309 - 10.11.06


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Le donne, memoria
vivente di un popolo

Antonia Arslan con
Alessandra Spila



“Alle onde del mare che vengono e vanno già si affida questo popolo mite e laborioso. Nessuno in verità pensa che ritornerà alla propria casa: tutti già sentono, intorno, l’avidità degli altri, i compatrioti non segnati dal destino, quelli che sono della giusta razza e religione, e s’impossesseranno dei loro beni, dei campi e delle case, delle botteghe e dei frutteti opulenti. E tuttavia, dal cerchio maledetto riusciranno a sfuggire, ne sono certi; e le braccia salde, sostenute dagli animi coraggiosi, ricostruiranno altrove”.
(Antonia Arslan, “La masseria delle allodole”, Rizzoli)

A due anni di distanza dalla sua pubblicazione, La masseria delle allodole (Rizzoli) di Antonia Arslan, una delicata storia d’amore nel pieno dell’inferno del genocidio armeno, continua a riscuotere un grande successo. Di lettori e non solo: centomila copie vendute, molti premi letterari (tra cui il prestigioso Campiello), dieci edizioni e altrettante traduzioni. Ma anche un film dei fratelli Taviani in arrivo sul grande schermo.
Abbiamo incontrato l’autrice, protagonista dell’incontro “Terra d’Armenia: tra memoria e presente” organizzato dalla Società Geografica Italiana, per capire meglio le ragioni di tanto clamore. E per fare un’incursione nell’attualità: dal premio Nobel dello scrittore turco Pamuk alla Francia delle leggi contro il negazionismo armeno e di Chirac.

Antonia Arslan, durante l’incontro lei ha voluto ringraziare i lettori italiani per il grande calore che hanno riservato al suo libro e dunque per l’interesse espresso verso il genocidio armeno. Agli intellettuali rimprovera qualcosa?

A parte alcune eccezioni, gli intellettuali italiani sono spesso autoreferenziali. Non mi stupisce perciò che non abbiano riservato particolare attenzione al genocidio armeno. Tuttavia, sono state pubblicate ottime recensioni del mio libro, fin dalla sua uscita nell’aprile del 2004. Dai più importanti quotidiani alle riviste specializzate. E quando i giornali accolgono bene un libro, poi va bene, almeno per i primi tempi. Sta di fatto che il successo del romanzo è comunque andato oltre grazie al passaparola dei lettori: centomila copie vendute e dieci edizioni in pochi mesi. Oggi sono state fatte altrettante traduzioni, di cui una in giapponese. La masseria delle allodole è diventato anche un testo che tante scuole hanno deciso di adottare. E poi i premi: finora ne sono arrivati 15 nell’arco di appena un anno e mezzo. Ma aldilà di questi riconoscimenti che mi lusingano e di cui sono grata, quello che più mi fa piacere è l’attenzione spasmodica emersa negli incontri con il pubblico. Trovo che il pubblico italiano sia molto più intelligente e vivace di come spesso è definito, capace di interessarsi a tematiche come la questione del genocidio armeno.

E ai fratelli Taviani il suo romanzo è piaciuto tanto da farne un film.

Hanno letto il libro di loro iniziativa e l’hanno trovato interessante. Così hanno deciso di farne una trasposizione cinematografica e per girarla sono riusciti perfino a trovare una città in Bulgaria, Plodvin, che conserva ancora intatto un quartiere armeno. Il film è quasi finito, mancano pochi ritocchi al montaggio e l’uscita è prevista per Natale. Si tratta di una co-produzione italiana, francese, spagnola e bulgara. Hanno partecipato attori di vari paesi, tra cui Paz Vega.

Insomma, il genocidio armeno sta uscendo finalmente dal dimenticatoio della storia e finisce perfino sul grande schermo. Solo la roccaforte degli intellettuali rimane ancora distante da questa tragedia.

Molto del silenzio sul Mez Yeghèrn, il “grande male” come gli armeni definiscono la loro tragedia, è dovuto al fatto che è stato cancellato per sessant’anni. Negli ultimi dieci anni, però, la piccolissima comunità armena dispersa nel mondo si è sfidata nell’impresa di coinvolgere gli intellettuali affinché se ne parlasse. Io stessa ho realizzato col comune e l’università un convegno a Padova nel 2000. Abbiamo parlato di genocidio armeno ed ebraico.

In effetti molto spesso Shoah e Mez Yeghèrn sono stati associati. Quali sono i punti in comune e le differenze tra lo sterminio degli ebrei e quello degli armeni?

Quello che accomuna i destini di questi due popoli appartiene in sostanza alla questione del genocidio. Non si dimentichi che ad inventare questa parola è stato proprio un giurista ebreo polacco, fuggito negli Stati Uniti. Nel ‘44 Lemkin, questo era il suo nome, coniò il termine che viene spesso ed erroneamente considerato “antico”, viste le sue radici greco-latine. Ma in realtà la sua definizione appartiene al XX secolo. Per genocidio s’intende, infatti, “lo sterminio di una minoranza etnica da parte del governo della nazione all’interno della quale essa è collocata, con criteri di sistematicità e servendosi dei mezzi più moderni a disposizione”.
Ecco, questo è il genocidio: non una strage, una sommossa e tanto meno un progrom. Bensì, un atto deciso e portato a termine con freddezza. È importante ricordare che Lemkin, per spiegare quanto stava accadendo agli ebrei durante la seconda guerra mondiale, mette a punto questa definizione (che sarà adottata dall’Onu nel ’47) proprio in base a quanto già successo agli armeni. Esistono comunque specificità del caso armeno: in primo luogo la separazione netta del destino degli uomini e di quello delle donne. Se i primi sono stati uccisi subito, le seconde sono state eliminate più lentamente con la deportazione.

