“La
storia si ripete, ma come diceva Marx, se la prima volta
è tragedia la seconda è farsa”.
Mihály Kornis è uomo di teatro e numerosi
sono gli spettacoli che lo hanno reso noto in Ungheria,
prima come intellettuale dissidente durante il regime
comunista, poi come scrittore tra i più celebrati
del suo paese. Guarda a Budapest e descrive quel che
vede come una danza macabra, un carnevale nero che,
con il pretesto del cinquantenario della rivoluzione
del ’56, agita animi e folle. Ecco perché
oggi, chi vuole richiamarsi a cinquant’anni fa
per sobillare il popolo (come sta cercando di fare Viktor
Orban, leader dell’opposizione nazionalista) non
fa che mettere in scena una farsa che ha come scopo
la sola conquista del potere. Una farsa che prende forma
in una scenografia desolata, almeno così la descrive
Kornis, perché politici di opposte fazioni si
insultano e si accusano di corruzione, ma la verità
è che “ci sono dentro entrambi fino al
collo”. Nessuna speranza allora per uscire dalla
crisi? “Confrontiamoci con il nostro passato –
dice Kornis – raccontiamoci la nostra storia e
facciamo luce sulle menzogne che l’hanno costruita”.
Scontri di piazza, accuse di corruzione al
governo, ultimatum per le dimissioni. Che cosa sta accadendo
in Ungheria?
Provi a immaginare un contesto in cui una maggioranza
che ha vinto le elezioni succede a un governo dello
stesso partito, che però ha sfruttato le risorse
del paese a tal punto da lasciare in eredità
un buco drammatico nelle finanze pubbliche. Provi ora
a immaginare che il leader del governo attuale, in una
riunione interna al partito faccia un discorso dicendo
che negli ultimi anni di governo si sono dette un sacco
di bugie, e se vogliamo cambiare il corso politico-economico
dell’Ungheria bisogna cambiare radicalmente atteggiamento
verso gli elettori.
Immagini infine che questo discorso venga trafugato
dall’opposizione, che questa ne isoli e decontestualizzi
alcune frasi (quelle in cui si ammette di aver mentito
per anni) e le pubblicizzi con grande clamore.
E così, mentre il discorso del premier Gyurcsány
mirava in realtà alla necessità di cambiamento,
Viktor Orban, leader della destra nazional-populista,
vuole attivare una specie di rivoluzione morale che
utilizzi il cinquantenario del ’56 per accostare
i due momenti e dare credibilità morale alle
proprie operazioni populiste. Orban sta agitando animi
e fatti come in una danza macabra, ma come diceva Marx:
ciò che una volta è tragedia, la seconda
è farsa.
Gli elettori ungheresi avranno avuto la possibilità
di leggere il discorso integrale di Gyurcsány.
Come possono non cogliere il paradosso di un leader
messo sotto accusa proprio nel momento in cui vuole
voltare pagina?
Fino ad ora abbiamo parlato della cronaca politica,
ora proviamo a capire l’atmosfera culturale in
cui tutto ciò accade. L’elettore ungherese
è stato oppresso per un cinquantennio; tanto
la destra quanto la sinistra, con i loro rispettivi
leader politici, sono figlie della dittatura di velluto
di Kàdàr.
La tradizione politica del nostro paese vede molto spesso
la presenza di un potere forte e oppressivo, per evolvere
da questa tradizione la sinistra cerca di elaborare
una cultura progressista, ma la destra non è
in grado di costruire una cultura liberal conservatrice
e deve integrarsi con pensieri estremisti.
Il problema più grave sta nel fatto che il Partito
socialista (Mszp, attuale forza di governo) è
in un certo senso erede del partito di Kàdàr
che ha governato per circa 35 anni, dalla fine della
rivoluzione del ’56 fino alla caduta del blocco
sovietico dell’89. Questo vuol dire che c’è
una classe politica a sinistra, erede della dittatura,
che è riuscita a mettere in piedi dei capitali
con le privatizzazioni degli apparati statali degli
ultimi quindici anni. Quindi i due partiti non possono
farsi nessuna accusa reciproca, nessuno dei due può
dare del corrotto all’altro perché ci sono
dentro entrambi fino al collo.
In Ungheria c’è oggi una vera e propria
crisi morale che investe le élite, una decadenza
che coinvolge sia la destra che la sinistra e rende
agli occhi degli elettori la classe politica perfettamente
intercambiabile.
Eppure mi pare di notare che le manifestazioni
e gli scontri sono prodotti da poche centinaia di persone
le cui azioni sono forse amplificate dai media. La maggioranza
non è con Gyurcsány?
La maggioranza degli ungheresi vuole la calma, non vuole
nuove rivoluzioni; è dalla parte del governo,
ma ha imparato a tacere e fare buon viso a cattivo gioco.
In piazza ci sono solo gli estremisti che parlano a
voce molto alta cercando di mostrarsi all’opinione
pubblica internazionale, amplificati dalla tv di destra
che cerca di dimostrare che a Budapest sta nascendo
una rivoluzione, ma non è altro che un carnevale
nero.
Ad esempio, quando hanno occupato la sede della tv pubblica,
hanno rovinato attrezzature e macchinari provocando
danni per centinaia di milioni di fiorini, ma non hanno
toccato le macchinette del caffè, perché
dopo aver distrutto macchine da ripresa e di montaggio
non sapevano più che fare e passeggiavano bevendo
caffè. È stata una distruzione senza uno
scopo concreto.
