Schiacciato
(se non oppresso) dall’anniversario mozartiano,
che ha monopolizzato i cartelloni e le stagioni di mezza
Europa, il centenario della nascita di Dimitrij Shostakovich
(1906 – 1975) rischia di passare quasi sotto silenzio.
Spigolando qua e là nei cartelloni italiani qualcosa
si può trovare: a Roma l’Accademia di Santa
Cecilia ha organizzato un Omaggio a Shostakovich
dal 18 al 27 novembre, affidato quasi interamente al
direttore Valery Gergiev, che propone alcune delle più
importanti Sinfonie oltre ad una giornata interamente
dedicata al compositore con proiezioni video; a Torino
il Regio ha proposto l’opera Il naso,
che verrà ripresa il 29 e 30 novembre alla Filarmonica
di Roma; le più note sinfonie sono sparse anche
nella stagione della Fenice di Venezia; niente di significativo
invece alla Scala di Milano e al San Carlo di Napoli.
Compositore di eccezionale spessore artistico, aiutato
e afflitto da un controverso rapporto con il potere,
Shostakovich ha abbracciato quasi interamente la parabola
dell’avventura sovietica, misurandone limiti e
grandezze e pagando in prima persona l’appartenenza
al proprio credo artistico a rischio di purghe ed ostracismi.
Ne abbiamo parlato con Oreste Bossini, voce di Radio
Tre e musicologo.
Musica e potere: un binomio assillante nella
biografia di Shostakovich. Possiamo definire quali furono
i rapporti tra il musicista e l’establishment
sovietico?
Per motivi biografici Shostakovich ha attraversato
tutte le fasi dell’avventura sovietica. Poco più
che bambino nel 1917, anno di inizio della Rivoluzione
russa, si ritrovò adolescente e poi giovane uomo
nel periodo di assestamento del regime sovietico, vivendo
l’ascesa di Stalin, l’organizzazione del
nuovo stato, la seconda guerra mondiale, il voltafaccia
nazista all’indomani del patto Molotov-Ribbentropp
e affrontando infine, nella sua maturità di uomo
e di artista, tutti i problemi del dopoguerra, particolarmente
segnato in Urss dal rapporto conflittuale con l’occidente.
I suoi settant’anni di vita in pratica coincidono
con la vita dell’Unione Sovietica e ne riflettono
umori e disagi, successi e sconfitte; di conseguenza
temo sia difficile sintetizzare in un’unica posizione
il rapporto tra il musicista e il potere politico, in
altri termini stabilire se Shostakovich fosse pro o
contro il regime sovietico. Direi piuttosto che la sua
posizione mostra quell’ambiguità tristemente
connaturata al rapporto arte/potere nei regimi totalitari,
dove l’arte viene considerata cinghia di trasmissione
tra dirigenti e popolo, meccanismo utilizzato fondamentalmente
per creare consenso e gli artisti che non si adeguano
a questa prospettiva, quanto meno formalmente, hanno
la vita dura.
Potremmo rapidamente ricordare alcuni elementi della
biografia del musicista che possono essere utili ad
un’interpretazione della questione. L’amicizia
con Stalin, ad esempio, gli fu preziosa in molti casi:
ci sono lettere in cui sono testimoniate una certa familiarità
tra i due e richieste di favori per protetti del musicista,
magari incappati nelle pesanti maglie della repressione.
Oppure i numerosi privilegi economici, case e premi
in denaro (tra il 1941 e il 1947 ottenne ben tre premi
Stalin per un totale di 250.000 rubli quando il salario
medio era di 400/500 rubli) nella Russia degli alloggi
requisiti e dei salari da fame. Anche Kruscev dimostrò
di considerarlo allineato al regime quando lo volle
come ambasciatore della musica sovietica in Occidente
negli anni Sessanta, scegliendolo per un viaggio di
rappresentanza negli Stati Uniti. Non mancarono però
pesanti ombre: Stalin in persona nel 1936 criticò
drasticamente la sua Lady Macbeth, opera lirica
considerata scandalosa e poco sovietica e alcune sue
opere sinfoniche subirono un vero e proprio boicottaggio,
rimanendo ineseguite per molto tempo nonostante il successo
di pubblico.
Possiamo ricostruire all’interno dell’opera
shostakoviana le tappe più significative di questo
accidentato itinerario arte/potere?
Salutato al suo esordio come un compositore che incarnava
i valori sovietici, Shostakovich a soli vent’anni
aveva la strada spianata.
