“Alle
onde del mare che vengono e vanno già si affida
questo popolo mite e laborioso. Nessuno in verità
pensa che ritornerà alla propria casa: tutti
già sentono, intorno, l’avidità
degli altri, i compatrioti non segnati dal destino,
quelli che sono della giusta razza e religione, e s’impossesseranno
dei loro beni, dei campi e delle case, delle botteghe
e dei frutteti opulenti. E tuttavia, dal cerchio maledetto
riusciranno a sfuggire, ne sono certi; e le braccia
salde, sostenute dagli animi coraggiosi, ricostruiranno
altrove”.
(Antonia Arslan, “La masseria delle allodole”,
Rizzoli)
A due anni di distanza dalla sua pubblicazione, La
masseria delle allodole (Rizzoli) di Antonia Arslan,
una delicata storia d’amore nel pieno dell’inferno
del genocidio armeno, continua a riscuotere un grande
successo. Di lettori e non solo: centomila copie vendute,
molti premi letterari (tra cui il prestigioso Campiello),
dieci edizioni e altrettante traduzioni. Ma anche un
film dei fratelli Taviani in arrivo sul grande schermo.
Abbiamo incontrato l’autrice, protagonista dell’incontro
“Terra d’Armenia: tra memoria e presente”
organizzato dalla Società Geografica Italiana,
per capire meglio le ragioni di tanto clamore. E per
fare un’incursione nell’attualità:
dal premio Nobel dello scrittore turco Pamuk alla Francia
delle leggi contro il negazionismo armeno e di Chirac.
Antonia Arslan, durante l’incontro lei
ha voluto ringraziare i lettori italiani per il grande
calore che hanno riservato al suo libro e dunque per
l’interesse espresso verso il genocidio armeno.
Agli intellettuali rimprovera qualcosa?
A parte alcune eccezioni, gli intellettuali italiani
sono spesso autoreferenziali. Non mi stupisce perciò
che non abbiano riservato particolare attenzione al
genocidio armeno. Tuttavia, sono state pubblicate ottime
recensioni del mio libro, fin dalla sua uscita nell’aprile
del 2004. Dai più importanti quotidiani alle
riviste specializzate. E quando i giornali accolgono
bene un libro, poi va bene, almeno per i primi tempi.
Sta di fatto che il successo del romanzo è comunque
andato oltre grazie al passaparola dei lettori: centomila
copie vendute e dieci edizioni in pochi mesi. Oggi sono
state fatte altrettante traduzioni, di cui una in giapponese.
La masseria delle allodole è diventato
anche un testo che tante scuole hanno deciso di adottare.
E poi i premi: finora ne sono arrivati 15 nell’arco
di appena un anno e mezzo. Ma aldilà di questi
riconoscimenti che mi lusingano e di cui sono grata,
quello che più mi fa piacere è l’attenzione
spasmodica emersa negli incontri con il pubblico. Trovo
che il pubblico italiano sia molto più intelligente
e vivace di come spesso è definito, capace di
interessarsi a tematiche come la questione del genocidio
armeno.
E ai fratelli Taviani il suo romanzo è
piaciuto tanto da farne un film.
Hanno letto il libro di loro iniziativa e l’hanno
trovato interessante. Così hanno deciso di farne
una trasposizione cinematografica e per girarla sono
riusciti perfino a trovare una città in Bulgaria,
Plodvin, che conserva ancora intatto un quartiere armeno.
Il film è quasi finito, mancano pochi ritocchi
al montaggio e l’uscita è prevista per
Natale. Si tratta di una co-produzione italiana, francese,
spagnola e bulgara. Hanno partecipato attori di vari
paesi, tra cui Paz Vega.
Insomma, il genocidio armeno sta uscendo finalmente
dal dimenticatoio della storia e finisce perfino sul
grande schermo. Solo la roccaforte degli intellettuali
rimane ancora distante da questa tragedia.
Molto del silenzio sul Mez Yeghèrn, il “grande
male” come gli armeni definiscono la loro tragedia,
è dovuto al fatto che è stato cancellato
per sessant’anni. Negli ultimi dieci anni, però,
la piccolissima comunità armena dispersa nel
mondo si è sfidata nell’impresa di coinvolgere
gli intellettuali affinché se ne parlasse. Io
stessa ho realizzato col comune e l’università
un convegno a Padova nel 2000. Abbiamo parlato di genocidio
armeno ed ebraico.
In effetti molto spesso Shoah e Mez Yeghèrn
sono stati associati. Quali sono i punti in comune e
le differenze tra lo sterminio degli ebrei e quello
degli armeni?
Quello che accomuna i destini di questi due popoli
appartiene in sostanza alla questione del genocidio.
Non si dimentichi che ad inventare questa parola è
stato proprio un giurista ebreo polacco, fuggito negli
Stati Uniti. Nel ‘44 Lemkin, questo era il suo
nome, coniò il termine che viene spesso ed erroneamente
considerato “antico”, viste le sue radici
greco-latine. Ma in realtà la sua definizione
appartiene al XX secolo. Per genocidio s’intende,
infatti, “lo sterminio di una minoranza etnica
da parte del governo della nazione all’interno
della quale essa è collocata, con criteri di
sistematicità e servendosi dei mezzi più
moderni a disposizione”.
