Lunedì
12 febbraio è morto Aldo Visalberghi, grande
pedagogista italiano. Quella che segue è una
intervista inedita realizzata qualche mese fa.
La vita in montagna nelle file di Giustizia e Libertà.
E poi l'insegnamento di Guido Calogero alla Normale
di Pisa, l'Azionismo, l'amicizia con Norberto Bobbio,
con Duccio Galimberti e soprattutto con Alessandro Galante
Garrone, che lo fece liberare da un carcere fascista
nel '44. La gioventù di Aldo Visalberghi, il
più importante pedagogista italiano, è
un frullato di teoria e prassi, di idee e azione, di
impegno civile e riflessione pura: era quasi inevitabile
che divenisse il più importante interprete italiano
del pensiero di John Dewey. Il filosofo, il pedagogista
americano, ma anche l'intellettuale militante che si
spendeva nelle grandi questioni politiche e sociali
della sua epoca è stato un riferimento teorico
ma anche umano inevitabile.
Visalberghi ci accoglie nella sua bella casa nel quartiere
Trieste a Roma, tra uno scroscio di pioggia e qualche
raggio di sole. Circondato da pareti di libri, il vecchio
professore viaggia nel tempo e torna a quegli anni eroici
nei quali incontrò per la prima volta le idee
del grande filosofo pragmatista.
Professor Visalberghi, sessant'anni fa John
Dewey non era molto diffuso in Italia. Come ha conosciuto
questo straordinario intellettuale?
Devo dire anzitutto che ho avuto un tipo di rapporto
particolare e non facilmente ripetibile con pensiero
di questo grande filosofo americano. Mi sono trovato
a impegnarmi nella traduzione dell'opera più
difficile di Dewey, Logica, teoria dell'indagine,
pochi anni dopo la sua uscita (la prima edizione è
del 1938, ndr). Si tratta della summa di tutta
la sua filosofia con aspetti anche molto originali e
perfino difficilmente comprensibili allora.
Perché era ed è ancora importante
oggi un libro come la Logica?
La Logica polemizzava contro parecchi luoghi
comuni. Per esempio, contro l'idea che si potesse distinguere
nettamente tra un aspetto oggettivo e uno soggettivo
dei principi logici fondamentali e contro l'idea che
una descrizione oggettiva e chiara della logica fosse
riducibile a uno schema semplice. L'aver dovuto fare
i conti con questi aspetti che erano senz'altro i più
complessi e che evitavano quelle semplificazioni che
parole come "pragmatismo" rendevano apparentemente
più comodi mi ha posto sin dall'inizio nei confronti
di Dewey in una situazione abbastanza particolare: dovevo
considerarlo subito dai limiti di massima complessità
anziché dalle cose più semplici.
Dewey è morto nel 1952. Lei è
riuscito a incontrarlo?
Un grande rammarico della mia vita è quello
di non averlo conosciuto. Avevo progettato un viaggio
in America ma nel frattempo Dewey era morto. Ho avvicinato
familiari e amici. Non credo che avrebbe significato
molto anche perché era molto vecchio. Questo
rimpianto mi ha spinto però molto a conoscere
il pensiero di Dewey, al quale ho sempre riconosciuto
una grande novità e originalità. Per questo
motivo, la mia formazione su Dewey è continuata
tutta la vita.
Qual è un tema che ritiene importante
e che non è particolarmente conosciuto nel pensiero
dell'ultimo grande pragmatista?
Una problematica emersa negli ultimi anni di vita di
Dewey e che lo mette in relazione con i problemi di
fondo della filosofia contemporanea. Si tratta del tema
della "transazione" che è una questione
importante e originale nel pensiero di Dewey. Cos'è
una transazione? E' un processo in cui i termini di
conclusione non sono identici a quelli di impostazione.
Cioè è un processo che comporta la trasformazione
dei termini stessi. A un certo punto Dewey arriva a
distinguere il processo "interazionale" e
quello "transazionale", dove appunto i termini
si trasformano. I processi reali della vita sono processi
di transazione. Naturalmente la tendenza a mantenere
fissi i termini è un'esigenza vitale e di comodità,
però per andare a fondo bisogna spingersi più
in là e raggiungere il livello della transazione.
Si tratta di questioni molto originali e di
uno stile filosofico distante anni luce da quelli trattati
nella prima metà del XX secolo in Italia. Quale
fu l'impatto di Dewey nel nostro Paese idealista e marxista,
crociano e gentiliano?
Beh, fu abbastanza notevole su tutta la parte più
democratica e avanzata nella pedagogia, come Borghi,
per esempio. Su parecchi filosofi milanesi e torinesi,
su De Bartolomeis, in modi molto diversi tra loro. Io
stesso diedi un'interpretazione che non coincideva con
altre.
C'è anche il tema pace-guerra che ha
diviso i lettori italiani di Dewey.
