320 - 02.05.07


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Chagall e il valore dell'esilio

Paola Casella


“Con Chagall, l’esilio diventa un valore”. Lo dice Moni Ovadia, in piedi davanti a un gruppo di quadri del pittore russo che la telecamera gli fa ruotare intorno, nel video di accompagnamento alla mostra Chagall delle meraviglie, al Complesso del Vittoriano di Roma fino al primo luglio. Un’esposizione vasta e coinvolgente che sottolinea l’importanza dell’allontanamento dal paese natale per l’artista ebreo, che ha saputo trasformare quell’esperienza dolorosa in creatività. Nelle 180 opere esposte al Vittoriano, Marc Chagall documenta la vita gioiosa dei villaggi russi e poi l’arrivo dei soldati e la devastazione dei pogrom, a trasformare i rossi da accesi in sanguigni, i verdi da vivaci in lividi, i gialli da lame di luce in lingue di fuoco. Ma attraverso questa testimonianza di dolore la vitalità dell’artista sopravvive indenne, anzi, trionfa sulla violenza e sull’assurdità del pregiudizio, ribadendo continuamente una volontà di affermare il proprio amore per la vita e per tutte le persone care: gli abitanti del villaggio, la moglie, gli amici.

Le opere di Chagall sono sberleffi alle disperazione e dichiarazioni d’amore, un amore che fa volare alto sulle brutture come sulle bellezze del mondo a lui contemporaneo (del quale, dopo i pogrom, ha fatto parte la follia del nazismo). I personaggi ricorrenti – il violinista sul tetto del villaggio, che compare fuori contesto ma sempre a proposito; gli angeli, anche loro sospesi in un cielo che a volte è cupo e lambito dalle fiamme, altre è sereno e carico di promesse; il circo, come accozzaglia goiosa di varia umanità; la capra e il gallo - sono un continuo promemoria, e allo stesso tempo una reiterazione della presenza sua e della sua gente.

Chagall mette sulla tela un universo, figlio non solo della creatività individuale, ma anche di un caparbio ottimismo della volontà; e prende a prestito da tutte le tecniche sue contemporanee - il surrealismo, il fauvismo, il cubismo condiviso con Picasso, a cui è abbracciato in una delle tante foto proiettate su un muro del Vittoriano, dove Chagall appare esattamente come era: uno spirito libero animato da uguale dolcezza e irriverenza, con gli occhi che ridono di divertita empatia, mai di scherno - senza sposare una sola corrente artistica perché per lui l’arte era “soprattutto uno stato d’animo”, e come tale refrattario a qualunque limite o etichetta.

Il leit motif dominante della mostra, che è certamente presente nell’opera di Chagall, ma che è qui stato privilegiato rispetto ad altri (un esempio: l’amore coniugale, che appare altrettanto frequentemente nei capolavori dell’artista), non oscura altri aspetti del suo lavoro, come la ricerca sul colore (quasi sempre primario, gridato, spesso superimposto ai personaggi dei suoi ritratti), il simbolismo delle figure ricorrenti, la costruzione dell’immagine, dove elementi contrapposti raccontano una storia, in un gioco continuo di primi piani e sagome lontane, di movimento e staticità, di presenze eteree e trasparenti e forme concrete, delimitate da pennellate nette e scure.
E anche nei contesti più drammatici, dei quali Chagall non nega mai la grevità o l’importanza, l’artista cerca e trova la leggerezza come scelta di vita e di prospettiva sul mondo: una leggerezza che vince sul male e sulla morte (tant’è che lui è vissuto fino a quasi cento anni), che si innalza su tutto e su tutti, insegnandoci a volare, nonostante tutto.


 

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