318 - 30.03.07


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La terza via di Barthes, tra
snobismo e società di massa

Paolo Fabbri con
Elisabetta Ambrosi


“Barthes è uno che mostra col dito un punto che non sempre è chiaro, come le statue di Marienbad, ma sta a noi capire quale sia quel posto”. Paolo Fabbri, semiologo, docente di Semiotica dell’Arte alla Facoltà di Arti e Design dello Iuav (Istituto Universitario di Architettura di Venezia), ci racconta, a cinquant’anni dalla pubblicazione delle Mitologie, l’utopia barthesiana di una “lingua bianca”, ripulita dalle incrostazioni, che abitava quel testo. Ne spiega l’assoluta attualità (“Nel libro c’è, ad esempio, una presa in giro dell’Abbé Pierre che, sebbene sia molto feroce, sarebbe da riproporre oggi, con questo ritorno della religione”). E immagina infine un Barthes alle prese con i nostri media (“simulatori di verità, li avrebbe definiti”) e con la rivoluzione tecnologica e la globalizzazione: amante della brevità, della concisione, del frammento, “sicuramente avrebbe provato a far giocare il piccolo contro il globale, il singolo contro il totale”, afferma il semiologo.

Cosa rimane oggi, a mezzo secolo di distanza, dei Miti d’oggi di Roland Barthes?

Le Mitologie, questo il titolo originale del libro, di Barthes sono un libro doppio. Da una parte, esse contengono una serie di articoli piuttosto brevi, usciti prima del ‘57 e dedicati a vari aspetti della contemporaneità. Dall’altra, c’è una parte fortemente teorica che è stata dimenticata e che invece è molto importante. Si trattava di un ripensamento del mito e del linguaggio che non partiva dalla filosofia, ma da un’analisi del quotidiano attraverso gli strumenti della semiotica. Un’impostazione che, soprattutto in Italia, a suo tempo aveva molto turbato.

Qual era l’obiettivo di quella raccolta di articoli?

Come già in Grado zero della scrittura, opera immediatamente precedente ai Miti d’oggi, Barthes voleva grattar via tutte le incrostazioni che il discorso borghese aveva imposto al linguaggio. Egli sosteneva, contro la Comédie française e contro la cultura alto borghese francese, un progetto brechtiano, che era quello di ripulire la lingua. Si potrebbe dire che i vari articoli sono piccole scenette brechtiane nelle quali il linguaggio diviene politicamente pulito. Una “lingua bianca”, dirà altrove.

Si trattava di un progetto imponente, forse troppo ambizioso.

Certo, c’era un che di utopico in questa idea di pulizia della lingua. Barthes ha lavorato sulle ideologie del quotidiano, mostrando come non fosse necessario considerarle sovrastrutture da trasformare prima attraverso la riflessione economica e politica, per poi arrivare al linguaggio. Tuttavia, l’idea barthesiana di far passare la critica direttamente attraverso lo strumento linguistico non era ovvia da noi, in Italia. Ora, da una parte si è trattato di un successo, perché in tal modo la semiotica ha dato nuovi strumenti e nuova forza alla critica ideologica, dopo il marxismo. Dall’altra, tuttavia, ha obbligato tutti a utilizzare uno strumento curioso e difficile: in molti infatti hanno provato ad avvalersene senza riuscirci, tra cui lo stesso Barthes che, anni dopo, ha ritentato un esperimento simile sul “Nouvel Observateur”, interrompendolo tuttavia poco dopo.

Chi erano i punti di riferimento teorici di Barthes allora?

I punti di riferimento erano buffi ed esotici per noi. Uno, in particolare, era Gaston Bachelard, epistemologo e storico della scienza, che con la sua teoria degli elementi ha ispirato le mitologie barthesiane sul cibo.

Quanto è giusto prendere sul serio i fenomeni di massa e il loro significato simbolico? Come trovare una via di mezzo, in altre parole, tra l’appiattimento sull’esistente e una critica snobistica?

