Cinquanta
anni fa la popolazione ungherese scese in piazza per
una rivoluzione antitotalitaria. Furono 13 giorni di
dura insurrezione popolare contro il regime sovietico.
Poi arrivarono i carri armati da Mosca e fu il tempo
della brutale repressione, ma ciò che accadde
in Ungheria in quei giorni fu l’avvio dell’irreversibile
processo di implosione dell’ex Unione Sovietica.
In Italia la classe politica, presidente Napolitano
in testa, ha reso omaggio agli eroi ungheresi e in tutto
il Paese non sono mancate numerose iniziative di commemorazione
a cinquant’anni di distanza. Convegni, retrospettive,
libri, concerti: l’anniversario della rivoluzione
ungherese ha permesso di rivisitare sotto luci diverse
un episodio cruciale della storia del secolo scorso.
In questo contesto si inserisce l’ultimo lavoro
di Enzo Bettiza che rievoca quei giorni tragici e ne
ricostruisce gli effetti sui partiti della sinistra
italiana. Il suo 1956 Budapest. I giorni della Rivoluzione
(Mondadori) è anche una forte denuncia di
un certo conformismo ideologico che ha dominato la cultura
italiana, soprattutto a sinistra. Sul banco degli imputati
Palmiro Togliatti: per Bettiza il segretario del Pci
ebbe un ruolo decisivo nel sostenere la necessità
dell’invasione e, quindi, il bagno di sangue della
popolazione civile. Particolare attenzione ai due maggiori
protagonisti della tragedia: Imre Nagy, "antieroe
della rivoluzione" che formò un governo
di emergenza e decise di schierarsi dalla parte dei
rivoltosi, e János Kádár, "uomo
d'apparato e d'intrigo" imposto dai russi come
capo del governo post-rivoluzionario e responsabile
della "normalizzazione". Ma per Bettiza i
tredici giorni della rivoluzione “non sconvolsero
il mondo”: l’Occidente, interessato solo
a tamponare la contemporanea crisi di Suez, rimase indifferente
alla tragedia ungherese, consentendo di fatto ai sovietici
di scatenare la loro feroce rappresaglia.
La rivoluzione calunniata (Marsilio, Libri
di Reset) di Federigo Argentieri, riedizione riveduta
e aggiornata di un fortunato testo del 1998, è
una attenta analisi dei rapporti tra i partiti comunisti
occidentali, soprattutto il Pci e la Rivoluzione ungherese
del ‘56. Il libro è un viaggio nella ferita
che i fatti di Budapest aprirono sul fronte delle sinistre
occidentali e la storia di una menzogna durata molti
anni: il tentativo di mercanteggiare la sollevazione
ungherese come semplice rivoluzione “fascista”.
Attraverso documenti e testimonianze, ad emergere su
tutte è ancora una volta la figura di Togliatti:
Argentieri si sofferma sul suo comportamento politico,
“coerente” nella vicinanza a Mosca, che
lo portò ad appoggiare l’intervento armato
russo.
Ma i fatti di Ungheria nella loro tragicità
finirono per incrinare consolidati rapporti interni
alla sinistra italiana. Il fallimento dei “101”
(Liberal) di Valentina Meliadò è
a tal proposito un’indagine su un episodio importante:
il Manifesto dei 101, pronunciamento di intellettuali
organici al Pci contro l’appoggio incondizionato
dato dal loro partito all’intervento sovietico
in Ungheria. È il loro gesto di autonomia intellettuale
a essere ricostruito attraverso testimonianze dirette:
emergono le passioni e le speranze dei protagonisti
di quella scelta coraggiosa, Renzo De Felice, Piero
Melograni, Natalino Sapegno, Luciano Cafagna, Antonio
Maccanico, Alberto Asor Rosa, Paolo Spriano. Ma quello
dei 101 fu un fallimento perché, come scrive
Renzo Foa nella prefazione al libro, “la crisi
che il Pci attraversò nel 1956 (e che superò
abbastanza rapidamente) non ebbe un epilogo socialdemocratico”:
poche spinte libertarie, insomma, che non minarono la
saldezza granitica del partito. In appendice un'intervista
inedita su quella stagione concessa da Lucio Colletti
all’autrice poco prima della morte.
La sinistra e quell'indimenticabile 1956 (Lacaita)
a cura di Giuseppe Tamburrano è una raccolta
di saggi di esponenti socialisti e comunisti d'allora
su un anno che cambiò i destini della sinistra
italiana e del mondo intero. In evidenza il carteggio
tra Pietro Nenni e Palmiro Togliatti: nelle loro parole
rivivono i giorni fatidici dell'indimenticabile anno
1956 e, di fronte al dramma dell’invasione sovietica,
si fa sempre più evidente il loro distacco e
la fine del sogno di una vera unità a sinistra.
Quella fine di ottobre del ‘56 è ancora
viva nella memoria del popolo ungherese: le speranze,
le emozioni di cinquant'anni fa rivivono nelle pagine
di storici e autori magiari tradotti in Italia. È
il caso di György Dalos e del suo Ungheria
1956 (Donzelli) con prefazione di Guido Crainz.
Il libro è un racconto intenso in cui il ricordo
personale si mescola ad un'accurata ricerca storica
resa possibile dall'apertura degli archivi. Riemerge
il clima di quei giorni e con esso le voci delle persone
comuni divenute protagoniste degli eventi. Dalos riesce
abilmente ad intrecciare, in un continuo e paradossale
cortocircuito, due prospettive diverse, quella dei rivoltosi
e quella delle autorità sovietiche.
