Rifacendosi
a Maria Zambrano, per cui la scrittura (almeno quella
profana, laica: del narratore di storie o del filosofo)
è in primo luogo difesa di una solitudine e rappresenta
un isolamento che è tuttavia capace di comunicazione,
Riccardo Panattoni ritiene si scriva perché la
parola orale non è stata detta mai abbastanza
o, al contrario, perché sin troppo si
è parlato; tuttavia sempre insufficientemente/insoddisfacentemente.
Scrittura come soglia del dire, allora. Parola che si
sa mai essere capace di un’esaustività
totale (peraltro oggi inconcepibile); parola che tende
sempre oltre e all’altro da sé. Ma ecco
che nella apparente pienezza del testo, il
dire filosofico (ma anche narrativo) è costretto
“a misurarsi con la propria radicale impotenza”.
Talvolta avviene però che l’oltre/l’altrove/l’altro
assuma la cifra del sacro, del vuoto e del silenzio
(colmato, per i credenti, dalla parola di questo o quel
libro). Di fronte al sacro tuttavia spesso
si erge il “trono”: il potere: sempre più
o meno consciamente sacralizzato nella storia. Potere
che ordina, rassicura, ripara in parte dai pericoli,
ma eminentemente pone/impone i divieti legali/consuetudinari.
Sentendosi gettato nel mondo (vedi Heidegger) e votato
irrimediabilmente alla finitudine, l’uomo da sempre
vive la “disperazione” data dalla “consapevolezza
di un’esistenza ancorata radicalmente al proprio
limite spazio-temporale” (vedi Sartre). Ma in
quest’ottica ogni attimo è pur “carico
di senso” e va vissuto mediante l’inesausto
esercizio della scelta/decisione, che non può
appellarsi – per l’ateo, quantomeno –
a nessun a priori normativo, a nessuna regola esterna,
ad alcuna parola definitiva o ab/soluta: ovvero
sciolta dalla propria contingenza storico culturale.
Di qui l’accentuazione sartriana sul momento (imperativo?)
della perenne trasgressione quale rottura e contrapposizione
rispetto ad un ordine che tenda a controllare/normare
l’azione e la stessa riflessione. Una scelta di
rottura, si diceva, ma al contempo responsabilità
grande di una progettualità perenne che di continuo,
necessariamente, è chiamata a decidere: pur senza
l’illusione di affidarci a stelle fisse che orientino
la nostra parabola esistenziale all’insegna di
un fatale nomadismo.
Responsabilità che finisce per coinvolgere in
qualche misura l’intera umanità, giacché
ogni mia scelta va a modificare sia pure in modo infinitesimale
il mondo. Torna allora il tema della solitudine di una
decisione che dunque finisce per implicare l’altro,
giacché di fronte al singolo, alla monade di
ogni ego, sta l’altro (o la sua assenza). Di più:
io non sono, non posso essere umano senza l’altro;
necessito del rispecchiarmi nel tu, non riesco a cogliere
alcuna verità sul mio conto senza la presenza
o il riconoscimento da parte dell’altro
da me. Ma ecco il limite: rigettata ogni tracotanza
di cogliere una volta per tutte il sé quale “essenza”,
ma consapevoli di essere appena sempre cangiante “esistenza
in atto”, non si dà, ahinoi, possibilità
alcuna di poter mai compiutamente con la parola –
sia quella del logos che quella artistico-poetica
– “riassumere in sé il senso narrabile
della propria esistenza”.
Il rapporto con l’altro non può evitare
altresì di misurarsi con l’inquietudine
di una presenza negativa; perturbante presenza che potremmo
chiamare con una parola dalla forte pregnanza metaforico-allusiva:
il male. Un male che spesso tendiamo a proiettare
all’esterno da noi (scordando come esso faccia
parte intrinseca dell’umana condizione), per quindi
aborrirlo ed espellerlo dal corpo sociale. Il male talvolta
assume così solo il volto trasfigurato ed irriconoscibile
dell’altro: dello straniero, ad esempio, di chi
non appartiene alla nostra terra, lingua, etnia, religione,
cultura, e chi più ne ha ne metta. Così,
paradossalmente, il tentativo di fare piazza pulita
del male (magari attraverso la pulizia etnica),
finisce per tradursi nell’apoteosi del male stesso.
I nazisti, ci ricorda Panattoni, vedevano nell’ebreo
l’incarnazione dell’abominio, ritenendo
giusto dapprima relegare la supposta mala genia
prima in luoghi separati, quindi – coerentemente
alla loro logica aberrante – perseguire il genocidio.
Per ultimo cancellandone persino le tracce; facendo
in modo tale popolo non avesse da esistere più
nemmeno nella memoria (si badi come i Lager ufficialmente
non esistessero).
