Castello
di Duino, presso Trieste, 1912. Rilke pare riesca a
superare la crisi creativa iniziata al termine dell’elaborazione
de I quaderni di Malte Laurids Brigge iniziando
a comporre il ciclo poetico della sua opera più
matura e complessa: le Elegie duinesi, avviate
nel gennaio del ’12 e quindi più volte
interrotte e riprese, vuoi per mancanza di ispirazione,
vuoi a seguito dello scoppio del primo conflitto mondiale.
Nonostante varie fasi di stesura parziale, sarà
solo durante il febbraio del ’22 – in un
altro castello: Muzot e in un altro fecondissimo inverno
– che le dieci Elegie verranno condotte
felicemente a termine, assieme ad un altro testo poetico
altrettanto significativo: I sonetti a Orfeo.
Così infatti scrive un entusiasta Rilke alla
sua amica e protettrice: la principessa Marie Thurn
und Taxis-Hohenlohe cui le Duinesi saranno
dedicate: “Tutto in pochissimi giorni, fu una
tempesta senza nome, un uragano nello spirito (come
un tempo a Duino), tutte le mie fibre e i miei tessuti
scricchiolavano – al cibo non fu possibile mai
pensare, Dio sa chi m’ha nutrito”.
Il poema – da molti ritenuto il testo poetico
più pregnante e vivace della lirica tedesca dell’intero
Novecento – non è però di facile
lettura. Innovativo per quanto riguarda la metrica (una
“vera e propria partitura musicale”, come
ebbe a dire Furio Jesi), l’anticonformismo sintattico-grammaticale
o gli inediti neologismi, e splendido per la ricchezza
metaforico-allusiva, risulta però a tratti criptico
ed assai difficilmente parafrasabile; per non parlare
delle parti in cui l’esoterismo oracolare –
da medium qual era il poeta –, il tono saccente
di troppe strofe fa virare la poesia delle duinesi
in filosofia o peggio ancora in discorso didascalico-riflessivo
viziato da un’urgenza esplicativa a tratti stucchevole
ed estremamente ridondante. Ma forse proprio detta stridente
ambivalenza, questo paradossale alternarsi di espressività
magistrale e di (sia pur rare) cadute stilistiche, questa
commistione di intensità ed enfasi dai risvolti
retorico-pedagogici è l’inevitabile destino/limite
di opere che, come le Elegie duinesi, vogliono
porsi quale discorso inteso ad abbracciare microcosmo
e macrocosmo, uomo e universo, realtà mondana
e oltremondana, parlandoci di tematiche da far tremar
le vene e i polsi, quali l’angoscia e al contempo
la felicità dell’esserci nell’orizzonte
della finitudine, l’inesausta e mai paga tensione
desiderante, il senso o non senso della morte, il significato
più profondo dell’amore.
Inconcepibile nello spazio di un articolo sintetizzare
i molteplici nuclei poetici, gli innumerevoli temi o
anche solo gli interrogativi posti dalle Duinesi. Basti
qui dire che il poeta riflette soprattutto intorno all’uomo
e ai suoi bisogni, insistendo sul rapporto con l’altro
da sé (dall’amato/a, alla natura, all’assolutamente
altro simboleggiato dall’angelo), ed accennando
infine al valore dell’esserci (Dasein)
? qui ed ora, su questa terra, nella contingenza/finitudine
? con tutte le implicazioni relative al significato
della vita – e del suo venire meno – passioni
comprese (da intendere, al positivo, quali espressioni
della libido nel senso più ampio del
termine o, al negativo, in quanto legate a patimento/perdita,
di cui l’exitus è la cifra più
inquietante ed enigmatica, ribaltandosi per Rilke in
valenza alla fin fine fausta). Nelle Elegie
l’uomo è visto come un unicum
rispetto al resto del mondo universo. La consapevolezza
del proprio esser destinato a scomparire lo rende inquieto
e insoddisfatto. A differenza dall’angelo (simbolo
di quanto giammai perisce) e dell’animale che
– incosciente rispetto alla fine che lo attende
– vive in modo assai più naturale e spontaneo;
noi infatti siamo sempre tesi/presi rispetto ad un altrove
che non ci permette di vivere il qui e ora del momento
presente. Solo gli amanti o i bambini, dice Rilke, riescono
in ciò; ma l’estasi amorosa non perdura
e neppure l’innocenza beata della puerizia.
Compito di noi umani, allora, per il poeta è
in primo luogo rendersi conto di come: “Essere
qui è bellissimo” e in secondo consiste
nella celebrazione di tutte le cose, le quali: “Vogliono
che noi del tutto/ le tramutiamo nell’invisibile
cuore/ in – oh senza fine – in noi!”.
Non va temuto altresì il declino e la perdita
perché, nell’ottica rilkiana, nulla davvero
viene meno ma tutto solo si trasforma. È la lezione
mistica della Decima Elegia, che non vede la
morte come annichilimento definitivo ma quale transito
verso l’“altro raccordo” in un eterno
perdurare. Così la stessa concezione di felicità
quale possesso o accrescimento può mutar di segno
se accogliamo l’ idea che essa possa darsi pure
nella spoliazione o nel declino, come suggeriscono gli
splendidi versi finali delle Duinesi. “Ma
se svegliassero in noi una parabola, i morti per sempre,/
vedi, indicherebbero, forse gli amenti/ degli spogli
avellani, penduli, oppure intenderebbero/ la pioggia
che sullo scuro terriccio cade in primavera. - // E
noi, che pensiamo alla felicità ascendente,/
saremmo commossi/ e quasi sconvolti/ quando cade una
cosa felice.”
Rainer Maria Rilke,
Elegie duinesi,
trad. di M.Ranchetti e J.Leskien,
Feltrinelli, pp. 80, € 8,00
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