313 - 19.01.07


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"Non è proprio tempo di regali"

Sandro Veronesi con
Daniele Castellani Perelli


Chiedere a Sandro Veronesi cosa pensa dell’Europa di oggi e di quella che ci attende nel 2007 significa vedersi sbattere in faccia quelle due stesse emozioni che, mescolate fino ad essere indistinguibili, ogni lettore ritrova in tutti i suoi romanzi: la disillusione e la speranza. Tanto che potrebbe benissimo essere la frase di apertura (e di chiusura) di ogni Consiglio europeo quella splendida citazione di Samuel Beckett che Veronesi inserisce all’inizio dei suoi libri: “Non posso continuare. Continuerò”. Così succede anche in questa intervista, in cui il Premio Strega 2006 (con Caos Calmo, libro edito da Bompiani e dal quale in primavera verrà tratto un film con Nanni Moretti) parla con entusiasmo di un’Europa che ha abolito la pena di morte, poi porta il discorso su quella che è l’altra faccia dell’Europa (l’America), e infine spiega che il passato è uno spettro, “e non conta proprio niente”.

Sudan, Taiwan, Urss e California. Non a caso il viaggio intorno alla pena di morte, al centro del suo ultimo libro Occhio per occhio (Bompiani), non fa tappa in Europa, che nel trattato costituzionale ha scritto: “Nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato”. È il segno, più in generale, di una moralità peculiare dell’Europa, di un rispetto per i diritti dell’uomo che non si ritrova oggi nelle altre parti del mondo?

Ormai l’Europa, con pochissime eccezioni, è costituita da democrazie compiute, cioè è governata da quei principi che nel XIX secolo erano pura utopia. È fin troppo evidente che quei principi sono incompatibili con quello arcaico e rozzo che per millenni ha giustificato la pena capitale, perciò la scomparsa del patibolo in Europa è da considerarsi un evento ineluttabile legato alla storia. La contraddizione palese e imbarazzante vissuta su questo argomento dagli Usa è sintomatica: non fossero i padroni del mondo, si sentirebbero porre dall’Europa la stessa condizione posta alla Turchia, cioè di abolire la pena di morte per poter avere pieno appoggio e piena collaborazione commerciale. Siccome sono i padroni del mondo, se ne vanno a testa alta con quella merda spiaccicata sopra, e nessuno può dirgli niente.

Come europeo, lei sente di vivere in un continente in decadenza, che presto dovrà abbandonare i suoi standard, o in un continente in piena salute, che dovrebbe andare più fiero della propria identità?

Entrambe le cose. Che l’Europa (ma anche l’America) debba ridurre i propri standard di consumo è indubbio – ed è possibile farlo, anche drasticamente, senza ridurre nella sostanza lo standard di vita. Però è anche vero che in molte cose l’Europa sarebbe più avanti di tutti, nel mondo - basti pensare alla riduzione, anzi alla quasi scomparsa, di guerre sul suo territorio.

Lei cita spesso come suoi maestri letterari (oltre a Pier Paolo Pasolini) personaggi come Pynchon, Salinger, Vargas Llosa…tanti americani e sudamericani. È solo un caso che non sia troppo attratto dalla letteratura europea contemporanea? Trova che, per il suo gusto, ad essa manchi qualcosa?

Io sono soprattutto un narratore, e la mia (a quanto pare nota) inclinazione per la letteratura americana o latinoamericana deriva dal primato, credo indiscutibile, di quella letteratura narrativa su tutte le altre. Allargando il campo a tutta la letteratura, questo primato non esiste più, ma sulla narrativa c’è ormai da più di mezzo secolo: è dal primo dopoguerra che nella narrativa di finzione gli americani stanno tirando la carretta.

Fermiamoci un attimo su Thomas Pynchon. Perché gli americani sanno raccontare in maniera così naturale intrecci di luoghi e persone (penso anche a Don De Lillo, e a film come America Oggi, Magnolia, Crash, Babel) e gli europei no (forse un’eccezione è Camere Separate di Vittorio Tondelli)? La letteratura e il cinema europei sono ancora nazionalistici?

Se parliamo di Stati Uniti, io comincerei col tenere ben separata la letteratura dal cinema, per via del molto diverso peso industriale che hanno. Dopodiché c’è da dire che in America c’è quasi sempre un protagonista fisso e inesauribile di ogni narrazione e cioè: l’America. Non è un vantaggio da poco essere così autoreferenziali: conferisce al talento narrativo una velocità e un’incisione molto superiori. Nessun saggista americano può ignorare l’esistenza dell’Europa come fanno i grandi narratori americani. Credo sia per questo che la narrativa, là, è così naturale: raccontano tutti la stessa cosa, in mille modi diversi.

Quanto conta la “forza del passato” in Europa? È una forza buona o cattiva? Dice Thomas L. Friedman, commentatore del "New York Times" e autore di The World is Flat, a proposito dei paesi arabi: “Beati i paesi che guardano più al proprio futuro che al proprio passato”.

Se conta troppo, o anche soltanto molto, io non me ne sono accorto. Già nel ‘62, quando Pasolini scriveva la sua poesia, definendo se stesso, appunto, “una forza del passato”, diceva anche “E io, feto adulto, mi aggiro/più moderno di ogni moderno/a cercare fratelli/che non sono più”. E nei successivi quarant’anni non è che sia cambiato nulla, anzi: ha preso forma e si è diffuso ciò che Pasolini, in anticipo, aveva percepito. Il passato è soltanto uno spettro, e non conta proprio niente.

Alla presentazione del suo ultimo libro, a Roma, ha ricordato una bellissima frase di un Tony Blair d’annata, sulle due sedie che ogni governo dovrebbe lasciare libere all’inizio di ogni riunione, una per i nostri figli e una per i figli dei nostri figli. L’Europa e l’Italia le stanno lasciando libere quelle sedie, o le hanno abbandonate nel ripostiglio?

Viene da rispondere con una battuta che sa di qualunquismo, ma non è infondata: si sono spartiti anche quelle due sedie.

Che regalo vorrebbe che le (e ci) facesse l’Ue per il 2007?

Nessuno ci regala nulla, mai. Inutile perdere tempo a sognarlo.


 

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