Altrove, e in antico, persino lo stesso mondo è
stato visto (dagli gnostici) come sede del male. Marcione
infatti riteneva che Cristo volesse salvare l’uomo
da quanto il dio di Israele aveva creato: il mondo materiale
irredimibile, appunto. In quest’ottica ebbra di
purezza/salvezza, il Messia veniva colto quale “principio
di puro dissolvimento”. Da ciò l’invito
ai seguaci dell’eresia marcionista di non procreare
più, non volendo perpetuare l’esistenza
mondana. Del resto, per i cristiani tutti, in un certo
qual senso la storia, a seguito dell’incarnazione/apparizione
di Gesù, porta già in sé le stimmate
della propria “fine”. Così questa
è l’antinomia in cui si dibattono i credenti
nel messaggio evangelico, ovvero “la contraddizione
di un tempo compiuto in un tempo che deve ancora
av-venire”.
La seconda parte del saggio di Panattoni si incentra
tutta intorno ad un ripensamento rispetto ai “presupposti
di fondo appartenenti alla tradizione cristiana”,
rifacendosi all’insegnamento fondamentale di San
Paolo. Ancora una volta scrittura, dunque, ma questa
volta (ritenuta) sacra. Scrittura che rimanda ad una
possibile verità, in nome della quale
fin troppo sangue è stato sparso nel corso dei
secoli e delle guerre religiose. Benché oggi
la tolleranza (e la filosofia antifondamentalista e
antimetafisica del novecento) anche fra i credenti in
dio abbia fortemente indebolito l’idea del reperimento
di una qualche definitiva o unica verità, consentendo
loro di accettare l’idea di una serie di chiamiamole
verità plurime, le quali mantengono tuttavia
un fondo comune dato dalla condivisione di un logos,
di una parola cui affidarsi (quella veicolata dai testi
sacri, che dicono intorno a dio).
Panattoni sottolinea una straordinaria novità
del cristianesimo rispetto al mondo antico, soprattutto
in merito alla non esclusione dell’altro. L’ekklesia:
la comunità cristiana, in effetti, include da
subito nel proprio interno l’ebreo come il greco,
il gentile quanto l’ebreo. Ma non basta. Altrimenti
dagli gnostici, non solo il mondo non è stimato
il male, ma la Chiesa diviene istituzione destinata
a perdurare nel tempo (sia pur nell’attesa escatologica);
istituzione la quale ha il compito di saldare l’un
l’altro i membri della comunità in un cum
universalistico che sconvolge ogni altra peculiare identità.
Dio/Cristo viene così “a incarnare ciò
che rimane in-decidibile all’interno di ogni concetto
di popolo”. Certo, la novella che i seguaci
del Nazareno fanno circolare è forte di una parola
salvifica; promette redenzione ed auspica di convertire
l’umanità tutta all’annuncio evangelico.
Per fare questo l’ekklesia deve istituzionalizzarsi
e durare nel tempo (non desiderare una sua abolizione).
Anche se l’incarnarsi di Gesù è
già apocalisse e la storia si è ormai
realizzata/compiuta. Il tempo per il cristiano, allora,
si fa kariologico, è il tempo dell’attimo
che crea l’opportunità propizia, è
il paradossale qui e ora della parusia del
Cristo. Ancora è, scrive Panattoni, “la
contraddizione di un essere che dona tempo”:
non già tempo del mero permanere, bensì
del compimento, che s’invera nel secolo (la storia)
contraddicendolo.
Non è possibile a questo punto, secondo il Nostro,
evitare un accenno al tema dell’amore per il cristiano;
un amore che se da un lato è cupiditas:
passione per le cose, i corpi e gli ambiti mondani,
dall’altro si fa caritas: tensione protesa
verso quel prossimo da amare come se stessi, che da
un lato comporta un uscire dall’isolamento egoico,
dall’altro un’ammissione della “mancanza
di autosufficienza” del singolo, dell’uomo,
che nell’abbraccio/attenzione verso l’altro
si fa fratello, mondo stesso, abita un’appartenenza
che non ha da scadere mai in mera concupiscenza.
È una forma di con-divisione che non cancella
differenze ma fonda un “essere-insieme-all’altro”
che diviene oblativamente “essere-per-l’altro”.
Questo non comporta un quieto vivere fatto di reciproche
e gratificanti attenzioni. Cristiano è piuttosto
chi sa incamminarsi sull’esempio di Cristo verso
chi è senza dio. È aprirsi al contatto
con l’altro dalla propria fede. È –
ancora una volta – attraversare la solitudine
(Gesù si sente in croce abbandonato da dio-padre),
patire l’abbandono: statuto incolmabile dell’essere
terreni. Così il cristiano ama ciascun
essere umano, giacché ogni uomo – anche
il tuo nemico, il tuo carnefice, il tuo assassino –
è un fratello da amare. Questa tensione, questa
apertura, questa propensione/cura verso l’assolutamente
altro (che rappresenta al contempo il medesimo tuo esserci
come creatura) è, per Panattoni, la santa “follia”
dell’uomo religioso autenticamente cristiano.
Riccardo Panattoni,
Scritture – violenza, potere, libertà,
Ed. Marietti, pp.158, € 13,00
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