È
stata definita la regista delle giovani generazioni,
perché spesso i protagonisti dei suoi film sono
bambini e adolescenti: dai teenager di Mignon è
partita, il suo film di esordio, alla bambina de
Il grande cocomero, alla coppia di fratelli
minorenni costretti a diventare genitori dei loro stessi
genitori ne L’albero delle pere. E anche
nel suo nuovo film, Lezioni di volo, che esce
nelle sale italiane il 16 marzo, Francesca Archibugi
segue le vicende di due diciottenni che, bocciati alla
maturità, intraprendono un viaggio di conoscenza
– di un mondo lontano, l’India, da cui uno
di loro proviene, ma anche di se stessi e della loro
natura profonda.
Ma la regista preferisce descrivere i suoi personaggi
come “pezzi unici, indipendentemente dall’età”,
e fa notare che non è lei che mette i giovanissimi
al centro delle storie, “sono gli altri che ce
li tolgono”. Perché nella vita raccontata
da Francesca Archibugi ci devono essere tutti quelli
che ci sono nella vita vera: giovani, vecchi, animali,
uomini e donne di età adulta, anche se eterni
adolescenti.
E poiché il suo primo film porta la data del
1988 e lei sta per compiere 47 anni, può parlare
quasi da veterana di come è cambiato nel tempo
il modo di fare cinema, spingendosi anche più
indietro della sua età anagrafica, fino a coincidere
con il cinquantenario dell’Unione europea. Cominciando
naturalmente dall’Italia: “Appena usciti
dalla guerra, siamo stati i protagonisti di un fermento
culturale fortissimo, e anche violentissimo: attraverso
il cinema del neorealismo abbiamo rivoluzionato l’estetica
mondiale. Fellini, De Sica, Rossellini, Visconti sono
studiati nelle scuole di cinema di tutto il mondo. Ho
girato gran parte di Lezioni di volo in India
e ho lavorato con i tecnici locali: i miei assistenti
alla regia conoscevano i film di Visconti e Pasolini
assai meglio di quanto io non conoscessi l’opera
di Satyajit Ray, il loro regista più affermato”.
“Poi c’è stata la stagione degli
anni Sessanta e Settanta, con Pasolini, appunto, ma
anche Antonioni, Bertolucci, Bellocchio, Moretti: un’altra
generazione di grandi autori che hanno arricchito il
cinema italiano e l’hanno fatto conoscere in tutto
il mondo. E poi c’è stato il grande fermo
degli anni ’80, in cui hanno preso il sopravvento
i comici televisivi e fare film d’autore è
diventato molto più difficile. Tuttavia io ho
potuto esordire alla fine del decennio con un piccolo
film come Mignon è partita ottenendo
un buon successo al botteghino, cosa che adesso mi sembra
incredibile. Oggi domina il genere commerciale, e per
i piccoli film italiani un po’ particolari c’è
poco spazio e poca attenzione, per non parlare dello
scarso sostegno della politica all’industria culturale”.
Ma anche in un Paese come la Francia, dove il cinema
è fortemente incentivato da una politica di sostegno,
“in questo momento c’è una profonda
crisi, un clima demotivato, che i francesi negano, ma
che appare evidente soprattutto nei grandi festival
internazionali, dove i film francesi in concorso sono
sempre più modesti. Anche il cinema tedesco ha
subito un percorso involutivo: grandissimo negli anni
Trenta, con la lezione internazionale dell’Espressionismo,
e poi ancora negli anni Settanta, quando il cosiddetto
Nuovo cinema tedesco vantava nomi come Wenders, Fassbinder
e Herzog, adesso mi sembra quasi cancellato, a parte
qualche eccezione come il film che ha appena vinto l’Oscar,
Le vite degli altri. Ma anche di quello non
riesci a ricordarti il nome del regista”.
“Per contro, c’è una fortissima
vitalità nel cinema spagnolo, non solo da parte
dei grandi autori come Almodòvar ma anche fra
i minori e gli esordienti; idem per il cinema scandinavo,
in particolare quello danese, e anche questo lo si vede
ai festival come Cannes, Venezia e Berlino, dove continuano
a spuntare nuove proposte interessanti dalla ‘fabbrica’
di Lars Von Trier. Infine il cinema inglese tiene duro
da cinquant’anni, sia perché, favorito
dalla lingua, ha un mercato immenso e la possibilità
di osmosi con il cinema americano, dal quale andare
e tornare a suo piacimento; sia perché l’industria
culturale inglese sostiene i suoi talenti, anche quelli
più ‘impegnati’ come Ken Loach, che
è stato uno degli artefici del free cinema
degli anni Sessanta e continua ancora adesso a
fare grandi film (e a vincere premi internazionali,
come la Palma d’oro al Festival di Cannes con
Il vento che accarezza l’erba, ndr) o
Mike Leigh, capace di toccare temi delicati senza temere
di perdere il contributo dello Stato. Noi invece non
siamo bravi nemmeno a sostenere i nostri grandi talenti
– basti pensare che Fellini negli ultimi anni
di vita non riusciva a realizzare i suoi film –
figuriamoci gli esordienti ”.
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