Scrittori
che, abbandonata la propria terra, scrivono nella lingua
del paese ospitante. Questa è la letteratura
della migrazione, una letteratura che in Europa eredita
dal passato coloniale una lunga storia e autori di successo
come Tahar Ben Jelloun in Francia, Salman Rushdie e
Hanif Kureishi in Inghilterra.
La storia coloniale dell’Italia ha ritardato questo
fenomeno nel nostro paese, ma le cose stanno cambiando
velocemente. Dall’Africa, dall’America,
dal Sudamerica, dall’Europa dell’Est uomini
e donne approdano in Italia e qui sentono il bisogno
di scrivere e raccontare la loro condizione di migranti,
iniziando a conquistare anche l’attenzione di
grandi editori.
Armando Gnisci è tra i massimi esperti di letteratura
della migrazione che giudica essere la letteratura del
futuro, la letteratura mondiale, perché soltanto
nella contaminazione di linguaggi, di etnie e di culture
l’uomo avrà la possibilità di comprendere
appieno il concetto di rispetto, di tolleranza e di
crescita intellettuale.
Professore associato di Letterature comparate alla Sapienza
di Roma, Gnisci ha scritto libri e fondato numerose
riviste letterarie (una per tutte, Kùmà)
dedicate agli studi interculturali; nel 1997 ha istituito
“Basili”, banca dati dedicata agli scrittori
immigrati in Italia.
Prof. Gnisci, cosa l’ha spinta verso la
letteratura della migrazione?
Il mio lavoro mi rendeva particolarmente “esposto”
alla comparazione tra le culture e alla mondialità.
Nel 1991 fui invitato a parlare all’Università
di Tunisi, ma in quell’occasione non mi sentivo
di parlare di letteratura italiana, la scoperta di che
avevo da poco fatto di due autori immigrati (Pap Khouma,
senegalese e Salah Methnani, tunisino) che avevano pubblicato
libri scritti a quattro mani con autori italiani, spingeva
la mia attenziona piuttosto verso qualcosa che riguardasse
entrambe le culture letterarie in gioco, la tunisina
e l’italiana. Allora preparai una conferenza su
questo argomento, che mi appassionò tanto da
diventare un libro, Il rovescio del gioco,
pubblicato nel maggio del 1992 dall’editore Carucci.
Nel suo ultimo libro, Nuovo planetario italiano.
Geografia e antologia della letteratura della migrazione
in Italia e in Europa, lei ha tracciato un bilancio
di una letteratura migrante che ormai ha qualche decennio
di vita alle spalle. Cosa è venuto fuori dalle
riflessioni e dalle critiche sviluppate nel saggio?
Che siamo in un grande flusso mondiale, quello di un’Europa
che raccoglie cittadini di tutti i mondi del pianeta,
che ha trovato i suoi testimoni, narratori, poeti e
artisti e il loro pubblico, in aumento.
I processi di integrazione dei migranti in
Europa sono molto lunghi e anche difficili. Sia dal
punto di vista legislativo che dal punto di vista culturale.
Qual è la strada che potrà mostrarci,
in Europa ma soprattutto in Italia, la piena affermazione
della letteratura della migrazione, una letteratura
che attraverso una lingua europea sappia aprire un confronto
vero con le culture extraeuropee?
È una strada che, come sostiene il grande scrittore
martinicano Edouard Glissant, è segnata dal cammino
della creolizzazione, cioè dalla creazione di
una nuova cultura che nasce da un lavoro che dovremo
fare insieme. Portare di fronte al paese in cui si arriva
la propria cultura di provenienza è importante,
ma non è che una fase dell’intero processo,
una fase che per forza di cose è destinata a
rimanere impura e meticcia: i frutti puri non
esistono più, e se esistono impazziscono, come
ci ha mostrato il grande antropologo nordamericano James
Clifford.
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