318 - 30.03.07


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Rilke, poesie come musica

Francesco Roat


Castello di Duino, presso Trieste, 1912. Rilke pare riesca a superare la crisi creativa iniziata al termine dell’elaborazione de I quaderni di Malte Laurids Brigge iniziando a comporre il ciclo poetico della sua opera più matura e complessa: le Elegie duinesi, avviate nel gennaio del ’12 e quindi più volte interrotte e riprese, vuoi per mancanza di ispirazione, vuoi a seguito dello scoppio del primo conflitto mondiale. Nonostante varie fasi di stesura parziale, sarà solo durante il febbraio del ’22 – in un altro castello: Muzot e in un altro fecondissimo inverno – che le dieci Elegie verranno condotte felicemente a termine, assieme ad un altro testo poetico altrettanto significativo: I sonetti a Orfeo. Così infatti scrive un entusiasta Rilke alla sua amica e protettrice: la principessa Marie Thurn und Taxis-Hohenlohe cui le Duinesi saranno dedicate: “Tutto in pochissimi giorni, fu una tempesta senza nome, un uragano nello spirito (come un tempo a Duino), tutte le mie fibre e i miei tessuti scricchiolavano – al cibo non fu possibile mai pensare, Dio sa chi m’ha nutrito”.

Il poema – da molti ritenuto il testo poetico più pregnante e vivace della lirica tedesca dell’intero Novecento – non è però di facile lettura. Innovativo per quanto riguarda la metrica (una “vera e propria partitura musicale”, come ebbe a dire Furio Jesi), l’anticonformismo sintattico-grammaticale o gli inediti neologismi, e splendido per la ricchezza metaforico-allusiva, risulta però a tratti criptico ed assai difficilmente parafrasabile; per non parlare delle parti in cui l’esoterismo oracolare – da medium qual era il poeta –, il tono saccente di troppe strofe fa virare la poesia delle duinesi in filosofia o peggio ancora in discorso didascalico-riflessivo viziato da un’urgenza esplicativa a tratti stucchevole ed estremamente ridondante. Ma forse proprio detta stridente ambivalenza, questo paradossale alternarsi di espressività magistrale e di (sia pur rare) cadute stilistiche, questa commistione di intensità ed enfasi dai risvolti retorico-pedagogici è l’inevitabile destino/limite di opere che, come le Elegie duinesi, vogliono porsi quale discorso inteso ad abbracciare microcosmo e macrocosmo, uomo e universo, realtà mondana e oltremondana, parlandoci di tematiche da far tremar le vene e i polsi, quali l’angoscia e al contempo la felicità dell’esserci nell’orizzonte della finitudine, l’inesausta e mai paga tensione desiderante, il senso o non senso della morte, il significato più profondo dell’amore.

Inconcepibile nello spazio di un articolo sintetizzare i molteplici nuclei poetici, gli innumerevoli temi o anche solo gli interrogativi posti dalle Duinesi. Basti qui dire che il poeta riflette soprattutto intorno all’uomo e ai suoi bisogni, insistendo sul rapporto con l’altro da sé (dall’amato/a, alla natura, all’assolutamente altro simboleggiato dall’angelo), ed accennando infine al valore dell’esserci (Dasein) ? qui ed ora, su questa terra, nella contingenza/finitudine ? con tutte le implicazioni relative al significato della vita – e del suo venire meno – passioni comprese (da intendere, al positivo, quali espressioni della libido nel senso più ampio del termine o, al negativo, in quanto legate a patimento/perdita, di cui l’exitus è la cifra più inquietante ed enigmatica, ribaltandosi per Rilke in valenza alla fin fine fausta). Nelle Elegie l’uomo è visto come un unicum rispetto al resto del mondo universo. La consapevolezza del proprio esser destinato a scomparire lo rende inquieto e insoddisfatto. A differenza dall’angelo (simbolo di quanto giammai perisce) e dell’animale che – incosciente rispetto alla fine che lo attende – vive in modo assai più naturale e spontaneo; noi infatti siamo sempre tesi/presi rispetto ad un altrove che non ci permette di vivere il qui e ora del momento presente. Solo gli amanti o i bambini, dice Rilke, riescono in ciò; ma l’estasi amorosa non perdura e neppure l’innocenza beata della puerizia.

Compito di noi umani, allora, per il poeta è in primo luogo rendersi conto di come: “Essere qui è bellissimo” e in secondo consiste nella celebrazione di tutte le cose, le quali: “Vogliono che noi del tutto/ le tramutiamo nell’invisibile cuore/ in – oh senza fine – in noi!”. Non va temuto altresì il declino e la perdita perché, nell’ottica rilkiana, nulla davvero viene meno ma tutto solo si trasforma. È la lezione mistica della Decima Elegia, che non vede la morte come annichilimento definitivo ma quale transito verso l’“altro raccordo” in un eterno perdurare. Così la stessa concezione di felicità quale possesso o accrescimento può mutar di segno se accogliamo l’ idea che essa possa darsi pure nella spoliazione o nel declino, come suggeriscono gli splendidi versi finali delle Duinesi. “Ma se svegliassero in noi una parabola, i morti per sempre,/ vedi, indicherebbero, forse gli amenti/ degli spogli avellani, penduli, oppure intenderebbero/ la pioggia che sullo scuro terriccio cade in primavera. - // E noi, che pensiamo alla felicità ascendente,/ saremmo commossi/ e quasi sconvolti/ quando cade una cosa felice.”


Rainer Maria Rilke,
Elegie duinesi,
trad. di M.Ranchetti e J.Leskien,
Feltrinelli, pp. 80, € 8,00

 

 

 


 

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