318 - 30.03.07


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Air on fire: l’arte
di David Lynch

Luca Sebastiani


Mezzo cinetico per eccellenza, il cinema è essenzialmente narrativo. Per questo è molto più comune che i registi prima di prendere la cinepresa abbiano preso in mano la penna per scrivere racconti, romanzi, al limite poesie. Più raro invece che vengano dalle arti plastiche, statiche e verticali. È il caso, il secondo, di David Lynch, il più marginale dei registi hollywoodiani, il più amato dei registi hollywoodiani in Europa. Non a caso. Quadri, foto, animazioni, disegni, musica, Lynch è un’artista totale che ha introdotto nel tempio del cinema quanto di più estraneo a quel contesto: l’arte d’avanguardia europea, quella che ha svelato il potenziale distruttivo interno all’uomo, la fragilità d’un equilibrio frutto d’incessante conflitto.

Per la prima volta David Lynch spalanca le porte del suo mondo creativo, mondo che precede e accompagna quello più noto del cinema. Air on fire, esposizione allestita dallo stesso regista alla Fondation Cartier di Parigi, è l’accesso diretto ad un universo senza cronologia e sviluppo in cui espressionismo e surrealismo sono declinati in molteplicità di mezzi, incessantemente coniugati e coagulati intorno a temi, mostri, ossessioni del filmaker americano.

La casa è il luogo dell’intimità del sé, l’immagine rassicurante dell’io. La casa allora non poteva che essere il luogo privilegiato in cui le intrusioni lynchiane destabilizzano la coscienza, il luogo in cui l’incosciente emerge a mettere in causa l’io e le sue costruzioni. Case in fiamme, case minacciose, case minacciate. O semplicemente case, che nella loro singola ed evidente presenza richiamano l’inquietudine dell’esserci e i mostri che infinitamente si rimuovono. Come nelle foto con pupazzi di neve. Dieci scatti con dieci case come tante ce ne sono nella provincia americana, dieci case con dieci pupazzi di neve come tanti se ne fanno negli inverni nevosi della provincia americana. E l’inquietudine che da dietro minaccia la sicurezza che avvolge l’intimità della provincia americana.

Il sonno della ragione genera mostri, i sogni generano mostri, la topica lynchiana è un microcosmo di mostri. Le immagini sono lì sul punto di manifestare la loro mostruosità. Mostrarle è già evocarne il recondito inquietante segreto. Lynch le tocca, le spinge, le mostra da dietro, o da sotto. L’immagine è la costruzione della coscienza, lo specchio in cui l’io si riconosce. L’immagine di Lynch è lo spiraglio di là della coscienza, è l’incosciente, lo specchio distorto in cui l’es si manifesta. Come nella serie dei nudi distorti in cui le foto erotiche del secolo scorso, immagine controllata dell’eros, lavorate dall’artista diventano l’inaccettabile emersione di una pulsione erotica distruttiva e mostruosa.

Espressionismo e surrealismo sbarcarono insieme negli Stati Uniti prima e durante la Seconda guerra a mettere in crisi l’ottimistica concezione americana dell’esistenza, la sua naturale inclinazione a considerare buona la natura, umana e non. Lynch è intriso di questa cultura d’Oltreoceano e ne fa suoi i riferimenti. Nei disegni, ad esempio, i tratti filiformi che definiscono campi interiori ed esplorazioni psichiche ricordano Vassily Kandinsky con la differenza che il mondo dell’inconscio s’inscrive pienamente nel quotidiano. Tovaglioli di bar e ristoranti, bustine di minerva, fogli intestati di hotel di mezzo mondo, pezzi qualsiasi di carta, la mano di Lynch traccia i suoi fantasmi ad ogni momento.

Anche la composizione dello spazio e le figurazioni delle grandi tele rimandano all’Europa, a Francis Bacon, come anche ad Edward Hopper, uno dei più europei degli artisti americani del secolo scorso, la metafisica realistica del quale è perfettamente in linea con il realismo inquietante del regista.

Nell’arte totale di Lynch i rimandi non sono però citazioni, segni della storia. Lo spazio allestito dall’americano è quello del subconscio, dato alla diacronia, in cui la datazione delle creazioni non si dà. Non c’è differenza tra le creazioni dell’inizio della carriera, di prima che iniziasse il cinema, e quelle più recenti. L’inconscio non ha tempo, o almeno ne ha uno diverso da quello meccanico della coscienza.

Come nei film di Lynch, dove i codici narrativi vengono continuamente dislocati da emersioni e enigmi che ne piegano l’orizzontalità in movimenti labirintici che conducono in luoghi altri, in ogni opera del Lynch creatore si annida l’occasione di un viaggio in mondi altri. Molto spesso incubi.



 


 

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