Il primo momento di criticità ci fu nel 1936,
alla prima di Una Lady Macbeth del distretto di
Mcensk. In un clima politico particolare, quando
venti di guerra spiravano sull’Europa, l’opera
fu accusata di formalismo e la Pravda la stroncò
con il famoso articolo intitolato “Caos anziché
musica” che alle orecchie di Shostakovich suonò
come un pesante avvertimento. Troppa modernità
nel linguaggio musicale in un momento di forte ritorno
all’ordine, temi scabrosi (la vicenda è
imperniata su una donna prigioniera di un matrimonio,
che pur salvandola dalla miseria la spinge nella disperazione
della noia e dell’infelicità coniugale
e la conduce a omicidi plurimi, n.d.r.), addirittura
una scena di sesso sul palcoscenico in cui i glissando
dei tromboni risultano inequivocabilmente allusivi:
era davvero troppo per la retorica stalinista e l’opera
fu interdetta dai teatri fino al 1963.
Un secondo momento di crisi e di sorpresa in tutto
il mondo intellettuale si ebbe nel 1961, quando il musicista
prese la tessera del Partito spinto da Kruscev, che
ne aveva bisogno come ambasciatore intellettuale per
l’Occidente. In Europa e negli Stati Uniti il
compositore era visto in quegli anni quasi come un dissidente
e questa sua adesione al comunismo, sebbene tardiva,
creò un comprensibile sconcerto nell’opinione
pubblica.
Altrettanto sconcerto, sia pure di segno inverso, si
ebbe nel 1962 quando venne eseguita la Tredicesima Sinfonia
“Babij Jar” su testi del poeta
Evtusenko. Si trattava di versi che ricordavano il massacro
degli ebrei compiuto a Kiev dai nazisti durante la seconda
guerra mondiale e si inseriva in un più ampio
interesse del compositore per la cultura yddish. In
quegli anni però l’antisemitismo era piuttosto
diffuso in Urss ed era diventato una specie di bersaglio
secondario per colpire una certa fascia di intellettuali
poco allineati, molti dei quali erano ebrei. Erano anni
in cui c’era poco da scherzare: semplici pretesti
bastavano a scatenare feroci “purghe”. La
Babij Jar fu dunque letta come un atto poco nazionalistico
e fu sistematicamente boicottata sin dalla sua prima
esecuzione; ebbe comunque un grande successo di pubblico,
come del resto tutte le opere di Shostakovich.
Cinema e jazz: possiamo dire che hanno cambiato
il modo di fare musica e di fruire il tempo libero nel
Novecento. Quanto e come ne è stato influenzato
Shostakovich?
Il cinema all’inizio fu per Shostakovich un banale
e rapido modo per far soldi: negli anni difficili che
seguirono la morte del padre, per sbarcare il lunario
e aiutare la famiglia, accompagnava al pianoforte le
pellicole mute. Era un lavoro sfiancante; improvvisare
per ore in ambienti fumosi e malsani, nel chiasso del
pubblico spesso piuttosto popolare, seguendo la trama
del film, gli toglieva quelle energie mentali che avrebbe
voluto impiegare per comporre e studiare. Fu un lavoro
che abbandonò non appena possibile anche se in
seguito gli riconoscerà qualche merito. Nell’arco
della sua carriera Shostakovich collaborò poi
con numerosi importanti registi, tra cui Grigorij Kozincev,
per il quale scrisse le musiche per il film Amleto e
per molti altri capolavori.
Col jazz il nostro ebbe invece meno a che fare; oltre
all’operetta Mosca, quartiere Cerëmuški
in cui esplora il linguaggio del musical e alle
Suite per orchestra jazz n. 1 e n. 2, composte
nella seconda metà degli anni Trenta, non ci
sono altri elementi che testimoniano un interesse specifico
per questo genere di musica.
Per concludere, vogliamo fare un bilancio delle
celebrazioni di questo centenario per quanto riguarda
il panorama italiano?
Intanto vorrei premettere che le celebrazioni come
i centenari sono spesso una manifestazione di debolezza
della musica: celebrare e ricelebrare gli stessi mostri
sacri è anche un modo per non dare spazio al
nuovo.
Al di là di questo direi che non si è
fatto molto; mi sarebbe piaciuto poter avere esecuzioni
integrali delle Sinfonie e dei Quartetti, nuovi allestimenti
almeno per le opere maggiori, pubblicazioni musicologiche
specifiche. I grandi luoghi della musica in Italia non
hanno dato molto spazio a questo autore, a eccezione
di Santa Cecilia con l’Omaggio a Shostakovich
mentre sul fronte editoriale tutto tacerebbe se
non fosse per l’edizione delle lettere a cura
di Elisabeth Wilson, pubblicate da Il Saggiatore, che
costituisce al momento la più ampia raccolta
disponibile al pubblico. Temo che ancora una volta il
nostro compositore abbia scontato i pregiudizi che hanno
accompagnato tanta parte della sua opera. Non dimentichiamo
infatti che in vita Shostakovich è stato letteralmente
massacrato da gran parte dell’avanguardia solo
perché adoperava il linguaggio tonale, ritenuto
a torto obsoleto. Forse, almeno da morto, avrebbe meritato
un po’ di più…
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|