Certo. Per esempio Borghi polemizzò con l'interventismo
di Dewey nelle principali occasioni belliche. Dewey
sempre stato pacifista, avvertiva i pericoli del nazismo
e prese posizioni nette e mai passive. Io diedi un piena
adesione a quelle scelte. Fu un'accettazione senza riserve
della posizione di Dewey anche quando comportavano l'abbandono
di un pacifismo assoluto.
Oltre che filosofo pragmatista, Dewey, è
anche notissimo pedagogista. Se dovesse sintetizzare
le linee guida della sua pedagogia, come la riassumerebbe?
Direi innanzitutto, che non esiste una pedagogia di
Dewey. Spesso ci è utile poter sintetizzare una
posizione secondo formulette. Ecco, questo con Dewey
è molto difficile, se non impossibile. Esiste
una piena coincidenza tra quella che chiamiamo la filosofia
di Dewey e la sua pedagogia. E c'è soprattutto
un rifiuto delle semplificazioni. Quelle semplificazioni
che caratterizzano spesso la pedagogia rispetto alla
filosofia. Inoltre in Dewey non c'è solo l'abitudine
ad evitare le semplificazione di natura storica, ma
anche quella di evitare tutte le differenziazioni un
po' artificiose di natura filosofica, etica, storica
e l'enunciato di fondo della sua filosofia, appunto
filosofia piuttosto che pedagogia. Dewey fu un pedagogista
che mal si qualificava come pedagogista. E questo è
però una ricchezza.
Qual è il rapporto tra educazione e
cittadinanza attiva, partecipazione alla vita della
società nel pensiero del filosofo americano?
Si tratta di un presupposto generale e naturale che
quasi non veniva più enunciato. Era il fondo
della sua filosofia. L'uomo per Dewey è l'educazione
che ha. Si distingue soprattutto in termini educativi,
che sono ampiamente esaustivi di quella che è
la personalità, il complesso di valori, la mentalità
di fondo di un individuo o di un gruppo di individui.
In genere, Dewey fu anti-individualista, cioè
i valori di fondo sono sempre valori socializzati di
interscambio tra persone piuttosto che valori relativi
a singole persone.
Un Dewey redivivo che giudizio darebbe del
nostro sistema scolastico? Per esempio, del grande scoglio
della formazione e dell'inserimento nel mondo del lavoro.
Si tratta di un problema storico che bisogna inquadrare
nella epoca in cui viveva Dewey. Egli era anche molto
comprensivo delle realtà di fatto per cui per
molti ragazzi l'educazione si svolgeva nei primissimi
anni post elementari e non aveva modo di espandersi
in maniera ampia e originale. Per cui ci sono nelle
sue opere cenni relativi alla necessità di anticipare
quanto e quando necessario perché tutti avessero
l'opportunità di maturare in tempo. In ogni caso,
in Dewey sono sempre compresenti le due esigenze quella
della più vasta formazione possibile e quella
della tempestività di certe conclusioni. Direi
che questa posizione in parte sta ancora in piedi. La
disgiunzione tra forme piene di formazione e forme più
rapide e riassuntive di educazione esiste ancora in
tutto il mondo e anche in quello più avanzato.
Lei ha parlato di un Dewey filosofo tout
court. Eppure non sono in tanti in Italia a considerarlo
tale?
Dewey è soggetto a cicli decennali di evoluzione
per cui ritorna attuale. Abbiamo avuto negli ultimi
anni una ripresentazione dell'attualità di Dewey.
Tutto questo in forma molto serena, senza improvvise
riscoperte, prendendo alcuni temi e discutendoli alla
luce delle questioni che l'attualità pone. Dewey
ha avuto una costante presenza nella cultura del secolo
passato e l'ha mantenuta anche perché apprezzato
da molti editori che hanno mantenuto viva l'attenzione
non solo in America ma anche da noi.
Fu un intellettuale che partecipava molto alla
vita pubblica. E' corretto considerarlo un liberale?
E' vero. Una delle caratteristiche di Dewey è
stata di prendere posizione quando necessario. Non si
tirava mai indietro. I problemi su cui si esprimeva
in parte esistono ancora e in parte sono anche peggiorati.
Pensiamo alla tortura per esempio che pensavo sparita
dall'attualità. Dewey è stato sempre aperto
all'attualità, aveva una grande apertura internazionale,
ha girato tutto il mondo. E' stato vicino alla cultura
cinese, orientale, africana, non ha mai perso occasione
di sottolineare l'importanza delle differenze e questa
è una cosa di costante attualità. E' stato
un liberal nel senso americano, una persona
estremamente aperta alle novità e alle concezioni
più coraggiose e radicali. Niente a che vedere
col senso più nostro per il quale il termine
"liberale" è in parte sinonimo di "conservatore".
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