Terry Eagleton,
noto soprattutto per i suoi studi di teoria letteraria
e per una fondamentale ricostruzione della cornice socio-storica
in cui venne a delinearsi la moderna categoria di “estetica”,
raccoglie in quest’opera una serie di recensioni
(ma la formula usata nel sottotitolo, “saggi critici”,
rende più giustizia alle pretese dei testi) uscite
su riviste inglesi nell’arco degli ultimi dieci
anni. L’autore mette le cose in chiaro già
nella prefazione: “chi scrive è un intellettuale
‘di sinistra’ e rigorosamente minoritario
– e non potranno lagnarsi, liberali e conservatori,
se per una volta un esponente del fronte radical
si permetterà di usare accenti polemici o satirici.
Sono così tanti, loro…”
Questa premessa, di per sé piuttosto disinvolta
(rappresentarsi come outsider rispetto ad una qualche
intellighenzia è mossa inflazionata, addirittura
maggioritaria in certi contesti accademici) introduce
l’idea, quanto mai rivelatrice, secondo cui questi
testi dimostrerebbero “che in definitiva attorno
a noi esiste ancora, sia pure ridotta a miseri resti,
una specie di sfera pubblica entro cui poter scrivere
di argomenti complessi, ma in modo accessibile”.
Ora, se con sfera pubblica intendiamo un insieme di
ascoltatori colti, pazienti, con sufficiente riserve
di tempo e sensibilità per seguire le arguzie
e le stilettate dispensate a filosofi, critici letterari,
giornalisti e calciatori, i conti potrebbero anche tornare.
In effetti, scheda dopo scheda, “Beckham”
dopo “Bobbio” e dopo “Scuola di Francoforte”,
ci si rende conto che Eagleton ricerca una specie di
esperanto colto, un gergo non (troppo) professionale
con cui redigere dei mini-bignami versione extra-lusso,
traboccanti di brio e orientati da tesi nette e, almeno
nelle intenzioni, controcorrente (per esempio: il post-modernismo
e il post-colonialismo, assunti come ideologie mainstream,
nasconderebbero sotto l’apparente radicalismo
teorico un sostanziale conservatorismo politico –
un giudizio, per la verità, piuttosto mainstream,
nella tribù dei controcorrente). Questa serie
impressionante di pezzi di bravura, in cui rimandi,
ammiccamenti e citazioni incorniciano affondi decisi
e spesso, come dire, un po’ sopra le righe, induce
a concludere che evidentemente in Inghilterra esiste
(o viene supposto esistere) un insieme abbastanza consistente
di lettori capaci di seguire le lunghe scorribande di
Eagleton per –ismi e –ità.
Proprio la virulenza e la profondità di tali
attacchi, però, dovrebbe sollevare un problema:
sono validi? Stanno in piedi? Una domanda di questo
tipo sembra implicare un diverso tipo di lettore, e
quindi una definizione di sfera pubblica molto lontana
da quella sopra delineata: porsi criticamente davanti
a questi testi richiede un lettore dotato di un certo
bagaglio di conoscenze specialistiche e, soprattutto,
indipendenti dal filtro di Eagleton. Tale prestazione,
allargata a tutto lo spettro intellettuale coperto dal
libro, risulta ovviamente impraticabile: il lettore
che riuscisse a passare, con cognizione di causa, da
un attacco in grande stile a iek a quattro
schede centrate sulla politica culturale britannica,
a Dario Fo, e via di questo passo, dovrebbe chiedere
la cittadinanza onoraria di Vinci. In questo senso,
la raccolta non può che essere usata come un
giacimento di spunti da cui il singolo lettore-critico
dovrà selezionare il sotto-insieme di testi che
risulteranno più prossimi alla sua enciclopedia.
Se procediamo così, però, possiamo avere
sorprese spiacevoli.
Prendiamo due schede dedicate ad autori che, per motivi
opposti, occupano un posto centrale nella prospettiva
dell’autore. Iniziamo dalla voce “Lukács”.
Problema di partenza: difficoltà da parte della
tradizione marxista di incrociare la descrizione scientifica
di ciò che è con il piano delle “prescrizioni
relative a ciò che bisogna fare” –
questione assolutamente decisiva per Eagleton perché
solo un certo modo di “armonizzare il modo indicativo
con il modo congiuntivo” lascia aperto lo spazio
teorico per quella politica radicale che egli propugna.
