Tratto
da Reset.
I cristiani, gli ebrei e i musulmani sono
forse cristiani ebrei e musulmani prima
di essere uomini?
Ah se trovassi un altro uomo che si
contenta di chiamarsi solamente uomo!
(Gotthold Ephraim Lessing, “Nathan il Saggio”)
L’idea che un dialogo fra uomini di diverse fedi
religiose e di diversa nazione sia possibile, che gli
uomini non siano obbligati a comportarsi quasi fosse
una dura “necessità naturale” come
lupi fra loro, che una convivenza non conflittuale si
possa fondare sull’idea e sulla pratica della
ragione umana e quindi sulla tolleranza, è fortunatamente
più antica delle parole di Nathan il Saggio e
precedente all’illuminismo, tempo nel quale noi
occidentali siamo abituati per pigrizia intellettuale
a situare ogni fondamento positivo di quel che chiamiamo
vivere civile, ragionevole e pacifico.
Anche uno storico del medioevo può offrire materia
di riflessione a favore della convivenza pacifica ed
esempi precisi di dialogo fra uomini di diverse fedi?
Credo di sì. Se è vero che “la politica
dello scontro globale è spesso vista come un
corollario delle divisioni religiose e culturali esistenti
nel mondo” (Amartya Sen), è chiaro che
questo avviene perché nell’intreccio di
identità multiple, a cui ogni individuo si riferisce,
quella religiosa per il suo carattere di assolutezza
è percepita malauguratamente in alcune epoche
più che in altre (la nostra è purtroppo
una di queste) come generatrice di fratture invalicabili
e conflitti.
A provocare nella cultura europea la ricerca del principio
della tolleranza è stato proprio il problema
dei conflitti fra le diverse religioni, ma questo avviene
nella storia dell’Occidente prima del secolo XVI
quando all’acme degli scontri Jean Bodin afferma
che solo la religione naturale è in grado di
eliminare le controversie dogmatiche proprie delle religioni
istituzionali e Grozio sostiene che le credenze della
religione naturale fondate sulla ragione umana sono
le sole veramente necessarie. Ci sono stati uomini che
pur vivendo in epoche segnate fortissimamente da una
identità religiosa – parlo dell’Europa
medievale – sono stati capaci di vedere “al
di là del fumo del proprio camino” e di
sollevarsi al di fuori dei segni di questa loro (non
rifiutata, anzi intensamente vissuta) identità
indicando uno spazio in cui sembra possibile dialogare
nella diversità? Certo: questo spazio è
stato chiamato, anche dagli uomini del passato, “ragione”
come quella qualità (“differenza specifica”)
che appartiene a tutti gli uomini.
L’immagine della religione che questi uomini
promuovevano possiede un carattere unitario tendente
a rimuovere o almeno a ridimensionare l’importanza
del comportamento esteriore e della ritualità
esaltando il vissuto interiore della religione.
Ho usato deliberatamente la parola “tolleranza
“ che è più antica dei testi di
Erasmo, Montaigne, Bodin e che – nonostante da
alcuni sia ritenuta poco adatta perché nel linguaggio
d’oggi il suo significato è sgradevolmente
simile a “sopportazione “ – possiede
una storia antica ed esemplare. Il termine tolleranza
infatti non indica, da Abelardo a Locke, un atteggiamento
pratico quanto piuttosto una convinzione solidamente
teorica. Alla tolleranza sono legate altre idee positive
e promotrici di pace, idee antiche, stoiche come la
fraternità e cristiane come l’amore fra
gli esseri umani.
È nota la favola dei tre anelli raccontata da
Filomena nella terza novella del primo giorno del Decameron
e attribuita a un “savissimo” Melchisedech
usuraio ebreo che risponde in questo modo alla domanda
del Saladino a proposito della verità delle Tre
Leggi, l’ebrea, la cristiana e la musulmana. Si
tratta di una “fabula” e il tema è
più antico della novella del Boccaccio e ripreso
anche in seguito: Boccaccio non usa la parola tolleranza
ma sono presenti alcune premesse necessarie. Un padre
di tre figli fa replicare un anello originario in due
altre copie indistinguibili: i tre anelli verranno affidati
al momento della sua morte ai tre eredi tutti e tre
persuasi di avere avuto dal padre il privilegio dell’unico
anello “vero”. Illusione benefica e pacificante.
Un altro testo latino, questa volta filosofico, precedente
al racconto del Boccaccio, noto purtroppo solo nella
cerchia dei medievisti, il Dialogo fra il filosofo,
il giudeo e il cristiano scritto nel XII secolo
da Pietro Abelardo, è assai significativo per
la nostra questione e sviluppa in profondità
il tema del “dialogo nella diversità”.
