Forse il
film ambientato in Afghanistan (anche se era girato
in Iran) del quale si è più parlato resta
Viaggio a Kandahar di Moshen Makhmalbaf, uscito
nel 2001 e presentato al Festival di Cannes. Molti spettattori
occidentali, che non sapevano nulla dell’Afghanistan,
se ne sono fatti un’idea guardando quelle immagini
di oppressione e miseria e seguendo la vicenda di una
donna da tempo emigrata in Nord America che torna in
patria per scoprire un mondo regredito nel tempo, soprattutto
per le donne, nascoste dal burka e costrette ad una
vita da cittadine di serie zeta. Samira Makhmalbaf,
figlia di Moshen, ha poi girato nel 2003 Panj é
asr proprio sulla condizione femminile in Afghanistan.
E in quello stesso anno ha fatto molto parlare Osama
del regista afgano Siddik Barmaq, filmato subito dopo
la caduta del regime talebano e prodotto sempre da Makhmalbaf.
Ma il più bel film su uno dei paesi più
travagliati del mondo contemporaneo è senza dubbio
Terra e cenere, piccolo capolavoro poetico
diretto appunto da un poeta e scrittore afgano trapiantato
in Francia, Atiq Rahimi, sulla base del proprio romanzo
breve dallo stesso titolo (uscito in Italia per Einaudi).
Il film è rimasto intrappolato nel circuito dei
festival, senza trovare una distribuzione adeguata in
Italia e in gran parte del mondo occidentale, anche
se ha partecipato in concorso al Festival di Cannes
2004 ed è stato candidato all’Oscar come
miglior film straniero nel 2005.
Protagonisti di Terra e cenere sono le vittime
per definizione di un’oppressione sistematica
che cerca di riportare l’Afghanistan nella preistoria,
coltivando ignoranza, povertà e odio dietro la
foglia di fico dell’integralismo religioso: un
vecchio, un bambino e una donna. Il vecchio è
il nonno del bambino, cui non osa dare la terribile
notizia che i suoi genitori sono stati uccisi. Il bambino
è sordo a causa di un’esplosione –
e forse, suggerisce il film, è meglio così,
considerate le verità che gli toccherebbe altrimenti
ascoltare. La donna è un fantasma celato da un
burka, muta e immobile, in interminabile attesa di qualcuno
che non tornerà.
Anche il nonno e il nipotino aspettano: un autobus,
anche quello fantasma, che non ha orari né fermate
prestabilite, perché in tutto il terzo mondo
i servizi più elementari sono inattendibili e
contano su una visione fatalista della vita. Visione
che, volenti o nolenti, anche i due potenziali passeggeri
condividono, tanto più che il nonno non ha nessuna
fretta di tornare al villaggio dove il nipotino scoprirà
inevitabilmente di essere diventato orfano.
La donna in burka non spera nemmeno in un passaggio
da qualche parte: il suo posto è lì, il
suo ruolo è quello della statua, simbolo di una
dittatura che nega alle “femmine” qualsiasi
mobilità. C’è un’altra donna
in Terra e cenere, una sorta di alter ego di
quella in burka – ed è completamente nuda.
Appare in un sogno del nonno, come una sorta di fantasia
di libertà, e la sua apparizione sul grande schermo
ha un effetto dirompente, non tanto per la nudità
in sé, quanto per la naturalezza con la quale
viene esibita. In un paese in cui lo stato di natura
delle donne è diventato l’invisibilità,
quella creatura nuda immaginata è candidamente
e completamente visibile, in tutta la gloria e l’innocenza
del suo corpo. E il regista ha raccontato che girare
quella scena in Afghanistan ha significato rischiare
la vita, sia per lui che per l’attrice che per
tutta la troupe.
La storia è essenziale quanto lo sono tutte
le storie quotidiane in paesi come l’Afghanistan:
l’interminabile attesa di nonno e nipote si trasformerà
in una rinuncia, dopo una serie di incontri con personaggi
maschili che rappresentano, a turno, la solidarietà
elementare fra la povera gente e la violenza cieca e
brutale di chi, vestiti i panni dell’oppressore,
ne ricava un senso inebriante di onnipotenza (soprattutto
se quel potere di vita o di morte sul prossimo è
l’unica alternativa a una miseria nera e a una
totale mancanza di prospettive future).
Ma a rendere unico Terra e cenere è
la dimensione poetica di ogni singola devastata immagine
e della volontà insopprimibile dei personaggi
di ribadire la propria umanità in un contesto
totalmente deumanizzante. Rahimi e i suoi non-attori
(sbarcati a Cannes come marziani, senza sapere una parola
di alcuna lingua altra dal proprio dialetto locale,
e coperti da capo a piedi di bianco – in questo,
molto più eleganti di tante starlet in minigonna)
sono riusciti a trafugare al di fuori dei confini del
loro paese il quadro realistico di una situazione drammatica
ma anche un messaggio di speranza, obbligandoci a vedere
che ciò che succede in quell’inferno non
è qualcosa che a noi non potrebbe capitare, ma
qualcosa che, infangando la dignità umana, ci
riguarda tutti.
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