Ecco, questo è il genocidio: non una strage,
una sommossa e tanto meno un progrom. Bensì,
un atto deciso e portato a termine con freddezza. È
importante ricordare che Lemkin, per spiegare quanto
stava accadendo agli ebrei durante la seconda guerra
mondiale, mette a punto questa definizione (che sarà
adottata dall’Onu nel ’47) proprio in base
a quanto già successo agli armeni. Esistono comunque
specificità del caso armeno: in primo luogo la
separazione netta del destino degli uomini e di quello
delle donne. Se i primi sono stati uccisi subito, le
seconde sono state eliminate più lentamente con
la deportazione.
Alle donne armene è stato affidato il
gravoso compito di preservare la memoria. Ci sono riuscite?
Direi proprio di sì. Le donne sono da sempre
le detentrici della cultura di un popolo e delle sue
tradizioni. Si pensi al cibo. Per molti armeni la diaspora
è coincisa con la perdita della propria lingua,
ma non del proprio cibo. Tutto ciò, grazie alla
capacità di conservare e trasmettere, insita
nel ruolo femminile.
Lei stessa ha scritto il suo romanzo raccogliendo
i racconti orali sul genocidio. Sono racconti “femminili”?
Non solo femminili: i miei zii, sopravvissuti perché
fuggiti dalla Turchia, hanno contribuito in modo significativo.
Ma ciò non contraddice né sminuisce quanto
affermato prima. Tanto più che le donne di cui
parliamo, erano per lo più istruite, quasi mai
analfabete. Molte perfino scrittrici, giornaliste, professoresse.
Un dato straordinario, soprattutto agli inizi del Novecento.
Ed invece com’è la condizione
turca attuale?
Nella Turchia di oggi esiste un solo manuale di storia
per le scuole superiori. Un libro di Stato, che si guarda
bene dal trattare la questione del genocidio armeno.
Però le cose stanno cambiando. Esiste una società
civile turca vivace e aperta, specie nelle grandi città
come Istanbul e Ankara. Anche se non si può certo
dire lo stesso dell’interno dell’Anatolia.
Ma, in compenso, tutti sanno e l’interesse per
il passato è in crescita. Mi sembra eroica, poi,
la battaglia che alcuni editori e alcuni scrittori,
protagonisti della cronaca più attuale, hanno
intrapreso contro il negazionismo, pur rischiando il
carcere per la cosiddetta offesa all’identità
turca. Mi sembra esemplificativo il caso dell’editore
Ragip Zarakolu che sta prendendo tempo per tradurre
La masseria delle allodole, visto che oggi
conta già sette processi pendenti. Penso anche
a molti scrittori, come Fethyè Cetin, l’avvocatessa
che ha scoperto che sua nonna era armena e ha deciso
di farne un bellissimo libro che vorrei tanto far pubblicare
in italiano. È la testimonianza di una delle
tante bambine acquistate dai turchi durante la deportazione
per essere sposate. Fu cambiato il loro nome e fatto
silenzio sulla loro vera storia. Secondo alcune fonti,
almeno un quarto dei turchi vanta una qualche discendenza
armena, pur ignorandolo. Anche la scrittrice Elif Shafak
ritiene che sia necessario ascoltare le nonne, non solo
perché potrebbero essere armene, ma perché
sanno come sono andate davvero le cose.
Ritiene che i giornalisti turchi siano meno
coraggiosi degli scrittori?
Direi che sembrano meno documentati sulla questione.
Forse hanno delle briglie più strette. O forse
meno coraggio.
Negli ultimissimi giorni sembra impossibile
non fare i conti con il genocidio armeno. Dal premio
Nobel assegnato al turco Orhan Pamuk fino al caso della
Francia dove l’assemblea nazionale votato una
legge che condanna i negazionisti del genocidio armeno.
E alla telefonata di Chirac che esprime il suo “rincrescimento”
al premier turco Erdogan. Come commenta questi avvenimenti?
Direi prima di tutto che il governo turco si è
mostrato molto freddo con Pamuk, proprio a causa del
suo impegno per i diritti civili e per il riconoscimento
del genocidio armeno. Di fatto, le logiche politiche
dell’establishment sono riuscite ad oscurare un
premio prestigioso come il Nobel. La legge francese,
d’altra parte, sebbene ancora circoscritta al
voto dell’assemblea nazionale che altre due sedi
devono confermare, intende equiparare il genocidio armeno
a quello ebraico. Una buona cosa, certo, soprattutto
nel contesto di una nazione che ha già un’altra
legge contro il negazionismo della Shoah. Ma io preferirei
piuttosto che sempre più Stati riconoscessero
che il genocidio armeno è realmente accaduto,
anziché imporre per legge una punizione a chi
lo nega. Sul reato d’opinione, insomma, non mi
piace definirmi contraria, ma resto perplessa.
Di Chirac, infine, credo si possa parlare di un atto
politico da ricondurre in un ambito più ampio.
Esprimendo tutto il suo rincrescimento al premier Erdogan,
ha agito essenzialmente per sedare gli animi. Proprio
Chirac, infatti, compare sulla copertina di Nouvelles
d’Armènie magazine, un grande mensile
francese che l’ha intervistato in occasione della
sua visita in Armenia per il quindicesimo anniversario
dell’indipendenza della repubblica. Le sue parole
sono chiare: “Anche se è un processo lungo
e difficile, confido nelle capacità della Turchia
di portare a termine il dovere della memoria perché
fa parte della costituzione europea”.
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