Le mani della
censura della Repubblica Popolare Cinese abitualmente
intervengono in fase di sceneggiatura, durante le riprese
e in postproduzione. Così La guerra dei fiori
rossi è giunto nelle sale di Oriente e di
Occidente, decisamente alleggerito nelle scene, ma soprattutto
nel racconto, tanto che lascia stupefatti per quel suo
dire definitivamente, senza mostrare fino in fondo.
Il regista Zhang Yuan ha scelto la leggerezza per raccontate
un romanzo sull’infanzia fortemente autobiografico
di Wang Shuo, scrittore non aderente al regime. Una
scelta forzata che è anche una qualità
rara perché questa leggerezza, voluta soprattutto
per poter apparire nelle sale cinesi, permette al regista
di poter raccontare in penombra, quando non in ellissi,
una verità, senza ricorrere ad alcuna oscura
metafora.
Quiang è un bambino di quattro anni; non sappiamo
nulla di lui se non che un giorno di inverno, tra grandi
lacrime e fiocchi di neve, viene affidato dai genitori
alle cure di un asilo d’infanzia. Siamo all’alba
della Rivoluzione. Questo asilo fa paura a Quiang come
a tutti deve far paura ogni struttura totalizzante,
regolata secondo orari precisi, meticolosi schemi di
ordine e tempi di libertà determinati. E’
la prima vittoria della programmazione sociale sull’infanzia.
Ogni piccolo ospite dell’asilo, ogni giorno, ha
la possibilità di vincere cinque fiori di carta
rossa, leggera come quella delle lanterne, premio per
il bambino migliore, futuro cittadino perfetto. Chi
ha meritato il massimo numero di fiori acquisisce il
diritto di essere capoclasse. Le prove sono semplici:
ubbidienza cieca, pipì e cacca al cronometro,
sapersi vestire al mattino e spogliare alla sera. Quiang,
che ci pare certamente un bambino non particolarmente
sveglio o educato, non capisce l’ordine, anzi
lo detesta. In risposta alla repressione, durante la
notte sogna di camminare nella neve e poter finalmente
fare la pipì in libertà sul selciato.
Ogni mattino si risveglia con il materasso bagnato e
ad attenderlo c’è il castigo brutale della
maestra Li. Così i sogni si arricchiscono di
nuove avventure e vengono in aiuto per spiegare i modi
bruschi dell’educatrice. La maestra Li in verità
è un terribile mostro che mangia i bambini. Convinto
della sua verità Quiang diffonde il racconto
per tutto l’asilo. La scoperta della vera identità
della maestra pare talmente credibile che passa di bocca
in bocca e scuote dal torpore persino i bambini più
ubbidienti, scatenando un’imprevedibile reazione,
tradotta dal regista in una delle sequenze più
felici e commoventi del film.
Chi sa se la rivoluzione è un giuoco o una cosa
seria e se la rivoluzione si può davvero fare
a quattro anni. C’è da chiederselo vedendo
le immagini di questa pellicola prodotta anche dal nostro
paese grazie all’intervento di Marco Müller,
un’opera realizzata sul solco di un cinema spettacolare,
ma non autocompiaciuto. Zhang Yuan si è fatto
maestro del cinema di disobbedienza in forma acuta e
leggera e maestro dei piccoli attori. Ne ha “governati”
magistralmente 135 per quattro mesi di riprese, un piccolo
popolo. “Peggio di un musical di Minnelli”
suggerisce Marco Müller, lasciando immaginare il
clima delle riprese, e spiega il comportamento sovversivo
del piccolo Quiang come una difesa dello stato di natura
contro lo stato di civiltà imposto. Infatti il
film non vuole rappresentare la lotta di un bambino
capriccioso qualsiasi o la formazione di un dissidente
in erba, ma il germoglio di ogni possibile resistenza
e, se si vuole, la ribellione testardamente anarchica
dell’infanzia.
Nelle sequenze del film non c’è alcun
riferimento alla storia della Cina dell’ultimo
secolo eppure emerge chiara, nelle metafore così
fuori di metafora, la rappresentazione di uno stato
di cose. Le forbici che tagliano il codino a Quiang,
vistose e temibili in una delle prime inquadrature,
insieme ai pidocchi, prevengono la libertà della
cultura. Ogni censura è chiamata in causa, prima
tra tutte quella che si è abbattuta sul film
e quella che si abbatte sulla libertà di espressione
in Cina ogni giorno. Quei piccoli e apparentemente innocui
fiori rossi saranno poi le grandi coccarde delle manifestazioni
di regime. E ancora, i bambini contro i bambini, nei
giochi delle pistole, cadono morti sul selciato di un
cortile e, mentre la cinepresa indugia sui corpi abbandonati
sulla strada, ci si chiede quanti anni sia lontana piazza
Tian’anmen, se non nel racconto, almeno nella
nostra memoria. “La durata dei vostri millenni
/ non è stata, in realtà, che un voletto
delle nostre altalene” risponde dal 1968 Elsa
Morante in un mondo ancora salvato dai ragazzini, “la
mia pipì tiene lontano i mostri” dice Quiang
e quando non piange a dirotto, ride per lo sberleffo
all’autorità. Ma in una realtà probabile
il prezzo da pagare per questo nostro piccolo anarchico
pisciasotto è straordinariamente alto.
La guerra dei fiori rossi
Regia: Zhang Yuan
Interpreti: Dong Bowen, Ning Yuanyuan, Chen Manyuan,
Zhao Rui, Li Xiaofeng
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