Ci vuole
un codice deontologico per i blog? La questione è
stata posta qualche settimana fa da Tim O’Reilly,
uno dei grandi protagonisti della nuova stagione di
internet, il cosiddetto web 2.0, espressione che ha
inventato lui e che in sintesi vuol dire che i contenuti
per la rete li producono i lettori da sé. L'idea
di un controllo della blogosfera e dei suoi contenuti,
sebbene in modi tutti da stabilire, ha scatenato una
ridda di reazioni (dai ferocemente critici ai possibilisti,
pure in Italia, qui
una raccolta ) tanto che lo stesso O’Reilly
ha sentito la necessità di spiegare meglio la
sua idea. “Credo – spiega in un'intervista
concessa a Wired (versione on line) –
che il mio invito a un codice di condotta sia stato
leggermente frainteso. Molti siti hanno già dei
termini di servizio che assomigliano a quanto da me
proposto. E io ho solo detto ‘proviamo a immaginare
come sarebbe’, di modo che chi volesse avere un
qualcosa del genere non dovesse pensarlo tutto da sé”.
Secondo l'editore molti blogger sono troppo tolleranti
con i comportamenti violenti manifestati nei loro diari
telematici. Molto spesso una discussione prende fuoco,
flame è il termine tecnico per questa
degenerazione. Con la giustificazione che il padrone
del blog non è responsabile di quello che scrivono
i commentatori si accetta un po' di tutto: minacce,
insulti ecc. O’Reilly auspica un sistema che permetta
di scegliere quali post di commento leggere e quali
pubblicare. Eppure, al tempo stesso si difende dalle
cattive interpretazioni della sua proposta. “La
gente la ha interpretata come una sorta di sistema di
etichettatura o roba del genere. Non è quello
che suggerivo io, niente affatto. Io suggerivo un set
modulare, di modo che si potesse dire su un blog ‘Io
non ammetto questo e questo tipo di comportamento’.
Un sacco di gente lo fa già, quindi ecco che
è proprio il caso di dire molto rumore per nulla”.
Sul NYTimes, il manifesto verde di Thomas Friedman
Cosa può fungere da nuovo motore che gli Usa
dopo la tragedia dell'11/9, dopo le fratture provocate
in casa e all'estero dalla presidenza Bush? La risposta
la offre Thomas Friedman sul magazine domenicale del
New York Times. La risposta è: il verde.
E l'autore del best seller Il mondo è piatto
vuole modificare il senso e la percezione che quel termine
ha nell'opinione pubblica americana. “Credo -
scrive Friedman nel suo lungo e articolato intervento
- che vivere, lavorare, progettare l'America in un modo
verde può essere la base per un nuovo movimento
politico per il XXI secolo. Un'ideologia verde più
larga e muscolare in grado non solo di superare l'agenda
repubblicana e democratica ma piuttosto collegarle quando
si tratta di affrontare le tre questioni chiave che
ogni americano ha presente oggi: lavoro, temperatura
e terrorismo”. Una nuova ideologia che sia in
grado, sostiene Friedman, di mettere d'accordo tutti:
liberali e conservatori, evangelici e atei, il grande
business e gli ambientalisti. E afferma: “Non
abbiamo bisogno solo del primo presidente nero ma del
primo presidente verde”.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|