Il suo sguardo,
romanticamente rivolto ad un orizzonte immaginario,
è custodito nella Galleria degli Uffizi di Firenze.
L’Italia è stata una sua grande passione,
un amore che lo ha accompagnato per tutta la vita. Ma
la memoria nazionale (italiana) se proprio non ha messo
Ivan Ajvazovskij nel dimenticatoio, certo non lo ricorda
con particolare intensità. E pensare che, nel
1874, fu proprio la Galleria degli Uffizi a commissionare
al pittore quell’Autoritratto in occasione
della sua elezione all’Accademia di Belle Arti
di Firenze.
Ma non c’è da stupirsi più di tanto.
Non solo per l’italica inclinazione ad avere la
memoria corta, ma perché Ajvazovskij ha disseminato
la sua vita – e le sue numerosissime opere –
in qua e in là per il mondo intero. Dalla Russia
agli Stati Uniti, ovunque in Europa, moltissimo in Italia
e in Francia, si trovano sue tele, soprattutto ma non
solo in collezioni private. Ed ecco che, a più
di un secolo dalla sua morte (nel 1900), l’impressione
che ce ne resta è quella di un personaggio un
po’ sfuggente, inquieto, vulcanico nella produzione
artistica, per questo difficile da inseguire e conoscere.
Forse impegnato nella ricerca di una identità
collettiva, più che individuale: quella del popolo
armeno. Profondamente attaccato alla sua città
natale, Feodosija, in Crimea, ma costantemente impegnato
nel mostrarsi al mondo. Ha lasciato qualcosa come 6
mila quadri. Il mare, l’acqua, sono state la linfa
vitale della sua opera.
Hovhannes Aïvazian, figlio di Ghevork, commerciante,
armeno, nato a Feodosija il 17 luglio 1817. Ivan Ajvazovskij,
russo, che verrà nominato pittore ufficiale dello
Stato Maggiore della Marina zarista. Oppure “Giovanni”
Aïvazovski, come lo si vede scritto rigorosamente
all’italiana nella targhetta sulla cornice del
Naufragio nel Mare del Nord, custodito a Venezia
dalla Congregazione dei Mekhitaristi. Una persona che,
per ragioni storiche prima che per volontà personale,
si è trovata ad essere il simbolo del desiderio
di un popolo – gli armeni – di affermare
la propria identità.
Nella cultura russa (che più di altre ama l’aneddoto
e tanto meglio se aiuta a osannare le sue “glorie
nazionali”) si racconta che Ivan, poco più
che bambino, prendeva il carbone del samovar di
casa sua e scorazzava per le vie di Feodosija disseminando
di disegni i muri bianchi delle abitazioni del quartiere
armeno. A dire il vero non è certo che quest’ultimo
dettaglio facesse parte del racconto popolare russo...Ma
è un dato storico. Fra XIV e XV secolo infatti,
la piccola città della Crimea diventa un punto
nevralgico della cultura armena. Dopo le devastanti
invasioni dei Selgiuchidi, dei Mongoli, durante la dominazione
ottomana, numerosi armeni fuggono da Ani, capitale medievale
dell’Armenia, come anche dalla Cilìcia
e da altre province occidentali, per raggiungere in
massa la città sulle rive del Mar Nero. Sono
ormai gli armeni la comunità più folta
della città, 27 chiese di culto armeno a testimoniarlo.
Le condizioni economiche in famiglia erano piuttosto
modeste. Da una vecchia fotografia della casa natale
del pittore a fine Ottocento (se non si sapesse che
quelle all’orizzonte sono le colline di Feodosija,
potreste scambiarla per una casa dell’Appennino
Tosco-Emiliano) vediamo l’intonaco bianco, i coppi
in cotto, un portone di legno gigante con l’entrata
ricavata nella metà destra e quello zoccolo che
resta in basso, da scavalcare facendo attenzione a non
inciamparci. La latitudine è più o meno
la stessa, il clima mitigato dal mare: che l’elemento
geografico abbia stimolato la futura attrazione di Ajvazovskij
per l’Italia?
