314 - 02.02.07


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Budapest ’56, la
rivoluzione raccontata

Filippo Conticello


Cinquanta anni fa la popolazione ungherese scese in piazza per una rivoluzione antitotalitaria. Furono 13 giorni di dura insurrezione popolare contro il regime sovietico. Poi arrivarono i carri armati da Mosca e fu il tempo della brutale repressione, ma ciò che accadde in Ungheria in quei giorni fu l’avvio dell’irreversibile processo di implosione dell’ex Unione Sovietica. In Italia la classe politica, presidente Napolitano in testa, ha reso omaggio agli eroi ungheresi e in tutto il Paese non sono mancate numerose iniziative di commemorazione a cinquant’anni di distanza. Convegni, retrospettive, libri, concerti: l’anniversario della rivoluzione ungherese ha permesso di rivisitare sotto luci diverse un episodio cruciale della storia del secolo scorso.
In questo contesto si inserisce l’ultimo lavoro di Enzo Bettiza che rievoca quei giorni tragici e ne ricostruisce gli effetti sui partiti della sinistra italiana. Il suo 1956 Budapest. I giorni della Rivoluzione (Mondadori) è anche una forte denuncia di un certo conformismo ideologico che ha dominato la cultura italiana, soprattutto a sinistra. Sul banco degli imputati Palmiro Togliatti: per Bettiza il segretario del Pci ebbe un ruolo decisivo nel sostenere la necessità dell’invasione e, quindi, il bagno di sangue della popolazione civile. Particolare attenzione ai due maggiori protagonisti della tragedia: Imre Nagy, "antieroe della rivoluzione" che formò un governo di emergenza e decise di schierarsi dalla parte dei rivoltosi, e János Kádár, "uomo d'apparato e d'intrigo" imposto dai russi come capo del governo post-rivoluzionario e responsabile della "normalizzazione". Ma per Bettiza i tredici giorni della rivoluzione “non sconvolsero il mondo”: l’Occidente, interessato solo a tamponare la contemporanea crisi di Suez, rimase indifferente alla tragedia ungherese, consentendo di fatto ai sovietici di scatenare la loro feroce rappresaglia.

La rivoluzione calunniata (Marsilio, Libri di Reset) di Federigo Argentieri, riedizione riveduta e aggiornata di un fortunato testo del 1998, è una attenta analisi dei rapporti tra i partiti comunisti occidentali, soprattutto il Pci e la Rivoluzione ungherese del ‘56. Il libro è un viaggio nella ferita che i fatti di Budapest aprirono sul fronte delle sinistre occidentali e la storia di una menzogna durata molti anni: il tentativo di mercanteggiare la sollevazione ungherese come semplice rivoluzione “fascista”. Attraverso documenti e testimonianze, ad emergere su tutte è ancora una volta la figura di Togliatti: Argentieri si sofferma sul suo comportamento politico, “coerente” nella vicinanza a Mosca, che lo portò ad appoggiare l’intervento armato russo.

Ma i fatti di Ungheria nella loro tragicità finirono per incrinare consolidati rapporti interni alla sinistra italiana. Il fallimento dei “101” (Liberal) di Valentina Meliadò è a tal proposito un’indagine su un episodio importante: il Manifesto dei 101, pronunciamento di intellettuali organici al Pci contro l’appoggio incondizionato dato dal loro partito all’intervento sovietico in Ungheria. È il loro gesto di autonomia intellettuale a essere ricostruito attraverso testimonianze dirette: emergono le passioni e le speranze dei protagonisti di quella scelta coraggiosa, Renzo De Felice, Piero Melograni, Natalino Sapegno, Luciano Cafagna, Antonio Maccanico, Alberto Asor Rosa, Paolo Spriano. Ma quello dei 101 fu un fallimento perché, come scrive Renzo Foa nella prefazione al libro, “la crisi che il Pci attraversò nel 1956 (e che superò abbastanza rapidamente) non ebbe un epilogo socialdemocratico”: poche spinte libertarie, insomma, che non minarono la saldezza granitica del partito. In appendice un'intervista inedita su quella stagione concessa da Lucio Colletti all’autrice poco prima della morte.

La sinistra e quell'indimenticabile 1956 (Lacaita) a cura di Giuseppe Tamburrano è una raccolta di saggi di esponenti socialisti e comunisti d'allora su un anno che cambiò i destini della sinistra italiana e del mondo intero. In evidenza il carteggio tra Pietro Nenni e Palmiro Togliatti: nelle loro parole rivivono i giorni fatidici dell'indimenticabile anno 1956 e, di fronte al dramma dell’invasione sovietica, si fa sempre più evidente il loro distacco e la fine del sogno di una vera unità a sinistra.

Quella fine di ottobre del ‘56 è ancora viva nella memoria del popolo ungherese: le speranze, le emozioni di cinquant'anni fa rivivono nelle pagine di storici e autori magiari tradotti in Italia. È il caso di György Dalos e del suo Ungheria 1956 (Donzelli) con prefazione di Guido Crainz. Il libro è un racconto intenso in cui il ricordo personale si mescola ad un'accurata ricerca storica resa possibile dall'apertura degli archivi. Riemerge il clima di quei giorni e con esso le voci delle persone comuni divenute protagoniste degli eventi. Dalos riesce abilmente ad intrecciare, in un continuo e paradossale cortocircuito, due prospettive diverse, quella dei rivoltosi e quella delle autorità sovietiche.

