318 - 30.03.07


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L’India, la scienza
e la letteratura.

Alessandro Lanni


Universo India.
Costellazione India. Immensa India. Sulla copertina dell'ultimo numero di Magazine littéraire campeggia la figura inquietante di Ganesh, mezzo uomo e mezzo elefante, figlio di Siva e di Parvati e “signore di tutti gli esseri”. Il focus del mensile francese di cultura nato nel 1966 è l'incredibile complessità, miscuglio di religioni e culture del subcontinente indiano. “Dove situare l'India?” si chiede il direttore Jean-Louis Hue presentando il numero. “Nella natura selvaggia di Kipling? Nelle preghiere di Tagore o la parola profetica di Malraux? Nelle leggende del Gange cantate da Amitav Ghosh oppure il discorso di Arundhati Roy contro la globalizzazione capitalistica?”. La questione è dunque la difficoltà a etichettare una terra e la/e sua/e identità. Per alcuni versi vicina a noi, ex colonia e unica democrazia non occidentale che funziona, ma per innumerevoli altri rispetti così incomprensibile, terra di Gandhi e della nuova Silicon Valley di Bangalore, della convivenza tra hindu e musulmani e delle caste ancora esistenti.

Il centro di gravità dei numerosi articoli è soprattutto la letteratura. L'India vista da lontano da Salman Rushdie e quella di una nuova star come Suketu Mehta, che in Maximum City ha saputo raccontare una Mumbai ignota. Un lungo articolo di Charles Malamoud offre uno sguardo a volo d'uccello sulla letteratura in lingua sanscrita, l'antica lingua colta di opere come il Mahabharata. Anita Desai, Narayan, Tejpal, Gosh, Roy, Vikram Seth (un suo inedito nel numero) testimoniano i molti modi in cui la letteratura indiana contemporanea ha saputo parlare della propria terra arrivando oltre i confini. Il Nobel Naipaul racconta l'India dall'esterno con l'occhio dell'emigrante coinvolto fino in fondo nelle sorti della sua terra. All'India hanno guardato sognando molti occidentali: gli inglesi, con in testa Kipling, i tedeschi con Hermann Hesse e gli americani della generazione beat. Peccato ci si dimentichi degli italiani, che con Pasolini e Moravia tanto hanno amato le rive del Gange.

Dire il vero (tra scienza e letteratura).
Jonathan Lethem è uno dei più noti (e più bravi) scrittori della generazione nata negli Usa negli anni Sessanta. La fortezza della solitudine è forse il suo romanzo più conosciuto. Janna Levin è una quasi quarantenne fisica teorica che insegna alla Columbia University, fa parte del circolo superelitario di scienziati Edge.org e ha il tic della scrittura creativa. Sull'ultimo numero di Seed (magazine mensile statunitense nato nel 2002 che proprio all'incontro tra le “due culture” è rivolto) sono stati invitati a chiacchierare tra di loro. Ne è uscito un bel dialogo che si è svolto durante un pranzo al National Arts Club di New York e dove si passa con naturalezza da Saul Bellow a Kurt Gödel, da Shakespeare ad Alan Turing. Il tema di fondo del botta e risposta è il realismo e la rappresentazione del mondo tra fiction e tensione verso la mimesi.

 



 


 

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