Segue breve ricostruzione delle principali oscillazioni,
verso l’oggetto (determinismo) o verso il soggetto
(volontarismo). Svolta: la teoria della mente di Lenin
(“idee come copie o riflessi di oggetti reali”)
fu superata dai tumulti nei campi e nelle fabbriche,
quindi bisognava “recuperare un’idea di
coscienza come intervento attivo piuttosto che come
riproduzione esatta del reale” – questo
fu l’arduo compito che Lukács risolse “rivolgendosi
a Hegel piuttosto che a Kant”. Ora, se si ammette
che Lenin era un kantiano perché pensava che
le idee fossero copie delle cose, allora Eagleton
vince, anzi stravince, ma barando; se, invece, si riconosce
che questa associazione è perlomeno poco precisa
e se si trova poco plausibile che un autore come Eagleton
non ne sia consapevole, si deve concludere che quello
che per l’autore significa “scrivere in
modo accessibile” può voler dire, per il
lettore, “scrivere in modo semplificatorio e fuorviante”.
Rischi dell’impresa? Rischi inaccettabili, direi,
almeno al considerare il modo in cui viene trattato
Fish.
L’inizio è rugbistico: “Uno dei
sintomi meno importanti del declino mentale degli Stati
Uniti è il fatto che Stanley Fish sia considerato
un intellettuale di sinistra”. In realtà,
dice il professore inglese, Fish sarebbe “il vero
Donald Trump dell’accademia americana […],
uno sfacciato, chiassoso imprenditore dell’intelletto
[…], un filibustiere, […] uno che ha la
stessa visione della vita di un agente immobiliare”,
infine un personaggio schizoide, metà ragazzino
impertinente metà professorone paludato, che
ha avuto la fortuna di trovare un luogo in cui “aggressione
e consenso vanno a braccetto: quel luogo è la
corporativa società statunitense, di cui l’università
rappresenta un microcosmo”. L’errore, o
meglio, la colpa di Fish, è di dar vita a una
diatriba contro l’universalismo dei liberali (per
esempio, l’idea che esista qualcosa come un’assoluta
libertà di parola) facendo ricorso ad assunti
sbagliati quanto universali (nella fattispecie, l’idea
che la libertà di parola verrà comunque
declinata localmente, escludendo sempre qualcosa
dall’ambito del dicibile). Insomma, tanto rumore
per sostenere una esangue tesi para-comunitarista (“astrazioni
come giustizia o eguaglianza vanno definite in modo
più specifico”), non fosse che a Fish la
“mielosa solidarietà degli uomini”
non piace – Eagleton propende allora per uno sfacciato
e chiassoso parallelo con Slobodan Miloševic, il
cui tribalismo pro-serbi sarebbe stato il corrispettivo
del tribalismo pro-accademici di Fish. Più in
generale, Fish rappresenta l’apologia dell’ordine
sociale al tempo del postmodernismo: non c’è
più scissione tra la realtà spietata del
capitalismo e l’ideologia universalista, tutto
può essere spudoratamente ridotto ad auto-affermazione
(nel senso: tutta la verità è questione
di potere, il potere ce l’abbiamo noi americani,
se non vi va bene, pazienza).
Non so se trovare meno convincente l’idea di
un Miloševic come prototipo di tribalismo (chi,
quel quadro di partito divenuto grande inventandosi
manager identitario?) o quella di un Eagleton come accademico
immune dalle vischiosità dell’accademia
(hanno anche costruito un tunnel, sotto la Manica, e
le compagnie low-cost atterrano anche a Manchester:
qualche germe di corporativismo sarà arrivato
anche là). Di sicuro, l’idea che le tesi
di Fish possano essere valutate sulla base delle loro
(presunte) ricadute politiche è un’idea…
di Fish: ogni tribù accademica è
costituita dalla condivisione di certi standard critici,
e quella cui appartiene Eagleton non sembra fare eccezione.
Ecco allora che proprio Eagleton, in quanto professionista
della critica radicale, pare essere la conferma più
inconfutabile della tesi secondo cui il significato
non è qualcosa che sta nei testi, ma qualcosa
che viene fissato dalle pratiche di lettura condivise
da una certa comunità (professionale, tendenzialmente
accademica) di lettori.
In conclusione, il fatto che questi saggi critici siano
stati pubblicati non dimostra e non può dimostrare,
come vorrebbe Eagleton, la vitalità della sfera
pubblica (sia pure ridotta a miseri resti), non almeno
se pensiamo ad una sfera pubblica di lettori che abbiano,
qua e là, conoscenze un minimo tecniche; al massimo,
ciò che può risultare “dimostrata”
è l’esistenza di un’audience. Che
queste recensioni abbiano un pubblico, poi, non è
affatto sorprendente: i testi sono pieni di trovate,
sono divertenti e, soprattutto, mostrano un autore che
scrive divertendosi, cosa piuttosto rara e sempre invidiabile.
Terry Eagleton,
Figure del dissenso.
Saggi critici su Fish,
Spivak, iek e altri,
Meltemi, Roma, 2007
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