Chiedere
a Sandro Veronesi cosa pensa dell’Europa di oggi
e di quella che ci attende nel 2007 significa vedersi
sbattere in faccia quelle due stesse emozioni che, mescolate
fino ad essere indistinguibili, ogni lettore ritrova
in tutti i suoi romanzi: la disillusione e la speranza.
Tanto che potrebbe benissimo essere la frase di apertura
(e di chiusura) di ogni Consiglio europeo quella splendida
citazione di Samuel Beckett che Veronesi inserisce all’inizio
dei suoi libri: “Non posso continuare. Continuerò”.
Così succede anche in questa intervista, in cui
il Premio Strega 2006 (con Caos Calmo, libro
edito da Bompiani e dal quale in primavera verrà
tratto un film con Nanni Moretti) parla con entusiasmo
di un’Europa che ha abolito la pena di morte,
poi porta il discorso su quella che è l’altra
faccia dell’Europa (l’America), e infine
spiega che il passato è uno spettro, “e
non conta proprio niente”.
Sudan, Taiwan, Urss e California. Non a caso
il viaggio intorno alla pena di morte, al centro del
suo ultimo libro Occhio per occhio (Bompiani),
non fa tappa in Europa, che nel trattato costituzionale
ha scritto: “Nessuno può essere condannato
alla pena di morte, né giustiziato”. È
il segno, più in generale, di una moralità
peculiare dell’Europa, di un rispetto per i diritti
dell’uomo che non si ritrova oggi nelle altre
parti del mondo?
Ormai l’Europa, con pochissime eccezioni, è
costituita da democrazie compiute, cioè è
governata da quei principi che nel XIX secolo erano
pura utopia. È fin troppo evidente che quei principi
sono incompatibili con quello arcaico e rozzo che per
millenni ha giustificato la pena capitale, perciò
la scomparsa del patibolo in Europa è da considerarsi
un evento ineluttabile legato alla storia. La contraddizione
palese e imbarazzante vissuta su questo argomento dagli
Usa è sintomatica: non fossero i padroni del
mondo, si sentirebbero porre dall’Europa la stessa
condizione posta alla Turchia, cioè di abolire
la pena di morte per poter avere pieno appoggio e piena
collaborazione commerciale. Siccome sono i padroni del
mondo, se ne vanno a testa alta con quella merda spiaccicata
sopra, e nessuno può dirgli niente.
Come europeo, lei sente di vivere in un continente
in decadenza, che presto dovrà abbandonare i
suoi standard, o in un continente in piena salute, che
dovrebbe andare più fiero della propria identità?
Entrambe le cose. Che l’Europa (ma anche l’America)
debba ridurre i propri standard di consumo è
indubbio – ed è possibile farlo, anche
drasticamente, senza ridurre nella sostanza lo standard
di vita. Però è anche vero che in molte
cose l’Europa sarebbe più avanti di tutti,
nel mondo - basti pensare alla riduzione, anzi alla
quasi scomparsa, di guerre sul suo territorio.
Lei cita spesso come suoi maestri letterari
(oltre a Pier Paolo Pasolini) personaggi come Pynchon,
Salinger, Vargas Llosa…tanti americani e sudamericani.
È solo un caso che non sia troppo attratto dalla
letteratura europea contemporanea? Trova che, per il
suo gusto, ad essa manchi qualcosa?
Io sono soprattutto un narratore, e la mia (a quanto
pare nota) inclinazione per la letteratura americana
o latinoamericana deriva dal primato, credo indiscutibile,
di quella letteratura narrativa su tutte le altre. Allargando
il campo a tutta la letteratura, questo primato non
esiste più, ma sulla narrativa c’è
ormai da più di mezzo secolo: è dal primo
dopoguerra che nella narrativa di finzione gli americani
stanno tirando la carretta.
Fermiamoci un attimo su Thomas Pynchon. Perché
gli americani sanno raccontare in maniera così
naturale intrecci di luoghi e persone (penso anche a
Don De Lillo, e a film come America Oggi,
Magnolia, Crash, Babel) e gli
europei no (forse un’eccezione è Camere
Separate di Vittorio Tondelli)? La letteratura
e il cinema europei sono ancora nazionalistici?
Se parliamo di Stati Uniti, io comincerei col tenere
ben separata la letteratura dal cinema, per via del
molto diverso peso industriale che hanno. Dopodiché
c’è da dire che in America c’è
quasi sempre un protagonista fisso e inesauribile di
ogni narrazione e cioè: l’America. Non
è un vantaggio da poco essere così autoreferenziali:
conferisce al talento narrativo una velocità
e un’incisione molto superiori. Nessun saggista
americano può ignorare l’esistenza dell’Europa
come fanno i grandi narratori americani. Credo sia per
questo che la narrativa, là, è così
naturale: raccontano tutti la stessa cosa, in mille
modi diversi.
Quanto conta la “forza del passato”
in Europa? È una forza buona o cattiva? Dice
Thomas L. Friedman, commentatore del "New York
Times" e autore di The World is Flat,
a proposito dei paesi arabi: “Beati i paesi che
guardano più al proprio futuro che al proprio
passato”.
Se conta troppo, o anche soltanto molto, io non me
ne sono accorto. Già nel ‘62, quando Pasolini
scriveva la sua poesia, definendo se stesso, appunto,
“una forza del passato”, diceva anche “E
io, feto adulto, mi aggiro/più moderno di ogni
moderno/a cercare fratelli/che non sono più”.
E nei successivi quarant’anni non è che
sia cambiato nulla, anzi: ha preso forma e si è
diffuso ciò che Pasolini, in anticipo, aveva
percepito. Il passato è soltanto uno spettro,
e non conta proprio niente.
Alla presentazione del suo ultimo libro, a
Roma, ha ricordato una bellissima frase di un Tony Blair
d’annata, sulle due sedie che ogni governo dovrebbe
lasciare libere all’inizio di ogni riunione, una
per i nostri figli e una per i figli dei nostri figli.
L’Europa e l’Italia le stanno lasciando
libere quelle sedie, o le hanno abbandonate nel ripostiglio?
Viene da rispondere con una battuta che sa di qualunquismo,
ma non è infondata: si sono spartiti anche quelle
due sedie.
Che regalo vorrebbe che le (e ci) facesse l’Ue
per il 2007?
Nessuno ci regala nulla, mai. Inutile perdere tempo
a sognarlo.
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