Erri
De Luca,
In nome della madre,
Feltrinelli, pp.88, € 7,5
L’ultimo breve ma assai intenso testo narrativo
di Erri De Luca fa parlare in prima persona la “ragazza
madre” per antonomasia della tradizione religiosa
occidentale: quella Miriàm che, prima di sposarsi
col fidanzato Iosef, rimase incinta di un figlio, da
lei chiamato poi Ieshu. Sì, intendo proprio riferirmi
alla Madonna, per usare un appellativo caro alla sensibilità
religiosa cristiana; nella fattispecie al mondo cattolico.
I vangeli di Matteo e di Luca parlano di una vergine
che a Nazaret, grazie ad un intervento divino, concepisce
il futuro Messia senza mai aver avuto rapporti né
col suo uomo né con alcun altro. Si tratterebbe
di evento miracoloso, dunque, quantomeno per chi crede
ad esso. Ma non è già una sorta di miracolo
lo stesso evento ordinario della gravidanza? Cioè
il fatto che faccia la sua comparsa nel teatro del mondo
un essere prima inesistente; Non è insomma prodigioso
il fenomeno naturale in grado di consentire che possa
“venire alla luce” (come eufemisticamente
in antico era detto il nascere) una nuova vita?
Nel libretto di De Luca, comunque, il miracolo è
dato per scontato, nel senso che Miriàm/Maria
parla con la voce della fede di chi si situa già
all’interno del paradigma dogmatico cristiano.
L’annuncio angelico fa appena parte del prologo
di questa storia, che inizia col mal di pancia del giovane
Iosef/Giuseppe non appena viene a sapere come la sua
promessa sposa aspetti un bambino di cui egli non è
il padre.
Una storia umanissima nella quale vediamo un bravo ragazzo,
sconvolto da un evento più grande di lui, alle
prese in primo luogo con la spinosa faccenda di proteggere
la reputazione della futura mamma, che rischiava di
grosso a quei tempi, severissimi per quanto concerneva
i rapporti prematrimoniali. Iosef vorrebbe inventare
un’attenuante, convincere Miriàm a mentire
dicendo agli anziani di essere stata violentata, ma
lei non vuole: non gli importa né lo scandalo
né gli insulti della gente. Il figlio che le
cresce in grembo (sarà senz’altro un maschio,
la ragazza ne è certa) le dà una forza
e una serenità inaudite; tanto da contagiare
il compagno a comportarsi come vuole/crede lei.
Così i due, a testa alta, fanno fronte alle difficoltà:
si sposano e lui mette su una botteguccia da falegname
mentre la gravidanza procede. Però c’è
in ballo un censimento generale di tutti gli ebrei,
voluto dai padroni romani. Iosef è nativo di
Bet Lèhem; quindi bisognerà andare a registrarsi
là. Lui e lei, incinta di quasi nove mesi, viaggeranno
a dorso d’asino. Noi lettori la storia (sfumature
e/o digressioni a parte) la conosciamo benissimo. Eppure
De Luca è tanto bravo a rinarrarcela –
col lirismo mai retorico della sua prosa poetica, con
la felicità metaforica del suo originalissimo
registro stilistico, col tono sapienziale della sua
scrittura dagli accenti biblici, con l’espressività
rutilante/folgorante delle sue immagini e delle sue
splendide, icastiche ma pregnanti, descrizioni –
da farci prendere e da farci letteralmente catapultare
in questa vicenda stranota dal finale scontato (col
divin bambino che è partorito nella stalla fra
bue e asinello), quasi non avessimo mai saputo niente
di Maria; quasi non sapessimo, prima di leggerlo, che
Gesù nascerà proprio al termine di quel
viaggio a Betlemme.
Perché qui sta l’altro miracolo del racconto:
quello d’una altrettanto portentosa rievocazione
narrativa di un episodio evangelico notissimo che ritrova
una freschezza davvero inedita, certo non solo per le
licenze apocrife o per il taglio laico che De Luca dà
agli avvenimenti che precedono la nascita di Cristo.
In ogni caso la storia, nel complesso, è quella
tramandataci da Matteo e Luca. L’autore introduce
tuttavia (appena nasce il piccolo Ieshu) un finale inaspettato.
La pur piissima Miriàm dopo essersi rivolta al
suo bimbo – così “diverso”
dagli altri neonati – con un accorato saluto d’accoglienza
fra lo speranzoso e il timoroso, intona una preghiera
“alla rovescia” a Dio, pregandolo di non
reclamarlo almeno fino all’età di trent’anni
per qualche sua “missione”, di fare in modo
che Gesù non abbia ad occuparsi di politica,
“vada d’accordo coi Romani” e possa
diventare un falegname come il buon Giuseppe.
Alcuni forse storceranno il naso per questa invocazione
così poco canonica, trovandola non ortodossa
o peggio ancora blasfema. Io invece ritengo che la sottolineatura
di questa supplica/apprensione materna, dal tono struggente
e venato da una sottile ma profonda pietas,
restituisca Miriàm/Maria al consorzio umano,
facendola scendere dal piedistallo di quasi dea e presentandocela
come una figura meno celestiale ma più credibile.
Meno mitica e più mamma.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|