Altra testimonianza ungherese è quella di Victor Sebestyen, autore di Budapest 1956. La prima rivolta contro l'impero sovietico (Rizzoli). Sebestyen, nato a Budapest a ridosso di quel drammatico 1956 e fuggito all'estero con la propria famiglia dopo la restaurazione sovietica, è editorialista per l'"Evening Standard". Il suo è uno sguardo da giornalista arricchito da preziosi documenti svincolati dal segreto di Stato. Da qui la possibilità di svelare i retroscena di quei dodici giorni di rivolta con piglio da narratore e attenzione alla dimensione umana dei protagonisti: l'ingenuità di Imre Nagy, le crudeltà del primo ministro Rákosi, l’iniziale tentennamento dei vertici del Cremlino, il comportamento di Eisenhower, attento a non minare il fragile equilibrio dei rapporti con Mosca e concentrato sulla propria campagna elettorale per la rielezione.

La recente storiografia sulla rivoluzione ungherese è l’occasione per rivisitare eroismi e storie quasi sconosciute, vicende ignote alla storia ufficiale che tornano d’un colpo a fare notizia. Il caso Bang-Jensen (Baldini Castoldi Dalai) di Andras Nagy, noto scrittore e drammaturgo ungherese, ne è un perfetto esempio. Il libro è il risultato di dieci anni di ricerche di archivio sul ruolo del diplomatico danese Povl Bang-Jensen nell'ambito della commissione Onu costituita per far luce sui massacri di Ungheria. A Bang-Jensen era stato affidato tra l'altro il compito di registrare le testimonianze dei rifugiati ungheresi e di preservarne l'anonimato per evitare rappresaglie. Lavorando per rendere nota alle Nazioni Unite la verità sui crimini perpetrati in Ungheria decise di non accettare compromessi e si rifiutò di rivelare ai propri funzionari corrotti la lista dei testimoni. Da qui il suo licenziamento, la sua delegittimazione e la simulazione del suicidio: il corpo di Bang-Jensen fu trovato in una panchina a Abbey Pond a New York con una finta lettera di perdono per la moglie in mano.

Ma quei drammatici giorni del 1956 non sono solo l’occasione per rievocazioni storiche, ma sono lo spunto per romanzi: in Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello (Edizioni e/o) di Sándor Kopácsi, ripubblicato dopo più di 25 anni (nell'80 il titolo era In nome della classe operaia), la rivolta ungherese diventa un thriller, un romanzo poliziesco nel racconto del capo della polizia durante la rivolta. Sándor Kopácsi è un giovane operaio che durante la Seconda Guerra Mondiale partecipa alla Resistenza comunista contro i tedeschi: con l’arrivo delle truppe sovietiche brucia le tappe della carriera in polizia e a soli trentaduenne anni è già questore di Budapest. Nel 1956 è costretto a fronteggiare la rivoluzione e non arretra di fronte a quello che considera il suo dovere. Ma di fronte all’approssimazione con cui il regime si è preparato all’emergenza (“Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello!” è, appunto, la frase con cui un tenente al comando di 25 uomini spiega di poter disperdere 100mila dimostranti) e alla crisi imminente, Sándor supera disagi e inquietudine. Gradualmente passa dalla parte dei ribelli e resterà al loro fianco, anche dopo l'intervento delle forze armate sovietiche. Arrestato a tradimento, affronterà lo stesso processo di Nagy, ma la sua vita sarà risparmiata da Kadar, l’uomo della “normalizzazione” voluto dai sovietici, per un debito di riconoscenza precedente. Straordinaria vicenda umana e ideologica, documento unico e di grande pathos per comprendere il fermento di quei giorni.

La rivoluzione torna a rivivere anche attraverso le immagini, nella forza di foto rubate agli scontri e al dramma di quei momenti. Budapest 1956 La Rivoluzione (Marietti 1820) è un album illustrato sull’insurrezione ungherese del 1956 con fotografie di Erich Lessing (testi di François Fejto, Gyorgy Konrád e Nicolas Bauquet). In primo piano la violenza di quei giorni, l'eroismo di chi combatté per la libertà e il dramma della popolazione che fu costretta a lasciare l'Ungheria. C’è spazio per i protagonisti della storia ufficiale, ma anche per i volti sofferenti degli attori ignoti. Nel rievocare il passato, Lessing lancia un messaggio di speranza: pur nella loro tragicità, le foto parlano di “un desiderio di vita che trova modo di esprimersi anche nelle circostanze più drammatiche”. Emblematica, in proposito, la foto di due innamorati che passeggiano davanti alla statua di Stalin o quella di una via di Budapest dove si incrociano un passeggino e un carro armato.
Libri e stili diversi, quindi. Modalità di racconto differenti, ma come unico filo conduttore il tentativo di restituire al lettore il senso di quella lotta. A cinquant’anni di distanza il monito di libertà lanciato dal popolo magiaro non sembra essersi disperso: l’insegnamento di 13 giorni di insurrezione popolare e la memoria dei 25mila caduti costituiscono ancora oggi un paradigma da non dimenticare mai.



 

 

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