Altra testimonianza ungherese è quella di Victor
Sebestyen, autore di Budapest 1956. La prima rivolta
contro l'impero sovietico (Rizzoli). Sebestyen,
nato a Budapest a ridosso di quel drammatico 1956 e
fuggito all'estero con la propria famiglia dopo la restaurazione
sovietica, è editorialista per l'"Evening
Standard". Il suo è uno sguardo da giornalista
arricchito da preziosi documenti svincolati dal segreto
di Stato. Da qui la possibilità di svelare i
retroscena di quei dodici giorni di rivolta con piglio
da narratore e attenzione alla dimensione umana dei
protagonisti: l'ingenuità di Imre Nagy, le crudeltà
del primo ministro Rákosi, l’iniziale tentennamento
dei vertici del Cremlino, il comportamento di Eisenhower,
attento a non minare il fragile equilibrio dei rapporti
con Mosca e concentrato sulla propria campagna elettorale
per la rielezione.
La recente storiografia sulla rivoluzione ungherese
è l’occasione per rivisitare eroismi e
storie quasi sconosciute, vicende ignote alla storia
ufficiale che tornano d’un colpo a fare notizia.
Il caso Bang-Jensen (Baldini Castoldi Dalai) di
Andras Nagy, noto scrittore e drammaturgo ungherese,
ne è un perfetto esempio. Il libro è il
risultato di dieci anni di ricerche di archivio sul
ruolo del diplomatico danese Povl Bang-Jensen nell'ambito
della commissione Onu costituita per far luce sui massacri
di Ungheria. A Bang-Jensen era stato affidato tra l'altro
il compito di registrare le testimonianze dei rifugiati
ungheresi e di preservarne l'anonimato per evitare rappresaglie.
Lavorando per rendere nota alle Nazioni Unite la verità
sui crimini perpetrati in Ungheria decise di non accettare
compromessi e si rifiutò di rivelare ai propri
funzionari corrotti la lista dei testimoni. Da qui il
suo licenziamento, la sua delegittimazione e la simulazione
del suicidio: il corpo di Bang-Jensen fu trovato in
una panchina a Abbey Pond a New York con una finta lettera
di perdono per la moglie in mano.
Ma quei drammatici giorni del 1956 non sono solo l’occasione
per rievocazioni storiche, ma sono lo spunto per romanzi:
in Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello (Edizioni
e/o) di Sándor Kopácsi, ripubblicato dopo
più di 25 anni (nell'80 il titolo era In
nome della classe operaia), la rivolta ungherese
diventa un thriller, un romanzo poliziesco nel racconto
del capo della polizia durante la rivolta. Sándor
Kopácsi è un giovane operaio che durante
la Seconda Guerra Mondiale partecipa alla Resistenza
comunista contro i tedeschi: con l’arrivo delle
truppe sovietiche brucia le tappe della carriera in
polizia e a soli trentaduenne anni è già
questore di Budapest. Nel 1956 è costretto a
fronteggiare la rivoluzione e non arretra di fronte
a quello che considera il suo dovere. Ma di fronte all’approssimazione
con cui il regime si è preparato all’emergenza
(“Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello!”
è, appunto, la frase con cui un tenente al comando
di 25 uomini spiega di poter disperdere 100mila dimostranti)
e alla crisi imminente, Sándor supera disagi
e inquietudine. Gradualmente passa dalla parte dei ribelli
e resterà al loro fianco, anche dopo l'intervento
delle forze armate sovietiche. Arrestato a tradimento,
affronterà lo stesso processo di Nagy, ma la
sua vita sarà risparmiata da Kadar, l’uomo
della “normalizzazione” voluto dai sovietici,
per un debito di riconoscenza precedente. Straordinaria
vicenda umana e ideologica, documento unico e di grande
pathos per comprendere il fermento di quei giorni.
La rivoluzione torna a rivivere anche attraverso le
immagini, nella forza di foto rubate agli scontri e
al dramma di quei momenti. Budapest 1956 La Rivoluzione
(Marietti 1820) è un album illustrato sull’insurrezione
ungherese del 1956 con fotografie di Erich Lessing (testi
di François Fejto, Gyorgy Konrád e Nicolas
Bauquet). In primo piano la violenza di quei giorni,
l'eroismo di chi combatté per la libertà
e il dramma della popolazione che fu costretta a lasciare
l'Ungheria. C’è spazio per i protagonisti
della storia ufficiale, ma anche per i volti sofferenti
degli attori ignoti. Nel rievocare il passato, Lessing
lancia un messaggio di speranza: pur nella loro tragicità,
le foto parlano di “un desiderio di vita che trova
modo di esprimersi anche nelle circostanze più
drammatiche”. Emblematica, in proposito, la foto
di due innamorati che passeggiano davanti alla statua
di Stalin o quella di una via di Budapest dove si incrociano
un passeggino e un carro armato.
Libri e stili diversi, quindi. Modalità di racconto
differenti, ma come unico filo conduttore il tentativo
di restituire al lettore il senso di quella lotta. A
cinquant’anni di distanza il monito di libertà
lanciato dal popolo magiaro non sembra essersi disperso:
l’insegnamento di 13 giorni di insurrezione popolare
e la memoria dei 25mila caduti costituiscono ancora
oggi un paradigma da non dimenticare mai.
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