Se ne va
silenziosamente Jean Baudrillard, e quasi nessuno si
accorge che con lui si chiude un’epoca, la grande
stagione del poststrutturalismo francese. Sicuramente
nemmeno lui avrebbe condiviso questa affermazione: sociologo
poliedrico con il gusto del paradosso e anticonformista
impenitente, ne avrebbe riso come rideva di qualsiasi
etichetta. Ma in fondo l’eredità che lascia
Baudrillard è proprio una risata che alleggerisce
il peso del reale, che smonta la struttura di un destino
inevitabile, quello del pensiero e della vita occidentale,
di cui proprio la generazione di Foucault e Lyotard,
di Deleuze e Derrida, ha mostrato la contingenza e la
radicale eventualità. Risata che accompagna
le innumerevoli piroette della sua riflessione, ben
illustrate dalla definizione che egli dava di sé
stesso: “patafisico a 20 anni, situazionista a
30, utopista a 40, trasversale a 50, virale e metalettico
a 60…”. Un ‘trasformismo’ a
rovescio che rispondeva all’esigenza di lavorare
ai margini, senza cedere alle mode intellettuali e senza
cristallizzarsi nel pensiero di una scuola , troppo
spesso interpretato come pura provocazione intellettuale
o semplice dogmatismo postmoderno. Eppure proprio il
tormentato percorso di pensiero di Baudrillard, la sua
attenzione costante alle dinamiche della società
contemporanea, il commento puntuale di un’attualità
nella quale non rinuncia mai a cogliere i segni profetici
del Nuovo, testimonia la sua appartenenza al filone
più propositivo del pensiero contemporaneo.
Bisogna qui aprire una parentesi su un’anomalia
tutta francese: nel paese del sartriano “intellettuale
engagé” si assiste, ormai da lunga
data, al paradosso di un’istituzione universitaria
sempre più chiusa su se stessa e sui suoi rituali
e parallelamente al dominio mediatico di una generazione
di essaystes, grosso modo quello che rimane
dei Noveaux Philosophes e dei loro eredi –
il cui successo veniva già efficacemente stigmatizzato
nel ’77 da Deleuze come “puro marketing
intellettuale”. Di questa paradossale situazione
hanno fatto le spese intellettuali di ben altra caratura,
le cui tesi erano troppo eccentriche per l’accademia
e troppo profonde per il mercato dell’opinione.
Gli intellettuali d’oltralpe più influenti
degli ultimi quarant’anni, coloro che hanno portato
nel mondo il vessillo della French Theory,
sono stati in primo luogo degli emarginati dal sistema
accademico francese: Deleuze e Lyotard confinati nell’università
“ribelle” di Vincennes, Derrida ha avuto
solo un tardivo incarico di direttore di ricerca all’Ehess
(l’istituto per gli studi nelle scienze sociali),
e persino la cattedra di Foucault al prestigioso Collège
de France, un’istituzione che permette di insegnare
ma non di dirigere ricerche, aveva lo scopo di allontanare
un pensiero chiaramente pericoloso dall’ambiente
universitario. Anche la carriera di Baudrillard è
quella di un outsider: riconosciuto internazionalmente,
deve attendere più di vent’anni l’abilitazione
all’insegnamento nell’università
(che poi abbandonerà rapidamente), e tutt’ora
il francese è l’unica lingua nella quale
non esistono monografie su di lui mentre ve ne sono
decine in inglese, tedesco, spagnolo. Più che
un’introvabile unità d’intenti o
sintonia di pensiero, è forse questa la vera
marca d’appartenenza alla corrente poststrutturalista:
una specie d’esilio in patria che spesso ha spinto
i suoi appartenenti a “de-nazionalizzare”
i loro testi, secondo l’espressione di Bourdieu,
cercando e trovando notorietà più all’estero,
specialmente oltreoceano, che non nell’Esagono.
Germanista di formazione, poi iniziato alla sociologia
della vita quotidiana dagli studi di Henri Lefebvre
e alla semiologia dalla lettura di Roland Barthes, Baudrillard
scrive nel ’66 la sua tesi di dottorato, Il
sistema degli oggetti, che preannuncia alcuni temi
del suo pensiero maturo: si tratta di comprendere come
gli oggetti si costituiscano in un sistema coerente
di segni che a poco a poco indebolisce la materialità
dei bisogni primari. La vita degli oggetti quotidiani
svela così la l’emergenza di un nuovo insieme
di valori correlati al prestigio sociale e alla comunicazione:
il segno non è più rappresentazione del
valore, ma valore esso stesso, segno-valore.
La sua semiologia politica, illustrata più compiutamente
nell’opera Per la critica dell’economia
politica del segno (1972), è un’analisi
feroce della società dei consumi, che da una
parte riprende il programma marxiano-lukacsiano di critica
del feticismo della merce, dall’altra inizia a
decostruirne alcuni aspetti, come l’opposizione
valore d’uso/di scambio. La rottura definitiva
con il marxismo avviene con Lo scambio simbolico
e la morte (1976), dove la valorizzazione della
nozione batagliana di scambio simbolico
è una critica esplicita del produttivismo tanto
capitalista quanto marxista: la natura umana non è
descritta dalla nozione di lavoro, quanto dalla ricerca
dell’eccesso, dello spreco d’energie, dal
desiderio. E’ una tesi, questa del marxismo come
“orizzonte disincantato del capitale” incapace
tuttavia di reale emancipazione, comune anche ad altri
filosofi della sua generazione, come Foucault o Deleuze.