Se non fosse per l’intercessione del sindaco di
Feodosija, che intuisce le sue doti e ritiene valga
la pena spendere le migliori parole per lui, un ragazzino
armeno figlio di un commerciante fallito difficilmente
si sarebbe potuto iscrivere al liceo di Simferopol’
e poi, passaggio chiave che gli aprirà tutte
le porte, all’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo.
A partire da questo momento (siamo nel 1833, Ajvazovskij
ha appena 17 anni) sarà un’ascesa continua.
Fin da molto presto è chiaro che il suo campo
d’interesse è rappresentato dai paesaggi.
Ma non in maniera generica. “La mia vita è
il mare” sono le parole del pittore.
All’Accademia incontra Puškin che lo stima
e lo incoraggia. Nel 1837, dopo essersi diplomato a
pieni voti, l’Accademia decide di premiarlo con
una borsa per viaggiare all’estero. Non prima
però di averlo inviato in Crimea per dipingere
le città del litorale. È così che
viene sigillato il patto con il mare che non si spezzerà
più: conosce gli ammiragli della flotta russa
per la quale sviluppa una vera e propria venerazione.
Nel 1844, dopo essere diventato membro dell’Accademia
di San Pietroburgo, viene nominato pittore ufficiale
dello Stato Maggiore della Marina. Ajvazovskij è
in un certo senso la “macchina fotografica”
di tutte le grandi battaglie e dell’evoluzione
della flotta zarista. Le sue grandi tele storiche sono
ovviamente custodite al Museo della Marina Militare
di San Pietroburgo. In effetti però, per la pittura
di Ajvasovskij, non c’è paragone meno azzeccato
di quello con la fotografia. Ha una memoria visiva proverbiale:
osserva, incamera, riproduce. Ma l’approccio è
tipicamente romantico. Non per nulla non si adeguerà
mai all’evoluzione artistica contemporanea: per
lui il passaggio del romanticismo al realismo non è
mai avvenuto e tutti gli elementi dei suoi quadri sono
espressione di una realtà interiore. Non solo
dimostra comunque una perizia tecnica impareggiabile
nel ricreare la distesa del mare, il bianco delle creste,
le trasparenze della superficie, il nero delle profondità.
Ma il tutto si accompagna a un uguale fascino per la
luce. Si dice che per il popolo armeno il mare sia il
simbolo massimo della libertà, l’elemento
del quale l’Armenia storica, che si estendeva
dal Mar Nero al Caspio, al Mediterraneo, è stata
deprivata. L’Armenia che “si consola”
– per così dire – con il Lago Sevan,
al centro del suoi attuali confini. In tutte le innumerevoli
tempeste di Ajvazovskij, per quanto le onde siano nere
e alte, per quanto il cielo sia cupo e le nuvole siano
cariche e pesanti, c’è sempre lo spazio
per una luce che filtra. È lo stesso flebile
ma coriaceo barlume di speranza che rappresenta le aspirazioni
del popolo armeno.
È questa la chiave di lettura proposta dall’esposizione
che il Musée National de la Marine di Parigi
dedica al pittore russo-armeno. “Ajvasovskij (1817-1900),
poesia del mare” è il titolo della mostra.
E nulla è casuale. Il 21 settembre 2006 (anniversario
dell’indipendenza dell’Armenia) è
stato inaugurato l’anno dell’Armenia in
Francia che si concluderà il prossimo 4 luglio.
