In omaggio
a Ryszard Kapuscinski, da poco scomparso, proponiamo
questo scritto, tratto dal catalogo della mostra “Kapuscinski
dall’Africa – Immagini di un reportage”
organizzata a Genova dal Centro Culturale Europeo presso
le sale della Fondazione Carige dal 10 marzo al 7 aprile
2006.
Parlammo di Moby Dick. Anzi del grande narratore di
quell'epopea, il mozzo Ismaele. Che, con addosso una
strana malinconia, si domandava: “Ha senso circumnavigare
la terra? Si torna sempre da dove siamo partiti”.
Gli occhi, dai riflessi dell'acqua alpina, di Ryszard
Kapuscinski guardavano verso la linea dell'orizzonte.
Oltre il mare, diresti. Stavamo camminando, in un giorno
di un tardo autunno di molti anni fa, su una spiaggia
dell'Adriatico. “Non si lasci ingannare - disse
quasi sottovoce - Non creda a chi le dice che bastano
Internet e la televisione per viaggiare. Non dobbiamo
fermarci. Dobbiamo solo cambiare i punti di vista, essere
sempre insoddisfatti: io ho sempre cercato di sfuggire
alle regole dei grandi incontri internazionali. Uscivo
dalle sale della conferenze e andavo a vedere cosa succedeva
nelle cantine o nelle cucine di quei palazzi lussuosi.
Bisogna parlare con i camerieri, con i taxisti, con
la gente dei mercati. Bisogna camminare, riscoprire
la lentezza proprio nel mondo dell'eccesso di informazioni
e della velocità. Ismaele si pone quella domanda
perché, dentro di sé, conosce bene la
risposta: non si fermerà, si terrà i suoi
dubbi e continuerà a viaggiare”.
Strano quel lontano incontro. Oggi, come un vecchio,
penso che sono rimasti in pochi quelli come Kapuscinski.
Tiziano Terzani ci ha lasciato quasi tre anni fa. Chi
è rimasto? Chi rispetta ancora questa legge del
“camminare” per scrivere? Quanti articoli,
anch'io, ho scritto solo spulciando le pagine di Internet?
Quanti direttori ti capiscono quando dici che vuoi “andare
a vedere”? “Sono gli occhi e i piedi il
vero giornalismo - mi spiegò Ryszard, quasi a
consolarmi - I computer rendono più facile il
nostro mestiere, ma sono solo strumenti. Non possono
sostituire né occhi, né piedi. Né
la voglia di essere in un luogo perché lì,
davvero, vuoi essere”. E Kapuscinski, per decenni,
è sempre stato al posto giusto al momento giusto.
Era quello che voleva. Di lui dicevano: “Quando
prenota un biglietto d'aereo sta per scoppiare una rivoluzione”.
Ma nel 1961, quando gli negarono un visto per il Congo,
Ryszard non esitò a mettersi in cammino via terra.
Partì dal Cairo e attraversò mezza Africa.
Era a Stanleyville (oggi Kisangani) quando uccisero
Lumumba.
Incontri quest'uomo e ti sorprendi. “Lo scrittore-reporter
solitario più amato di questi ultimi anni”
è un uomo timido, curioso, appassionato, rigoroso.
Un gentiluomo di altri tempi, diresti. Sorridente e
cordiale. La nostra intervista non fu mai tale: fu un
viaggio durato tre giorni, un lungo racconto di cui
ho ancora nostalgia. Furono passeggiate sulla spiaggia,
chiacchierate in una camera d'albergo, spartane colazioni
al mattino, andirivieni fra le bancarelle di un mercato
a cercare un cappello. Fu, mi illudo, una breve complicità.
Fu un regalo che ha lasciato una traccia dentro di me.
Ogni volta che vado in Africa (non capita più
così spesso) mi chiedo cosa avrebbe fatto Kapuscinski
al mio posto. Non ho risposte, ma so che avrebbe camminato
e allora ci provo ad uscire dai grandi alberghi dove
si rinchiudono i giornalisti e dove le notizie arrivano
via Internet. Vado in giro, spesso senza una meta. Ryszard
ha ragione: le storie in Africa ti avvolgono, basta
uscire, basta afferrare al volo un taxi-brousse e farsi
condurre in un villaggio. Da lì puoi raccontare
quello che accade veramente.
Ma quanti giornali, oggi, sono disposti ad assecondare
questa follia?
Ryszard oggi ha poco più di settant'anni. Ma
possiede ancora la capacità di scuotere coscienze,
di emozionare, di stupire. Perché, come mi disse
con forza, un giornalista “non può essere
un cinico, non può dimenticare la sua umanità”.
Sei un testimone, è vero, ma non hai il cuore
di ghiaccio. Ad Erevan, in Armenia, Ryszard è
assieme alla gente che assiste alla distruzione del
vecchio quartiere della città. I bulldozer sono
impietosi, uomini e donne piangono tenendosi per mano.
Kapuscinski annota: “Sto lì anch'io e piango
con loro”.
Non ho più incontrato Ryszard da allora. Ma
il suo biglietto da visita è ancora appeso dietro
la mia scrivania. Come un contatto amico, un numero
per un'urgenza, come se fosse a portata di mano ogni
volta che hai bisogno di un consiglio, di un aiuto.
E' una sorta di amuleto, un talismano per il buon giornalismo.
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