L’originale
tesi di Vittorio Caratozzolo intorno a Il deserto
dei Tartari di Buzzati è che esso rivelerebbe
“una cultura ‘esoterica’ che trova
alcuni suoi fondamenti nella teologia egizia, nella
tradizione orfica, nella filosofia platonica, nonché,
naturalmente, nella religione cristiana”. Nel
suo vasto, documentatissimo e assai articolato saggio
l’autore si propone dunque di scovare le tracce
di tale esoterismo analizzando in primo luogo il cammino
esistenziale/iniziatico di Giovanni Drogo – che,
come tutti sanno, è il protagonista del Deserto
– un giovane ufficiale assegnato alla Fortezza
Bastiani in un non ben precisato luogo remoto e desertico,
al confine con le terre un tempo attraversate, appunto,
dai Tartari. Per quasi tutto il romanzo Drogo e commilitoni
attendono invano di incontrare o misurarsi col nemico
(o comunque col cosiddetto popolo del Nord) e, dopo
svariati anni, l’ormai anziano ex tenente, ammalatosi
e lasciata la Fortezza, dovrà affrontare ben
altro avversario: la morte, che Drogo accoglie con serena
accettazione. Questa, in sintesi, la trama del romanzo;
ma veniamo all’analisi interpretativa di Caratozzolo.
Innanzitutto – a parte la sottolineatura del
depistaggio strategico di Buzzati, volto a far credere
al lettore per tutto il libro che i Tartari, presto
o tardi, arriveranno – viene sottolineata la caratteristica
atopica e liminare del luogo dove è situata la
Fortezza Bastiani: né ambito urbano né
rurale, ma ai confini tra il mondo altro dei Tartari
e quello civilizzato occidentale. E vien posto l’accento
sulla dicotomia oppositiva fra la popolazione della
Fortezza e la figura paradossalmente insieme assente/presente
dell’alterità che è simboleggiata
dall’universo alieno/irriducibile al nostro, e
che viene situato/immaginato oltre confine. Si contrappongono
quindi il caos della barbarie e il cosmo degli europei,
l’ambito pre-logico e il logos, l’inconscio
e il conscio, l’assenza di regole e il regolamento
(specie militare). Vera e propria frontiera semiotica,
il deserto, sin dai tempi biblici allude a meditazione/contemplazione
e distacco dal mondo profano: è luogo di passaggio/trasformazione
per antonomasia. Ma come sarà possibile ai guerrieri-eremiti
uscire dallo stallo tra gli opposti inconciliabili di
cui sopra?
Caratozzolo ci ricorda che solo Drogo riuscirà
a farlo, riferendosi alla risoluzione finale adottata
dall’ufficiale, giacché egli supererà
ogni confine e risolverà ogni dicotomia lacerante:
“semplicemente non opponendo resistenza, e accettando
l’irruzione di tutte le entità contrappostegli”.
Certo questa è interpretazione metaromanzesca
ed una parola definitiva in questo senso non è
possibile tracciarla, anche solo perché il Deserto
si chiude giusto prima della resa finale del protagonista;
ma tutto nel capitolo conclusivo ci mostra come Drogo
sia finalmente pervenuto alla soluzione giusto in articulo
mortis, anche se Buzzati non giunge a descriverci
il decesso del suo antieroe.
Comunque il romanzo si conclude in prossimità
di un trapasso allusivo verso un oltre di cui si dice
ben poco ma che non sembra preludio d’annichilimento
o morte definitiva ma presagio di un perdurare dell’essere
che ha sentore/speranza in una prosecuzione/resurrezione.
Parlando della annunciata morte di Drogo e della fine
del romanzo, Caratozzolo ci fa altresì notare
il parallelismo tra l’inizio del libro e la sua
chiusa, attraverso una specularità/circolarità
che si coglie a livello topico. Ci troviamo in una stanza,
lontani dalla Fortezza, sia nell’incipit che nel
finale: la prima è quella della casa materna
del giovane tenente; la seconda è la camera d’una
locanda sconosciuta presso la quale Drogo è destinato
a spegnersi.
