Fare i conti
con l'ideologia borghese attraverso il detersivo, le
bistecche e il volto di Greta Garbo. Cinquant'anni fa,
quando apparvero in forma di volume unico, le Mitologie
di Roland Barthes furono al tempo stesso una sorpresa
e una sfida per la Francia degli esistenzialisti e che
stava per eleggere De Gaulle. Con quel libretto si parlava
di una società fatta di automobili, di cinema,
di incontri di catch, di Tour de France e di tante altre
forme in cui il quotidiano occidentale si esprime. Un
catalogo dell'attualità che si inseriva dentro
la cultura di massa mostrandone i meccanismi, gli automatismi
inconsapevoli che la tenevano in piedi e che l'intellighentzia
(marxista e non) metteva tra parentesi preferendo occuparsi
di Dialettica, di Storia, di Uomo.
Una carrellata di flash illuminanti del semiologo di
Frammenti di un discorso amoroso. Un articolo
di “Elle” (il “femminile” delle
donne brillanti ed emancipate) è l'occasione
per sottolineare quanta strada ci sia da fare per liberare
anche le scrittrici di successo dal modello tradizionale
che le incasella. Una mostra parigina – “The
Family of Man” – mette all'opera il mito
della grande famiglia degli uomini e Barthes lo fa a
fette: l'idea di un'unica comunità planetaria
è una mistificazione alla quale l'umanesimo progressista
deve riuscire a sfuggire.
Ancora piccole cose per comprendere il generale. “Mangiare
la bistecca al sangue – scrive ancora Barthes
– rappresenta una natura e insieme una morale”.
C'è un'identità nazionale in una fetta
di carne accompagnata dalle frittes. “Come
il vino, la bistecca è, in Francia, elemento
base, nazionalizzato ancor più che socializzato”.
Bassa, alta, cubica, ben cotta (blu), al sangue: un
tricolore per la tavola.
Le mitologie di Barthes sono istantanee che aprirono
gli occhi di molti sugli effetti della cultura di massa
(quasi televisiva) e sulla nascita di un mondo pop fatto
di plastica e pubblicità. Attraverso il linguaggio,
si rende esplicito (e lo si critica) un senso comune
cristallizzato. Una costellazione di miti che, con un
lavoro di decostruzione, emergono per quello che sono:
segni, segni complessi che parlano di una cultura particolare
(quella “piccolo-borghese”) e che la rendono
universale.
Nella Premessa al libro, Barthes sintetizza
l'obiettivo dei suoi scritti. “Il punto di partenza
di questa riflessione era il più delle volte
un senso di insofferenza davanti alla ‘naturalità’
di cui incessantemente la stampa, l'arte, il senso comune,
rivestono una realtà che per essere quella in
cui viviamo non è meno perfettamente storica:
in una parola soffrivo di vedere confuse ad ogni occasione,
nel racconto della nostra attualità, Natura e
Storia”. Vale a dire, rendere relativo quello
che ci circonda togliendogli quell'aura di ineluttabilità
con cui si presenta.
A mezzo secolo di distanza, “Le Nouvel Observateur”
ha chiesto ad alcuni tra i più celebri intellettuali
francesi di rinnovare l'operazione barthesiana. Girare
lo sguardo intorno, alzare le antenne per cogliere (e
soprattutto spiegare) le mitologie attuali. E allora,
via lo “squalo” della Citröen e dentro
le auto 4x4, niente più bistecca e dentro l'onnipresente
sushi, addio Greta Garbo ecco Kate Moss.
Certo, la radicalità dei Miti d'oggi si è
un po' persa. Criticare la cultura di massa, o comunque
ripensarla, è divenuta attività che solo
gli snob possono permettersi.
Poi ci ha pensato pure la globalizzazione ha scombinare
le idee. Se Barthes molto spesso si riferiva alla “francesità”
dei suoi miti, i suo epigoni contemporanei evocano una
mitologia che perlopiù va bene per qualsiasi
angolo dell'occidente. Se si escludono i miti più
sciovinisti come Zidane e i tailleur di Ségolène
Royal, nel catalogo del XXI secolo ci sono i serial
tv (come i Sopranos), l'iPod, Google, gli Ogm, i blog
e le compagnie low cost, sono il prodotto e gli strumenti
dell'Uomo Occidentale. Addirittura, i telegiornali delle
20 sono una forma globale di mitizzazione della realtà
(è l'antropologo Marc Augè a parlarne
sull'Observatuer). Non c'è differenza tra Parigi
e New York, Roma o Berlino: tutti quanti partecipiamo
di un grande immaginario condiviso dal quale è
molto difficile evadere. Anzi, il mito dei miti, quello
che raccoglie proprio la caratteristica di tutti gli
altri, è la “delocalizzazione” anima
dell'era globale e “premessa a una denazionalizzazione
della popolazione” come scrive il filosofo e urbanista
Paul Virilio nel suo contributo al dossier.
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