noi siamo un condensato di memoria, proiettiamo continuamente
una memoria, per riconoscere il mondo; nell’artista
la memoria si scontra, ma si consolida sull’oggetto
mondo. Pasolini credeva di contenere il Vangelo che
aveva decifrato, ma non capiva più a che punto
era, nella performance. Come se perdesse lo sguardo
sulla propria interiorità, era sgomento. Io non
sapevo bene cosa volevo ottenere, ma era qualcosa che
riguardava una sorta di scambio di coscienza. Lo sottoponevo
a una prova, forse. O sottoponevo me alla stessa prova.
Volevo ritrovare la mappa della nostra
amicizia, intensa sui temi generali, compreso Dio. Quando
si andava a cena con Pasolini, sembrava di cenare con
Cristo.
Pasolini, la sua arte cinematografica, non era sempre
un testamento ideologico, ma una mimesis profonda.
Niente della sua arte gli era estraneo, né Dio,
né il sesso, né se stesso. Pier Paolo
somigliava a Michaux che diceva: “Non sono mai
stato tanto religioso come quando ho peccato”.
È discutibile, ma ne ho esperienza, può
essere così.
La proiezione dà quindi significato?
Certo, il significato è una “proiezione”
della mente. Quindi è simile
alla proiezione di un film.
Per questo proietto film d’autore, cioè
di chi ha un’esperienza, interpreta un fatto,
matura un giudizio.
Usare il corpo come “schermo” potrebbe
alludere al fatto che le immagini non appaiono mai semplicemente
su una tela o su un muro, ma finiscono sempre per essere
assorbite, digerite, modificando chi le osserva.
Certo. Ma proiettare un’immagine su un corpo,
o anche su cinquanta litri di latte o su un’altra
materia modifica la proiezione, cioè produce
un significato inedito.
È una palese dimostrazione della nascita del
significato. Nasce da tutto ciò che noi conteniamo
nella memoria, e dall’immobilità apparente
della realtà. Nell’incontro la somma crea
un ibrido. Sembra meccanico, ma non è che il
nuovo significato.
Il tuo lavoro più recente continua a
interro g a re il totalitarismo?
In realtà il mio interlocutore è oggi
la vita in generale, non più solo la storia o
la politica italiana.
Anche se l’esperienza del male da cui parto, ad
esempio nel lavoro di Milano, è ancora quella
di cui so la storia e l’incidenza: Hitler è
un simbolo intatto.
C’è una piccola citazione, una battuta
in Casablanca, due che parlano e uno dice a
un ufficiale tedesco “Ogni volta che Lei nomina
il Terzo Reich, sembra che ne stia aspettando un Quarto”.
L’ho estrapolata, come un avviso.
La natura della storia è quella del mondo. Dall’ovvio
al profondo, dal bene al male, dal pacifico al sanguinario.
L’uomo non è un incidente. È una
coscienza protagonista. Anche se non ne è più
il centro, resta un epicentro dell’universo, almeno
visto dalla Terra.
Il Quarto Reich è quello che deve venire,
che ci minaccia sempre.
Certo. Mi sto approssimando con questa mostra a un’impressione
forte. Quando avrò centrato la cosa, forse sarà
sgradevole, e formalmente giusta. Vorrei comunicare
il senso di smarrimento che provo. Individuare lo smarrimento
è già una difesa, tu devi capire cosa
ti travolge, ma smarrirsi vuol dire essere attenti e
anche ammonire a stare attenti.
La vecchiaia è scoprire finalmente cosa è
l’esistenza, e non azzardarsi a sapere senz’altro
cosa sia. Una contraddizione piena di chiarezza. Non
so chi voglio commuovere. Cerco di disilludere. Questo
caos non è un caso. Come quando componevo Che
cosa è il fascismo. Sembrava di camminare
sul vuoto. Sono curioso di vedere che c’è
sotto.
L’arte dal tuo punto di vista è
come cercare un passaggio, o una via d’uscita,
tra disillusione e smarrimento?
In arte per raggiungere chiarezza si possono fare solo
esempi sproporzionati. Se qualcuno avesse chiesto a
Giorgione cosa intendeva fare mentre dipingeva La
Tempesta, “Un nudo di donna in primo piano”,
avrebbe potuto rispondere, “e, accanto, un arabo,
no, un sacerdote… no, un mago”. In realtà
Giorgione dipingeva una sola cosa, l’infinito,
come hanno scritto molti critici.
Il totale di un’opera d’arte, fuori da un’estetica
concreta o pragmatica, è un’invisibilità
che si stabilizza tra le cose, come un oggetto. Non
bisogna descrivere un gesto artistico in modo troppo
semplificato pur di farsi capire.
Anche per l’arte, come dice Einstein per la relatività,
la spiegazione è semplice, ma non troppo semplice.
Nella mostra si vedono molti segni di ciò che
ho raccontato, attraverso proiezioni, “titoli
di coda”, nomi e cognomi, professioni, gente che
vive di film, o vive il mondo come film. Dice se gli
piace o no. Bisogna stare attenti; il mondo prende posizione
per conto suo. È un mondo, o è il mondo?
Si ascoltano sonori di film. Il sonoro occupa spazio
come un solido. La scena alla Bicocca è pronta,
non è una Comédie humaine semmai
è un Cinéma humain. Si può
dire?
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