“Con
Chagall, l’esilio diventa un valore”. Lo
dice Moni Ovadia, in piedi davanti a un gruppo di quadri
del pittore russo che la telecamera gli fa ruotare intorno,
nel video di accompagnamento alla mostra Chagall
delle meraviglie, al Complesso del Vittoriano di
Roma fino al primo luglio. Un’esposizione vasta
e coinvolgente che sottolinea l’importanza dell’allontanamento
dal paese natale per l’artista ebreo, che ha saputo
trasformare quell’esperienza dolorosa in creatività.
Nelle 180 opere esposte al Vittoriano, Marc Chagall
documenta la vita gioiosa dei villaggi russi e poi l’arrivo
dei soldati e la devastazione dei pogrom, a trasformare
i rossi da accesi in sanguigni, i verdi da vivaci in
lividi, i gialli da lame di luce in lingue di fuoco.
Ma attraverso questa testimonianza di dolore la vitalità
dell’artista sopravvive indenne, anzi, trionfa
sulla violenza e sull’assurdità del pregiudizio,
ribadendo continuamente una volontà di affermare
il proprio amore per la vita e per tutte le persone
care: gli abitanti del villaggio, la moglie, gli amici.
Le opere di Chagall sono sberleffi alle disperazione
e dichiarazioni d’amore, un amore che fa volare
alto sulle brutture come sulle bellezze del mondo a
lui contemporaneo (del quale, dopo i pogrom, ha fatto
parte la follia del nazismo). I personaggi ricorrenti
– il violinista sul tetto del villaggio, che compare
fuori contesto ma sempre a proposito; gli angeli, anche
loro sospesi in un cielo che a volte è cupo e
lambito dalle fiamme, altre è sereno e carico
di promesse; il circo, come accozzaglia goiosa di varia
umanità; la capra e il gallo - sono un continuo
promemoria, e allo stesso tempo una reiterazione della
presenza sua e della sua gente.
Chagall mette sulla tela un universo, figlio non solo
della creatività individuale, ma anche di un
caparbio ottimismo della volontà; e prende a
prestito da tutte le tecniche sue contemporanee - il
surrealismo, il fauvismo, il cubismo condiviso con Picasso,
a cui è abbracciato in una delle tante foto proiettate
su un muro del Vittoriano, dove Chagall appare esattamente
come era: uno spirito libero animato da uguale dolcezza
e irriverenza, con gli occhi che ridono di divertita
empatia, mai di scherno - senza sposare una sola corrente
artistica perché per lui l’arte era “soprattutto
uno stato d’animo”, e come tale refrattario
a qualunque limite o etichetta.
Il leit motif dominante della mostra, che
è certamente presente nell’opera di Chagall,
ma che è qui stato privilegiato rispetto ad altri
(un esempio: l’amore coniugale, che appare altrettanto
frequentemente nei capolavori dell’artista), non
oscura altri aspetti del suo lavoro, come la ricerca
sul colore (quasi sempre primario, gridato, spesso superimposto
ai personaggi dei suoi ritratti), il simbolismo delle
figure ricorrenti, la costruzione dell’immagine,
dove elementi contrapposti raccontano una storia, in
un gioco continuo di primi piani e sagome lontane, di
movimento e staticità, di presenze eteree e trasparenti
e forme concrete, delimitate da pennellate nette e scure.
E anche nei contesti più drammatici, dei quali
Chagall non nega mai la grevità o l’importanza,
l’artista cerca e trova la leggerezza come scelta
di vita e di prospettiva sul mondo: una leggerezza che
vince sul male e sulla morte (tant’è che
lui è vissuto fino a quasi cento anni), che si
innalza su tutto e su tutti, insegnandoci a volare,
nonostante tutto.
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