Lo scorso ottobre inoltre, i deputati dell’Assemblea
Nazionale hanno votato un controverso progetto di legge
che prevede un anno di carcere e 45 mila euro di multa
per chi nega il genocidio armeno. E risale al 2001 il
testo con il quale lo Stato francese riconosceva ufficialmente
come genocidio lo sterminio degli armeni. Del resto,
nella vita di quello che è stato definito un
“pittore viaggiatore”, la Francia, dopo
l’Italia, ha occupato forse il ruolo più
significativo. Basta ricordare che a Parigi Ajvazovskij
espose nel 1843, 1857, 1879, 1887 e 1890. E quando il
14 aprile 1900 si apre a Parigi l’Esposizione
Universale (l’ultima manifestazione che porta
questo nome) Ajvazovskij è presente fra gli artisti
russi con L’Oceano. Muore 5 giorni più
tardi, il 19 aprile, nella sua città natale,
Feodosija.
Il suo più grande desiderio era tuttavia di
poter rivedere l’Italia prima di morire. Aveva
viaggiato nella penisola fra il 1840 e il 1844. Venezia,
Roma, Firenze, Amalfi e Sorrento, dove tra l’altro
ha vissuto nella casa di Tasso. In quegli anni dipinge
una cinquantina di tele. Alcune sono presenti alla mostra.
E tutte quante provengono dal luogo simbolo della cultura
armena in Italia: l’Isola di San Lazzaro, a Venezia.
È lì che ha vissuto il fratello maggiore
del pittore, Gabriel, in seno alla congregazione dei
Mekhitaristi. Creata da Mekhitar di Sebaste nel XVIII
secolo, lo scopo dell’ordine era quello di conservare,
arricchire, diffondere fra gli intellettuali di tutta
Europa, la cultura del popolo armeno.
Ma che sia la Laguna della “piccola Armenia”
di San Lazzaro, o il mare che bagna l’altra “piccola
Armenia”, Feodosija, i suoi quadri trattano con
una costanza evidente l’elemento marino, in virtù
del suo rapporto con l’uomo. È come se
ci fossero due soli possibili stadi: la forza devastatrice
delle onde e il tema del naufragio, oppure la calma
piatta che s’accompagna di solito con la luce
lunare soffusa o con un caldo crepuscolo. Ma in questo
secondo caso non cambia molto: essenzialmente si tratta
solamente di una tregua che la Natura concede al marinaio,
prima di una nuova tempesta. Quella fra l’uomo
e il mare però è una lotta che non contempla
il rancore: ne La fortezza del naufragio. Mar Nero
– un esempio fra tanti – il gesto della
figura umana che si mette in salvo salendo sulle rocce
che hanno fracassato la nave, è un gesto del
tutto naturale. E in maniera speculare, nel Chiaro
di luna a Costantinopoli è pacifico che
i marinai attendano un nuovo giorno di fatiche della
navigazione, a lume di lanterna. È lo stesso
rapporto che c’è fra lo sforzo titanico
degli armeni verso le loro aspirazioni e l’umiliazione
che si ripete nei secoli come fosse una legge di natura.
Molto presto, dopo anni in mezzo al mare, Ajvasovskij
decide di ritirarsi in un atelier sulle rive del Mar
Nero. Ma si dice che l’insorgere del suo desiderio
di tornare in Italia – che è poi in parte
rimpianto della sua giovinezza – abbia coinciso
con il dolore e la delusione lancinante che l’artista
prova quando l’Impero Ottomano avvia la drammatica
stagione dello sterminio armeno. È fra il 1894
e il 1896 che il sultano Abdul-Hamid II comincia quella
campagna di terrore che avrà il suo apogeo nel
1915. Il tutto con l’approvazione del Principe
Lobanov-Rostovskij, l’allora Ministro degli Affari
Esteri della Russia, convinto sostenitore della politica
di una “Armenia senza gli armeni”. Quando
Ajvazovskij organizza la sua ultima esposizione a San
Pietroburgo, ai giornalisti che lo fermano per intervistarlo
dice: “I miei primi passi come pittore sono intrisi
della luce dell’Italia. Vorrei ritrovare quella
giovinezza”.
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