È necessario costruire sistematicamente una retorica dei media a partire dal verosimile: questa è la terza via barthesiana tra adeguazione e snobismo nei confronti della comunicazione di massa. In altre parole, i media sono discutibilissimi, ma inventano in ogni momento formati e generi. Questa creatività è lenta, per cui il significato profondo dei media non passa attraverso le singole serate televisive, ma attraverso la configurazione di generi, come il talk show, ad esempio, oppure i reality show. In questo senso sarebbe fondamentale una storia naturale dei media, cosa che la semiotica aveva iniziato a fare.

Può spiegare meglio di cosa si trattava?

C’era l’obiettivo di cercare un’idea dell’evoluzione dei media e delle loro relazioni di potere attraverso lo studio delle forme dei discorsi. Questa è la terza via e questa era l’eredità barthesiana, che forse non è stata raccolta. La versione successiva di Barthes, quello del Discorso amoroso, del desiderio, lo ha spogliato di quell’aspetto fondamentale che c’è nei Miti, ovvero la sua ossessione per il discorso intimidatorio. Non lo sopportava. Al suo opposto, ripeto, c’era l’utopia di una “lingua bianca” ripulita dalle incrostazioni. E questa vena utopica, a cui la mia generazione ha risposto, abitava le Mitologie. Barthes è uno che mostra col dito un punto che non sempre è chiaro, come le statue di Marienbad, ma sta a noi capire quale sia quel posto.

Certo che la tv con tutti i suoi eccessi avrebbe fornito una bella quantità di materiale per il suo lavoro di decostruzione dei miti.

Barthes si opponeva alla rissa, avrebbe guardato a quelli che ogni giorno avvengono in televisione per quello che sono, ossia discorsi intorno a uno scontro che in realtà nasconde l’assenza di scontro. Li avrebbe definiti “simulazioni di verità”. I media sono diventati un gigantesco confessionale, attraverso il quale la gente ottiene la garanzia dell’assoluzione. Il caso Sircana è lampante in questo senso. Ricordo un altro caso, quello di un nostro famoso giornalista-presentatore che dichiarò una volta di avere fatto parte della P2, e da quel giorno è stato subito assolto. L’altro aspetto è la spontaneità e la finta bontà rappresentate in tv, che Barthes avrebbe provato a smontare. Avrebbe sicuramente odiato il buonismo contemporaneo.

E secondo lei, come avrebbe reagito invece alla rivoluzione tecnologica in corso?

L’ultimo Barthes era molto interessato alla brevità, a tutte le forme di espressione concise, ai frammenti, agli epigrammi, agli haiku. Mi avrebbe molto incuriosito vederlo all’opera nell’epoca della velocità e dell’economia del tempo. Si era sempre opposto all’idea del trattato nel quale si spiegano le cose fondamentali. Certo non si sarebbe messo a leggere Della cosa ultima di Cacciari, oppure i libri che trattano in generale della globalizzazione! Penso invece che avrebbe provato a far giocare il piccolo contro il globale, il singolo contro il totale.

Vede le idee che Barthes ha seminato germogliare da qualche parte oggi?

Un autore che ha preso molto da lui è stato Baudrillard (su cui giorni fa è comparso su “Le Monde” un attacco violentissimo, il cui titolo era “Baudrillard non ha avuto luogo”). Baudrillard era un barthesiano naturale, anche se lo stesso Barthes non lo accettava. Voleva portarlo all’estremo: in una società come la nostra, diceva Baudrillard, i segni non sono più funzionali alla comunicazione, perché perfino le funzioni sono diventate segni.
Poi ci sono i cultural studies, che sono un proseguimento della decostruzione della mitologia colonialista intrapresa da Barthes. Immagino che egli si potrebbe certamente riconoscere nella parte migliore dell’approccio post-coloniale.

 

 


 

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