Alle donne armene è stato affidato il gravoso compito di preservare la memoria. Ci sono riuscite?

Direi proprio di sì. Le donne sono da sempre le detentrici della cultura di un popolo e delle sue tradizioni. Si pensi al cibo. Per molti armeni la diaspora è coincisa con la perdita della propria lingua, ma non del proprio cibo. Tutto ciò, grazie alla capacità di conservare e trasmettere, insita nel ruolo femminile.

Lei stessa ha scritto il suo romanzo raccogliendo i racconti orali sul genocidio. Sono racconti “femminili”?

Non solo femminili: i miei zii, sopravvissuti perché fuggiti dalla Turchia, hanno contribuito in modo significativo. Ma ciò non contraddice né sminuisce quanto affermato prima. Tanto più che le donne di cui parliamo, erano per lo più istruite, quasi mai analfabete. Molte perfino scrittrici, giornaliste, professoresse. Un dato straordinario, soprattutto agli inizi del Novecento.

Ed invece com’è la condizione turca attuale?

Nella Turchia di oggi esiste un solo manuale di storia per le scuole superiori. Un libro di Stato, che si guarda bene dal trattare la questione del genocidio armeno. Però le cose stanno cambiando. Esiste una società civile turca vivace e aperta, specie nelle grandi città come Istanbul e Ankara. Anche se non si può certo dire lo stesso dell’interno dell’Anatolia. Ma, in compenso, tutti sanno e l’interesse per il passato è in crescita. Mi sembra eroica, poi, la battaglia che alcuni editori e alcuni scrittori, protagonisti della cronaca più attuale, hanno intrapreso contro il negazionismo, pur rischiando il carcere per la cosiddetta offesa all’identità turca. Mi sembra esemplificativo il caso dell’editore Ragip Zarakolu che sta prendendo tempo per tradurre La masseria delle allodole, visto che oggi conta già sette processi pendenti. Penso anche a molti scrittori, come Fethyè Cetin, l’avvocatessa che ha scoperto che sua nonna era armena e ha deciso di farne un bellissimo libro che vorrei tanto far pubblicare in italiano. È la testimonianza di una delle tante bambine acquistate dai turchi durante la deportazione per essere sposate. Fu cambiato il loro nome e fatto silenzio sulla loro vera storia. Secondo alcune fonti, almeno un quarto dei turchi vanta una qualche discendenza armena, pur ignorandolo. Anche la scrittrice Elif Shafak ritiene che sia necessario ascoltare le nonne, non solo perché potrebbero essere armene, ma perché sanno come sono andate davvero le cose.

Ritiene che i giornalisti turchi siano meno coraggiosi degli scrittori?

Direi che sembrano meno documentati sulla questione. Forse hanno delle briglie più strette. O forse meno coraggio.

Negli ultimissimi giorni sembra impossibile non fare i conti con il genocidio armeno. Dal premio Nobel assegnato al turco Orhan Pamuk fino al caso della Francia dove l’assemblea nazionale votato una legge che condanna i negazionisti del genocidio armeno. E alla telefonata di Chirac che esprime il suo “rincrescimento” al premier turco Erdogan. Come commenta questi avvenimenti?

Direi prima di tutto che il governo turco si è mostrato molto freddo con Pamuk, proprio a causa del suo impegno per i diritti civili e per il riconoscimento del genocidio armeno. Di fatto, le logiche politiche dell’establishment sono riuscite ad oscurare un premio prestigioso come il Nobel. La legge francese, d’altra parte, sebbene ancora circoscritta al voto dell’assemblea nazionale che altre due sedi devono confermare, intende equiparare il genocidio armeno a quello ebraico. Una buona cosa, certo, soprattutto nel contesto di una nazione che ha già un’altra legge contro il negazionismo della Shoah. Ma io preferirei piuttosto che sempre più Stati riconoscessero che il genocidio armeno è realmente accaduto, anziché imporre per legge una punizione a chi lo nega. Sul reato d’opinione, insomma, non mi piace definirmi contraria, ma resto perplessa.
Di Chirac, infine, credo si possa parlare di un atto politico da ricondurre in un ambito più ampio. Esprimendo tutto il suo rincrescimento al premier Erdogan, ha agito essenzialmente per sedare gli animi. Proprio Chirac, infatti, compare sulla copertina di Nouvelles d’Armènie magazine, un grande mensile francese che l’ha intervistato in occasione della sua visita in Armenia per il quindicesimo anniversario dell’indipendenza della repubblica. Le sue parole sono chiare: “Anche se è un processo lungo e difficile, confido nelle capacità della Turchia di portare a termine il dovere della memoria perché fa parte della costituzione europea”.


 

 

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