Assistiamo allora all’alba e al crepuscolo della
vita adulta (consapevole) del protagonista, che non
a caso ha il nome biblico di Giovanni (interessanti
i nessi o incroci testuali che Caratozzolo coglie fra
vari passi biblici e le pagine del Deserto).
Ma è nella scena finale del romanzo, la quale
prelude ma non giunge alla morte di Drogo (segnale forse
di negazione della morte come evento/dato definitivo),
che Caratozzolo ravvisa il carattere ascetico/iniziatico
dell’ultima prova cui deve sottoporsi l’ex
tenente.
L’iniziazione e la prova vengono superate: ciò
che il protagonista aborriva – l’exitus
– gli si rivela, con implicito stupore, una “cosa
semplice e conforme a natura”. Drogo, nota il
critico, ribalta/rigetta lo stile di vita precedente,
riconosce l’insensatezza dell’ideologia
eroico-militare perseguita con più o meno coerenza
in tutto il libro/cammino vitale. Anzi Drogo, afferma
Caratozzolo, resta pur sempre “l’eroe del
testo”, tuttavia la sua gloria non dipende più
da quella derivante dall’impresa bellica ma diviene
battaglia/conquista interiore, condotta attraverso un
“percorso iniziatico-esistenziale, avente come
meta il sapere mistico”.
Così il mistero della vita si rivela al cospetto
della morte, che non appare più nemica (ogni
nemico è scomparso o, meglio, mai è apparso
davvero nel Deserto). L’apocalisse personale
di Drogo si compie, come già Buzzati aveva in
precedenza annunciato (e Caratozzolo puntualmente ci
segnala il suggestivo parallelismo testuale fra l’apocalisse
giovannea e alcuni brani del romanzo). Così il
passo al di là: oltre la vita – per
dirla con Blanchot – sta per compiersi. I confini
cessano di essere tali; non si dà più
iato/contrasto fra ragione e passione, esterno ed interno,
cosmo e caos. Nell’accesso finale ad una unità
conciliatrice attraverso/oltre la morte, Drogo, secondo
quest’ottica ermeneutica, perviene ad una pienezza/realizzazione
spirituale che suggella il compimento del cammino iniziatico
del protagonista. Di contro, pure il lettore “cresce”
in consapevolezza alla pari dei progressi spirituali/cognitivi
di Drogo; con lui supera “le ambigue trappole
della comunicazione” fabbricate da Buzzati per
depistare e/o mettere alla prova insieme a Drogo pure
chi legge.
Quanto alle altre figure maschili del testo, i commilitoni
dell’ufficiale sembra non intendano né
possano emanciparsi da una visione ingessata dell’ideale
militare, incapaci come sono di distogliere lo sguardo
dal confine e dalla panoramica/prospettiva esteriore
(uno sguardo sempre e solo rivolto/teso all’oltre
e all’altro da sé) e non già mai
orientata verso l’interno (autoriflessiva e meditativa).
La stessa ferrea regola militare costringe peraltro
i soldati a comportamenti formali, inautentici e vacui,
come anche i mai raggiunti né raggiungibili obiettivi
militari (vigilare su un nemico non presente a priori).
Così l’assenza con cui confrontarsi, scrive
Caratozzolo, fa risaltare ancor di più l’assurdo
della macchina militaresca: vera e propria macchinazione
a cui si arrendono gli assai poco consapevoli commilitoni
di Drogo.
Dunque all’apparenza non c’è sviluppo,
crescita, storia nel Deserto; perché
appunto all’esterno nulla ha da compiersi. Ma,
dice bene Caratozzolo rispetto a questa stasi apparente,
“lo sbocco da tale circolarità si può
trovare solo cambiando radicalmente la propria visione
della vita”. Perciò viene qui ribadita
da parte del personaggio principale: “un’iniziazione
al sapere mistico” di chi riconosce l’inessenzialità/irrealtà
di ogni frontiera (vita-morte, io-mondo, interiorità-esteriorità).
