Universo
India.
Costellazione India. Immensa India. Sulla copertina
dell'ultimo numero di Magazine littéraire
campeggia la figura inquietante di Ganesh, mezzo uomo
e mezzo elefante, figlio di Siva e di Parvati e “signore
di tutti gli esseri”. Il focus del mensile francese
di cultura nato nel 1966 è l'incredibile complessità,
miscuglio di religioni e culture del subcontinente indiano.
“Dove situare l'India?” si chiede il direttore
Jean-Louis Hue presentando il numero. “Nella natura
selvaggia di Kipling? Nelle preghiere di Tagore o la
parola profetica di Malraux? Nelle leggende del Gange
cantate da Amitav Ghosh oppure il discorso di Arundhati
Roy contro la globalizzazione capitalistica?”.
La questione è dunque la difficoltà a
etichettare una terra e la/e sua/e identità.
Per alcuni versi vicina a noi, ex colonia e unica democrazia
non occidentale che funziona, ma per innumerevoli altri
rispetti così incomprensibile, terra di Gandhi
e della nuova Silicon Valley di Bangalore, della convivenza
tra hindu e musulmani e delle caste ancora esistenti.
Il centro di gravità dei numerosi articoli è
soprattutto la letteratura. L'India vista da lontano
da Salman Rushdie e quella di una nuova star come Suketu
Mehta, che in Maximum City ha saputo raccontare
una Mumbai ignota. Un lungo articolo di Charles Malamoud
offre uno sguardo a volo d'uccello sulla letteratura
in lingua sanscrita, l'antica lingua colta di opere
come il Mahabharata. Anita Desai, Narayan,
Tejpal, Gosh, Roy, Vikram Seth (un suo inedito nel numero)
testimoniano i molti modi in cui la letteratura indiana
contemporanea ha saputo parlare della propria terra
arrivando oltre i confini. Il Nobel Naipaul racconta
l'India dall'esterno con l'occhio dell'emigrante coinvolto
fino in fondo nelle sorti della sua terra. All'India
hanno guardato sognando molti occidentali: gli inglesi,
con in testa Kipling, i tedeschi con Hermann Hesse e
gli americani della generazione beat. Peccato ci si
dimentichi degli italiani, che con Pasolini e Moravia
tanto hanno amato le rive del Gange.
Dire il vero (tra scienza e letteratura).
Jonathan Lethem è uno dei più noti (e
più bravi) scrittori della generazione nata negli
Usa negli anni Sessanta. La fortezza della solitudine
è forse il suo romanzo più conosciuto.
Janna Levin è una quasi quarantenne fisica teorica
che insegna alla Columbia University, fa parte del circolo
superelitario di scienziati Edge.org e ha il tic della
scrittura creativa. Sull'ultimo numero di Seed
(magazine mensile statunitense nato nel 2002 che proprio
all'incontro tra le “due culture” è
rivolto) sono stati invitati a chiacchierare tra di
loro. Ne è uscito un bel dialogo che si è
svolto durante un pranzo al National Arts Club di New
York e dove si passa con naturalezza da Saul Bellow
a Kurt Gödel, da Shakespeare ad Alan Turing. Il
tema di fondo del botta e risposta è il realismo
e la rappresentazione del mondo tra fiction e tensione
verso la mimesi.
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