“Barthes
è uno che mostra col dito un punto che non sempre
è chiaro, come le statue di Marienbad, ma sta
a noi capire quale sia quel posto”. Paolo Fabbri,
semiologo, docente di Semiotica dell’Arte alla
Facoltà di Arti e Design dello Iuav (Istituto
Universitario di Architettura di Venezia), ci racconta,
a cinquant’anni dalla pubblicazione delle Mitologie,
l’utopia barthesiana di una “lingua bianca”,
ripulita dalle incrostazioni, che abitava quel testo.
Ne spiega l’assoluta attualità (“Nel
libro c’è, ad esempio, una presa in giro
dell’Abbé Pierre che, sebbene sia molto
feroce, sarebbe da riproporre oggi, con questo ritorno
della religione”). E immagina infine un Barthes
alle prese con i nostri media (“simulatori di
verità, li avrebbe definiti”) e con la
rivoluzione tecnologica e la globalizzazione: amante
della brevità, della concisione, del frammento,
“sicuramente avrebbe provato a far giocare il
piccolo contro il globale, il singolo contro il totale”,
afferma il semiologo.
Cosa rimane oggi, a mezzo secolo di distanza,
dei Miti d’oggi di Roland Barthes?
Le Mitologie, questo il titolo originale del
libro, di Barthes sono un libro doppio. Da una parte,
esse contengono una serie di articoli piuttosto brevi,
usciti prima del ‘57 e dedicati a vari aspetti
della contemporaneità. Dall’altra, c’è
una parte fortemente teorica che è stata dimenticata
e che invece è molto importante. Si trattava
di un ripensamento del mito e del linguaggio che non
partiva dalla filosofia, ma da un’analisi del
quotidiano attraverso gli strumenti della semiotica.
Un’impostazione che, soprattutto in Italia, a
suo tempo aveva molto turbato.
Qual era l’obiettivo di quella raccolta
di articoli?
Come già in Grado zero della scrittura,
opera immediatamente precedente ai Miti d’oggi,
Barthes voleva grattar via tutte le incrostazioni che
il discorso borghese aveva imposto al linguaggio. Egli
sosteneva, contro la Comédie française
e contro la cultura alto borghese francese, un progetto
brechtiano, che era quello di ripulire la lingua. Si
potrebbe dire che i vari articoli sono piccole scenette
brechtiane nelle quali il linguaggio diviene politicamente
pulito. Una “lingua bianca”, dirà
altrove.
Si trattava di un progetto imponente, forse
troppo ambizioso.
Certo, c’era un che di utopico in questa idea
di pulizia della lingua. Barthes ha lavorato sulle ideologie
del quotidiano, mostrando come non fosse necessario
considerarle sovrastrutture da trasformare prima attraverso
la riflessione economica e politica, per poi arrivare
al linguaggio. Tuttavia, l’idea barthesiana di
far passare la critica direttamente attraverso lo strumento
linguistico non era ovvia da noi, in Italia. Ora, da
una parte si è trattato di un successo, perché
in tal modo la semiotica ha dato nuovi strumenti e nuova
forza alla critica ideologica, dopo il marxismo. Dall’altra,
tuttavia, ha obbligato tutti a utilizzare uno strumento
curioso e difficile: in molti infatti hanno provato
ad avvalersene senza riuscirci, tra cui lo stesso Barthes
che, anni dopo, ha ritentato un esperimento simile sul
“Nouvel Observateur”, interrompendolo tuttavia
poco dopo.
Chi erano i punti di riferimento teorici di
Barthes allora?
I punti di riferimento erano buffi ed esotici per noi.
Uno, in particolare, era Gaston Bachelard, epistemologo
e storico della scienza, che con la sua teoria degli
elementi ha ispirato le mitologie barthesiane sul cibo.
Quanto è giusto prendere sul serio i
fenomeni di massa e il loro significato simbolico? Come
trovare una via di mezzo, in altre parole, tra l’appiattimento
sull’esistente e una critica snobistica?
