Salvatore
Veca, studioso assai noto del pensiero politico e tra
i maggiori protagonisti della filosofia italiana (attualmente
vicedirettore dello Iuss di Pavia), ha abituato i suoi
lettori da qualche tempo a “scivolamenti”
e incursioni teoriche e di filosofia pratica nei terreni,
come scriverebbe lui, del difficile “mestiere
di vivere”.
Prima con Il giardino delle idee (Frassinelli),
una sorta di manifesto di “filosofia infantile”,
specie di iniziazione e viatico al pensare per la nipotina,
la piccola Camilla; e successivamente con La priorità
del male e l’offerta filosofica (Feltrinelli),
dove le solide basi filosofiche di matrice analitica
cui solitamente ricorre lo studioso milanese venivano
sempre più declinate e fatte oggetto di una “torsione”
speculativa nella direzione dei casi concreti dell’esperienza
quotidiana di donne e uomini. Con il suo nuovo volume,
Veca “rompe gli indugi” e vediamo l’intellettuale
che ha introdotto in Italia la rawlsiana Teoria
della giustizia (oltre a molta filosofia politica
anglosassone) volgersi verso le “questioni di
vita” e cimentarsi da un punto di vista concettuale
con i territori di cui facciamo pratica esistenziale
abituale, giorno dopo giorno.
“Conversazioni con il lettore”, le definisce
il filosofo, considerato nella sua piena e autentica
dignità di interlocutore e non di “spettatore
di talk show” (o, peggio, di reality,
all’insegna di quella deriva apparentemente inarrestabile
che ci sta portando dalla società dello spettacolo
descritta con preveggenza da Debord a una forma di totalizzante
popolo televisivo, e sempre meno condiviso). Ecco, allora,
che Veca imbastisce una serie di riflessioni intorno
agli inaggirabili quesiti che investono il nostro vivere.
Conversazioni, beninteso, e non “chiacchiere da
bar sport”, nelle quali l’argomentare risulta
seriamente filosofico, e il periodare segue i fili molteplici
dei ragionamenti, nutriti dalle propensioni, dalle letture
e dagli esiti del lavoro intellettuale dell’autore.
A cosa corrisponde, sotto il profilo teoretico, quella
parola di cui sono stipati i sondaggi giornalistici
e che riempie le nostre preoccupazioni sotto il nome
di “qualità della vita”? Quali connotati
presenta l’esperienza dell’abitare (naturalmente
così differente, nella riflessione vechiana,
dagli accenti e dagli echi heideggeriani)? In cosa consistono
l’esperienza e la devozione erotiche, e l’attesa
d’amore che le accompagna? In che modo l’intreccio
possibile dell’esperienza della memoria e della
compagnia con gli altri (la contaminazione con altre
storie e vite reali) può rintuzzare e contrastare
quel vero e proprio male che è la solitudine
(quando è involontaria e non perseguita deliberatamente)?
Quali sono i volti del dolore? Esiste un diritto alla
felicità? E come si struttura l’oscillazione
tra l’anima (la felicità privata) e la
città (quella pubblica), con le sue fondamentali
implicazioni per la vita democratica di una comunità?
Quali sono i meccanismi e i marchingegni della “grande
macchina del male”? Come si persegue lo sviluppo
all’insegna della libertà e dei diritti
fondamentali delle persone (o degli individui)? Come
si conquista e assicura la dignità dell’invecchiare?
Le cose della vita è un almanacco che
cerca risposte (sempre dubitative, e mai assertive)
a tali interrogativi. Ed essendo sottotitolato Lezioni
personali costituisce anche un catalogo delle preferenze
e opzioni culturali dell’autore, sotto la forma
di dodici ritratti di grandi maestri: Vilfredo Pareto,
Carlo Rosselli, Karl R. Popper, Lewis Mumford, Enzo
Paci, Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Franco Antonicelli,
John Rawls, Robert Nozick, Bernard Williams e Marco
Mondadori.
Un libro che rappresenta un elogio dell’incompletezza
e una collezione di “prove di autoritratto”
intellettuale applicato all’esistenza, senza alcuna
pretesa di esaustività o, ancor meno, di assolutismo
culturale. Congetture e mai verità stentoree;
del resto, come potrebbe essere diversamente per un
filosofo che dei diritti umani, dell’invenzione
di un “approccio sostenibile” alla giustizia
sociale (e, molto tempo prima di un “marxismo
relativistico”) e del migliorismo (nell’accezione
alta del termine) ha fatto i pilastri del proprio pensiero?
Quello che emerge, una volta di più, è
il relativismo (e il rigetto nei confronti di tutti
i monismi), cui è approdata da tempo la ricerca
filosofica di Salvatore Veca. “Relativismo ben
temperato”, ci permetteremmo di definirlo, che
respinge, nuovamente, gli eccessi di radicalismo, nei
quali scorge forme inutilmente dogmatiche e cui rimane
perennemente allergico, perché gli ideali, i
valori, le molteplici formule e prospettive che contraddistinguono
le visioni degli uomini (i quali, non smette di rammentarci
l’autore, abitano il medesimo mondo) possono,
alla fine, venire ricondotti a traduzione, come dimostra
sulla scorta dell’argomentazione anticartesiana
portata da Donald Davidson (e dall’attacco da
lui sferrato contro il terzo dogma dell’empirismo).
“Relativismo relativistico e relativizzato”,
in un certo senso; molto probabilmente il modo migliore,
sotto il profilo teoretico (e fors’anche pratico),
di approcciare e affrontare le cose della vita.
Salvatore Veca
Le cose della vita. Congetture,
conversazioni e lezioni personali,
Rizzoli, Milano 2006, pp. 294, 9,80 euro
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