Tra un po’ di tempo, però riusciremo a
capire davvero dove conduce questa situazione, riusciremo
a capire se la maggioranza della popolazione che ora
è silenziosa sarà stanca di sopportare
menzogne e soprusi e deciderà di accogliere una
forma di protesta. Viktor Orban è un politico
tenace e pericolosamente coraggioso, non ha nulla da
perdere sul piano politico e gioca al rialzo la sua
partita per affermare la più nazionalista delle
ideologie. Vuole dimostrare che l’Ungheria può
bastare a se stessa, che non ha bisogno dell’Unione
europea, che l’identità nazionale è
il valore supremo da rispettare, perseguire, difendere.
A tutti i costi. Allora si aprirà uno scenario
pericoloso.
D’altra parte Ferenc Gyurcsány, che i governi
stranieri e Amnesty International definiscono un politico
democratico, e che io in questo momento difendo, se
potesse mi annegherebbe in un bicchiere d’acqua
perché sono uno scrittore che prova a raccontare
la verità. In questo non è molto dissimile
al suo rivale; ma in un contesto ampio è il minore
dei mali.
Sta scrivendo un libro centrato sulla figura
di János Kádár, l’ultimo
dittatore ungherese, colui che dalla fine della rivoluzione
del ’56 governò fino all’89. Perché
tornare ai tempi della dittatura per scrivere un libro?
La storia ungherese è una storia tragica, o
almeno noi la viviamo in maniera tragica perché
anche le migliori intenzioni sfociano spesso, in Ungheria,
nell’esito peggiore.
Il libro che sto scrivendo tratta del periodo di Kádár,
un periodo che ha accumulato tante menzogne nella coscienza
di generazioni. Ora che sono passati un po’ di
anni è forse il momento opportuno per iniziare
a confrontarsi con il passato raccontantosi, raccontando
la propria storia e tutte le bugie che si conoscono;
molto spesso intere generazioni vivono nella menzogna
senza rendersene conto perché è questo
l’unico modo per rendere sopportabile una simile
condizione, ma dal momento che la nostra storia viene
a galla provocando sempre maggiori tensioni nella società,
forse parlandone e raccontandosi si riuscirà
ad uscire da questo labirinto.
Lei ha scelto di scrivere di un momento preciso.
Il suo libro prende in considerazione l’ultimo
discorso tenuto da Kádár in una riunione
del partito nel 1989 proprio mentre il regime stava
terminando ed era, in un certo senso, sotto processo.
Perché quel discorso? Perché proprio Kádár?
Kádár è stato un dittatore leninista
ma, tra tutti i politici del blocco socialista, è
stato l’unico che ha saputo parlare il linguaggio
della gente e che ha cercato di creare un socialismo
vivibile. Questo suo progetto però si è
fondato sulla condanna a morte e l’uccisione di
centinaia di persone e sull’imprigionamento di
migliaia di ungheresi. Era un politico con un grande
talento ma dal carattere debole; Magaret Thatcher lo
conosceva bene, era amico di Willy Brand, Helmut Schreder
lo considerava una persona intelligente; era cresciuto
da una famiglia proletaria senza istruzione ma aveva
una intelligenza molto viva.
Il discorso che analizzo nel mio libro, e da cui ho
tratto anche uno spettacolo teatrale, ha qualcosa di
intensamente drammatico. Kádár ha 78 anni,
molti rimorsi di coscienza, però nel fondo del
cuore pensa di essere l’ultima persona fedele
al comunismo di Lenin. Irrompe letteralmente in una
riunione interna del partito e di fronte a una platea
composta anche da molti giovani comunisti pronuncia
questo suo discorso che è una specie di arringa
di fronte alla corte. È il discorso di un uomo
anziano che combatte con la propria senilità,
con la capacità di ricordare e di confrontarsi
con il proprio passato; è il discorso di un uomo
che ha riconosciuto di essere stato sconfitto ma che
cerca comunque di dire la sua in un momento molto confuso,
è il discorso di chi, non più leader del
partito, pensa che gli stiano costruendo intorno un
processo farsa, proprio come quelli che allestiva lui
subito dopo la rivoluzione, e cerca di difendersi, di
ammettere la sua responsabilità nell’ottica
di un processo che lo vedrebbe sconfitto.
Che cosa rende attuale questo discorso nell’Ungheria
di Gyurcsány e Orban?
Oggi l’Ungheria è un paese in crisi, la
povertà è in crescita e cresce il divario
tra ricchi e poveri, la corruzione aumenta e la democrazia
mostra solo gli svantaggi della transizione, mentre
i benefici non si riescono ancora a vedere pienamente.
Oggi in Ungheria sono scontenti tutti, sia i sostenitori
della destra nazionalista, populista e antisemita, sia
gli elettori del governo.
Ora, nessuno tra i politici vede di buon occhio che
si presti attenzione a Kádár, perché
questo costringe l’attuale classe dirigente a
confrontarsi con le proprie responsabilità, a
guardare il loro passato, a riconoscere la propria eredità
che vede in Kádár il loro padre politico.
Kádár e Orban sono entrambi due ottimi
attori, il secondo dice oggi più o meno le stesse
cose che diceva il primo anni fa, solo che vuole proporsi
come erede di Imre Nagy.
Oggi in Ungheria non c’è bisogno di andare
a teatro per vedere un dramma: i due leader politici
danno vita a una messa in scena terribilmente presente,
solo che ora non si tratta di recitare di fonte a un
pubblico, ma di maneggiare la vita quotidiana delle
persone.
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