La ricerca della provocazione intellettuale è
costante, ma mai fine a se stessa: nel 1977 Baudrillard
scrive un libro intitolato Dimenticare Foucault,
che l’interessato liquiderà con un infastidito
“Temo che piuttosto sarò io a dimenticarmi
di lui.” Per quanto la sua raccomandazione sia
caduta nel vuoto, Baudrillard tocca un punto essenziale,
ben poche volte sottolineato, quello della dimensione
simbolica e rituale del potere, quando afferma che “Foucault
smaschera tutte le illusioni finali o causali riguardo
al potere, ma non ci dice nulla sul simulacro del
potere stesso”. La questione del simulacro,
inteso come copia che si sostituisce all’originale,
diveniva centrale nell’analisi del potere cinico
dei media. Quest’ultimo produce infatti una simulazione
talmente credibile della realtà da essere più
reale del realtà materiale, un iperrealtà
che si pone ormai come l’unico orizzonte di senso
rigenerante il tessuto sociale. Le società postmoderne
sono società di simulazione, nelle quali ad essere
determinante non è più il possesso dei
beni di produzione quanto l’appropriazione parodistica
di codici identitari nell’iperrealtà del
mondo cibernetico e della pubblicità: la descrizione
di questa fuga dal “deserto del reale” attraverso
“l’adorazione dell’immagine”
è il nucleo della riflessione di Baudrillard
a partire dal suo lavoro forse più influente,
Simulacri e simulazioni (1981). Opera singolare,
che attua una vera e propria ibridazione di codici e
generi letterari, segna anche il periodo della grande
popolarità del sociologo francese negli ambienti
artistico-culturali degli States. Il movimento
neo-concettuale americano si costruisce intorno ai concetti
di simulazione e iperrealtà; non meno forte è
il suo influsso su critici letterari e autori di fantascienza,
secondo Lotringer, Baudrillard è “un’agente
speciale nello spazio extra-terrestre che diventa il
nostro mondo”; e d’altronde cosa impugna
Neo in una delle prime scene di Matrix se non
una copia del fortunato saggio baudrillardiano? Eppure
quest’incontro con la cultura statunitense è
anche uno scontro fatto d’incomprensioni e fraintendimenti:
gli artisti americani vedono nella sua opera l’invenzione
di un nuovo modo di rappresentazione, laddove il sociologo
francese parla di un vero e proprio crollo del moderno
regime rappresentativo dovuto all’eliminazione
dei referenti e alla loro resurrezione artificiale in
un sistema di segni.
Dalla metà degli anni ‘80 la scrittura
di Baudrillard diventa sempre più esoterica,
caustica ed ironica al tempo stesso, come se cercasse
di rielaborare continuamente le coordinate del suo pensiero
per seminare i suoi emuli-esegeti. Già in Della
seduzione del 1979 e in Le strategie fatali
(1983) la speranza di una trasformazione sociale progressiva
e il conseguente impegno emancipativo vengono completamente
abbandonati in favore di un estetismo neo-aristocratico.
Infatti, l’altra faccia della progressiva virtualizzazione
del reale è l’escrescenza e il dominio
degli oggetti che assume le sembianze di un processo
vorticoso e inarrestabile di produzione e circolazione:
l’unica strategia pensabile è allora la
sottomissione al potere degli oggetti per portare al
limite il loro gioco sistemico, nella speranza di un
collasso o di un capovolgimento immanente. La forma
saggistica viene abbandonata, per il diario (America,
1986, Cool Memories I-V, 1980-2005), lo stile frammentario
e rapsodico del saggio breve e dell’aforisma (il
memorabile La guerra del Golfo non c’è
mai stata, 1991, Il crimine perfetto,
1995, Lo scambio impossibile, 1999), o l’articolo
giornalistico (i numerosi interventi su Libération
e il provocatorio Lo spirito del terrorismo,
sul “suicidio” delle Twin Towers apparso
sulle pagine di Le Monde nel 2002).
I temi della riflessione precedente vengono ripresi
in un dialogo incessante con il marxismo e il post-struttualismo
che cerca di cogliere nell’attualità i
segni di un rivolgimento a venire. Lo spettacolo della
merce che ha letteralmente “ucciso la realtà”,
l’estetizzazione del mondo propria di una società
completamente mediatizzata e informatizzata, il paradosso
di un ordine tecnologico sempre più irrazionale
che si nutre delle sue crisi, hanno condotto ad una
virtualizzazione tale del sistema da renderlo totalmente
imprevedibile. Ma proprio quest’imprevedibilità
nel cuore del sistema rappresenta il nucleo sottovalutato
del pensiero di Jean Baudrillard e l’ultimo motivo
di speranza che ci lascia. Laddove un’intera tradizione
filosofica, da Weber alla Scuola di Francoforte fino
ad Heidegger, ha insistito sui nefasti effetti di una
razionalità strumentale che rafforza il dominio
del soggetto sull’oggetto, il sociologo francese
ha mostrato l’altra faccia della modernità:
il progressivo autonomizzarsi del mondo degli oggetti,
la sua spaventosa escrescenza come sistema di segni
e lo svuotamento di senso di una realtà che non
è più umana, e quindi non più dominabile
razionalmente, non più prevedibile, ma proprio
per questo sempre aperta all’evento insperato
e improbabile del suo rovesciamento.
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