È necessario costruire sistematicamente una
retorica dei media a partire dal verosimile: questa
è la terza via barthesiana tra adeguazione e
snobismo nei confronti della comunicazione di massa.
In altre parole, i media sono discutibilissimi, ma inventano
in ogni momento formati e generi. Questa creatività
è lenta, per cui il significato profondo dei
media non passa attraverso le singole serate televisive,
ma attraverso la configurazione di generi, come il talk
show, ad esempio, oppure i reality show.
In questo senso sarebbe fondamentale una storia naturale
dei media, cosa che la semiotica aveva iniziato a fare.
Può spiegare meglio di cosa si trattava?
C’era l’obiettivo di cercare un’idea
dell’evoluzione dei media e delle loro relazioni
di potere attraverso lo studio delle forme dei discorsi.
Questa è la terza via e questa era l’eredità
barthesiana, che forse non è stata raccolta.
La versione successiva di Barthes, quello del Discorso
amoroso, del desiderio, lo ha spogliato di quell’aspetto
fondamentale che c’è nei Miti,
ovvero la sua ossessione per il discorso intimidatorio.
Non lo sopportava. Al suo opposto, ripeto, c’era
l’utopia di una “lingua bianca” ripulita
dalle incrostazioni. E questa vena utopica, a cui la
mia generazione ha risposto, abitava le Mitologie.
Barthes è uno che mostra col dito un punto che
non sempre è chiaro, come le statue di Marienbad,
ma sta a noi capire quale sia quel posto.
Certo che la tv con tutti i suoi eccessi avrebbe
fornito una bella quantità di materiale per il
suo lavoro di decostruzione dei miti.
Barthes si opponeva alla rissa, avrebbe guardato a
quelli che ogni giorno avvengono in televisione per
quello che sono, ossia discorsi intorno a uno scontro
che in realtà nasconde l’assenza di scontro.
Li avrebbe definiti “simulazioni di verità”.
I media sono diventati un gigantesco confessionale,
attraverso il quale la gente ottiene la garanzia dell’assoluzione.
Il caso Sircana è lampante in questo senso. Ricordo
un altro caso, quello di un nostro famoso giornalista-presentatore
che dichiarò una volta di avere fatto parte della
P2, e da quel giorno è stato subito assolto.
L’altro aspetto è la spontaneità
e la finta bontà rappresentate in tv, che Barthes
avrebbe provato a smontare. Avrebbe sicuramente odiato
il buonismo contemporaneo.
E secondo lei, come avrebbe reagito invece
alla rivoluzione tecnologica in corso?
L’ultimo Barthes era molto interessato alla brevità,
a tutte le forme di espressione concise, ai frammenti,
agli epigrammi, agli haiku. Mi avrebbe molto incuriosito
vederlo all’opera nell’epoca della velocità
e dell’economia del tempo. Si era sempre opposto
all’idea del trattato nel quale si spiegano le
cose fondamentali. Certo non si sarebbe messo a leggere
Della cosa ultima di Cacciari, oppure i libri
che trattano in generale della globalizzazione! Penso
invece che avrebbe provato a far giocare il piccolo
contro il globale, il singolo contro il totale.
Vede le idee che Barthes ha seminato germogliare
da qualche parte oggi?
Un autore che ha preso molto da lui è stato
Baudrillard (su cui giorni fa è comparso su “Le
Monde” un attacco violentissimo, il cui titolo
era “Baudrillard non ha avuto luogo”). Baudrillard
era un barthesiano naturale, anche se lo stesso Barthes
non lo accettava. Voleva portarlo all’estremo:
in una società come la nostra, diceva Baudrillard,
i segni non sono più funzionali alla comunicazione,
perché perfino le funzioni sono diventate segni.
Poi ci sono i cultural studies, che sono un
proseguimento della decostruzione della mitologia colonialista
intrapresa da Barthes. Immagino che egli si potrebbe
certamente riconoscere nella parte migliore dell’approccio
post-coloniale.
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