Demarcazioni che di volta in volta vengono a cadere/svanire
per Drogo nel Deserto. Dopo, quando la soglia
iniziatica sia stata varcata, conclusosi il romanzo
e chiuso il libro, Caratozzolo ritiene possa
darsi/immaginarsi secondo Buzzati per Drogo (per l’uomo)
il miracolo di una resurrezione/prosecuzione oltre ogni
fine. Resurrezione (cui fanno da sempre riferimento
un po’ tutte le Tradizioni religione di ogni latitudine)
qui prefigurata in tracce allusive che lo scrittore
ha disseminato soprattutto nei capitoli XI (l’episodio
del sogno sul risorto commilitone Angustina) e XXX (con
l’annunciato exitus di Drogo). Va però
chiarito che Caratozzolo ritiene il romanzo di Buzzati
mai sia esplicito rispetto all’aldilà,
bensì sempre e solo allusivo e metaforico: “più
che con una divinità ultraterrena, il testo buzzatiano
intrattiene un rapporto intenso con il mistero, mai
svelato del tutto”. (Ricordo a tale proposito
che il termine mistero viene dal greco antico mysterion,
da mystes: iniziato, derivato a sua volta da
myein: chiudere occhi e/o bocca per non palesare
la segretezza del rituale).
La conclusione della vicenda/iniziazione di Drogo,
a detta di Caratozzolo, induce piuttosto a cogliere
il destino come attesa di qualcosa. Ma un’attesa
non nel segno dell’inquietudine quanto della pacificazione.
Il protagonista infatti opera un “graduale distacco
dalle cose terrene” per giungere un’ennesima
ultima volta sulla soglia per eccellenza: la morte.
Commiato, ci fa notare il Nostro, che è anticipato
da un progressivo oblio/allontanamento rispetto alle
modalità di vita precedenti (Drogo si allontana,
ad esempio, dalle figure femminili della madre e dell’ex
fidanzata: dall’amore filiale e dall’amore
erotico, potrei anche suggerire); scorda e non riconosce
nemmeno più il proprio diario giovanile. Tale
distacco, puntualizza ancora Caratozzolo, è doppiamente
catartico: per Drogo e per il lettore. La morte annunciata
dell’ufficiale è peraltro diversa dalle
altre due morti dei militari Angustina e Lazzari (il
riferimento al Lazzaro risorto sembra palese), in quanto
esso si impone quale “superamento della logica
militare” che nel Deserto appare basata
su coppie di valori antitetici (regolamento-ribellione,
scorrettezza-espiazione, ecc.). Drogo è ormai
fuori dalla Fortezza e la sua morte viene presentata
non come un castigo ma come un premio.
Per quanti obbiettassero una forzatura ermeneutica
in questa interpretazione di Caratozzolo, va detto che
l’autore a ogni buon conto precisa come in effetti
non vi siano collegamenti diretti/espliciti fra le varie
concezioni religiose prese in esame nel suo saggio (antiche
credenze egizie, buddhismo, ebraismo e cristianesimo)
ed il Deserto dei Tartari, che non può
certo esser visto quale trattato di mistica o un testo
che voglia veicolare un preciso messaggio spirituale/fideistico;
pur se resta – secondo il Nostro – che il
romanzo è attraversato da una numerosa serie
di immagini e motivi concettuali/ideali riferibili a
svariate tradizioni religiose (si vedano solo i rimandi
e gli accenni al Libro tibetano dei morti che
Caratozzolo ritiene di poter estrapolare dal romanzo).
Ultima considerazione che ritengo particolarmente originale
e interessante è vedere il Deserto quale
un articolato mandala (lo schema/paradigma
iconografico caro al buddhismo tibetano) entro cui si
staglia l’ulteriore disegno mandalico della Fortezza
Bastiani: labirinto recante simboli innumerevoli, il
quale costituirebbe una sorta di imago mundi:
di immagine del mondo che il protagonista deve apprendere
ad abitare e quindi lasciare (come il mandala fatto
di sabbia colorata che i monaci, una volta terminatolo,
consegnano al vento affinché lo disperda). Il
che ci porta a dover ricondurre il libro di Buzzati
all’interno di un più vasto messaggio esoterico,
esistenzialista e, perché no, antimilitarista,
che il romanziere ebbe il coraggio di dare alle stampe
in un’Italia fascista alla vigilia del nostro
ingresso nel tragico teatro della seconda guerra mondiale.
Vittorio Caratozzolo,
La finestra sul deserto – a oriente di
Buzzati,
Ed. Bonanno, pp. 178, € 18,00
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