310 - 24.11.06


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Miriàm, pietas di una madre terrena

Francesco Roat



Erri De Luca,
In nome della madre,
Feltrinelli, pp.88, € 7,5


L’ultimo breve ma assai intenso testo narrativo di Erri De Luca fa parlare in prima persona la “ragazza madre” per antonomasia della tradizione religiosa occidentale: quella Miriàm che, prima di sposarsi col fidanzato Iosef, rimase incinta di un figlio, da lei chiamato poi Ieshu. Sì, intendo proprio riferirmi alla Madonna, per usare un appellativo caro alla sensibilità religiosa cristiana; nella fattispecie al mondo cattolico.
I vangeli di Matteo e di Luca parlano di una vergine che a Nazaret, grazie ad un intervento divino, concepisce il futuro Messia senza mai aver avuto rapporti né col suo uomo né con alcun altro. Si tratterebbe di evento miracoloso, dunque, quantomeno per chi crede ad esso. Ma non è già una sorta di miracolo lo stesso evento ordinario della gravidanza? Cioè il fatto che faccia la sua comparsa nel teatro del mondo un essere prima inesistente; Non è insomma prodigioso il fenomeno naturale in grado di consentire che possa “venire alla luce” (come eufemisticamente in antico era detto il nascere) una nuova vita?
Nel libretto di De Luca, comunque, il miracolo è dato per scontato, nel senso che Miriàm/Maria parla con la voce della fede di chi si situa già all’interno del paradigma dogmatico cristiano. L’annuncio angelico fa appena parte del prologo di questa storia, che inizia col mal di pancia del giovane Iosef/Giuseppe non appena viene a sapere come la sua promessa sposa aspetti un bambino di cui egli non è il padre.


Una storia umanissima nella quale vediamo un bravo ragazzo, sconvolto da un evento più grande di lui, alle prese in primo luogo con la spinosa faccenda di proteggere la reputazione della futura mamma, che rischiava di grosso a quei tempi, severissimi per quanto concerneva i rapporti prematrimoniali. Iosef vorrebbe inventare un’attenuante, convincere Miriàm a mentire dicendo agli anziani di essere stata violentata, ma lei non vuole: non gli importa né lo scandalo né gli insulti della gente. Il figlio che le cresce in grembo (sarà senz’altro un maschio, la ragazza ne è certa) le dà una forza e una serenità inaudite; tanto da contagiare il compagno a comportarsi come vuole/crede lei.
Così i due, a testa alta, fanno fronte alle difficoltà: si sposano e lui mette su una botteguccia da falegname mentre la gravidanza procede. Però c’è in ballo un censimento generale di tutti gli ebrei, voluto dai padroni romani. Iosef è nativo di Bet Lèhem; quindi bisognerà andare a registrarsi là. Lui e lei, incinta di quasi nove mesi, viaggeranno a dorso d’asino. Noi lettori la storia (sfumature e/o digressioni a parte) la conosciamo benissimo. Eppure De Luca è tanto bravo a rinarrarcela – col lirismo mai retorico della sua prosa poetica, con la felicità metaforica del suo originalissimo registro stilistico, col tono sapienziale della sua scrittura dagli accenti biblici, con l’espressività rutilante/folgorante delle sue immagini e delle sue splendide, icastiche ma pregnanti, descrizioni – da farci prendere e da farci letteralmente catapultare in questa vicenda stranota dal finale scontato (col divin bambino che è partorito nella stalla fra bue e asinello), quasi non avessimo mai saputo niente di Maria; quasi non sapessimo, prima di leggerlo, che Gesù nascerà proprio al termine di quel viaggio a Betlemme.


Perché qui sta l’altro miracolo del racconto: quello d’una altrettanto portentosa rievocazione narrativa di un episodio evangelico notissimo che ritrova una freschezza davvero inedita, certo non solo per le licenze apocrife o per il taglio laico che De Luca dà agli avvenimenti che precedono la nascita di Cristo. In ogni caso la storia, nel complesso, è quella tramandataci da Matteo e Luca. L’autore introduce tuttavia (appena nasce il piccolo Ieshu) un finale inaspettato. La pur piissima Miriàm dopo essersi rivolta al suo bimbo – così “diverso” dagli altri neonati – con un accorato saluto d’accoglienza fra lo speranzoso e il timoroso, intona una preghiera “alla rovescia” a Dio, pregandolo di non reclamarlo almeno fino all’età di trent’anni per qualche sua “missione”, di fare in modo che Gesù non abbia ad occuparsi di politica, “vada d’accordo coi Romani” e possa diventare un falegname come il buon Giuseppe.
Alcuni forse storceranno il naso per questa invocazione così poco canonica, trovandola non ortodossa o peggio ancora blasfema. Io invece ritengo che la sottolineatura di questa supplica/apprensione materna, dal tono struggente e venato da una sottile ma profonda pietas, restituisca Miriàm/Maria al consorzio umano, facendola scendere dal piedistallo di quasi dea e presentandocela come una figura meno celestiale ma più credibile. Meno mitica e più mamma.

 

 


 

 

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