I personaggi raffigurano le tre religioni del Libro:
attraverso la figura del filosofo Abelardo rappresenta
il musulmano al quale attribuisce una specie di fede
nella “ragione naturale”. Va ricordato che
Abelardo vive appena prima dell’arrivo dei testi
greco-arabi in Occidente e può conoscere soltanto
le linee generali della nuova cul- tura che in pochi
decenni arriverà nelle scuole d’Europa
trasformandone il paradigma culturale, ma tende evidentemente
a immaginare il credente musulmano come un pensatore
più libero di quanto si sentisse lui, cristiano
e perseguitato.
Si è fatta da parte di alcuni studiosi l’ipotesi
che la persona del filosofo alluda al musulmano contemporaneo
di Abelardo, Avempace di Saragozza, commentatore di
Aristotele e cultore della ragione filosofica. Una figura
esemplare di pensatore credente nella fede della sua
gente ma non costretto entro un perimetro dogmatico
e soprattutto seguace delle regole della ragione. Sulla
scena, oltre l’ebreo e il cristiano, agisce un
quarto personaggio, il “giudice” che è
Abelardo stesso, giudice singolare che, più che
emettere sentenze, “vuol soprattutto capire e
imparare”. I tre “perplessi” (così
li vorrei chiamare con un termine maimonideo: tre credenti
che ricercano anche certezze razionali e filosofiche)
raggiungono il luogo d’incontro “attraverso
tre sentieri diversi ma convergenti “. È
questo un punto importante nella strategia del dialogo:
alla verità si può arrivare seguendo percorsi
differenti.
Alla prima parte dell’opera appartiene il dialogo
del filosofo con l’ebreo sviluppato in pagine
dense di compassione per lo stato miserando del popolo
eletto emarginato e perseguitato nei regni d’Europa:
è un atteggiamento che credo non si possa ritrovare
in nessun altra opera del medioevo cristiano. La comprensione
per l’altro è unita alla ricerca e al riconoscimento
della presenza di una “ragione ebraica”
anche nella osservanza più stretta, e solo apparentemente
superficiale, dei precetti.
Questo è il leitmotiv dell’opera
nel suo complesso: il filosofo afferma che la radice
del cristianesimo si ritrova nella filosofia antica
e nella rivelazione naturale della quale sono destinatari
tutti gli uomini, mentre il cristiano, che accanto a
sant’Agostino cita come autorità i pagani
Platone e Seneca, respinge la lettura materiale del
testo sacro e l’opaca insignificanza del rito
a favore della “intenzione del cuore”, elemento
che solo conferisce valore alle opere e alle preghiere.
La indicazione del valore primario della interiorità
religiosa rispetto alle opere e ai precetti mi pare
il risultato più significativo e utile anche
per noi oggi: su questa base unificante al di là
delle differenze di rito, regole e comportamenti, si
può tentare di trovare una intesa e una convergenza
di posizioni. Spogliato degli attributi antropomorfi
e storici necessariamente divergenti, il Dio cristiano
è visto soprattutto come unica fonte di Bene
e Verità al pari del Dio dell’Antico Testamento
ebraico e del Dio dell’islam disegnando una sorta
di teismo (molto prima di Voltaire!) al di sopra delle
diverse confessioni religiose.
Anche se il dialogo abelardiano è sicuramente
la trattazione più profonda e metodologicamente
più ricca non solo del suo secolo, dobbiamo riconoscere
che fortunatamente non è l’unica di quei
tempi che mira ad attenuare o superare le controversie
polemiche. Gilberto Crispino arcivescovo di Westminter
e allievo di Anselmo d’Aosta dialoga con un amico
ebreo sui temi della fede “con animo tollerante”;
nel Libro del gentile e i tre saggi di Raimondo Lullo
si confrontano con rispetto uomini di fede diversa e,
nonostante la conclusione scontata sulla superiorità
o perfectio della fede cristiana, il dialogo
procede nel clima di una tolleranza consapevole dell’importanza
del fine; Gugliemo d’Ockham non parla di tolleranza
ma pone le basi solide per una convivenza religiosa
affermando che “è possibile che Dio voglia
che colui che nella vita segue soltanto i dettami della
retta ragione, sia salvo e ottenga la vita eterna”
al pari del credente cristiano.
Alcuni di questi motivi ritornano nell’opera
del cardinale Nicola Cusano, nel Dialogo fra un
gentile e un cristiano sul Dio nascosto e in La pace
della fede dove l’autore dichiara che la
fede cristiana coincide con quella rivelazione che ha
raggiunto la mente di ogni uomo nel passato e nel presente,
ciò che rende possibile un sostanziale accordo
di tutte le religioni monoteiste al di là della
differenza di culto e precetti. C’è “un’unica
religione rivelata”, un’idea che porta alla
pacificazione delle fedi. I filosofi pagani vissuti
prima di Cristo annunciavano verità concordi
con quelle cristiane segnalando un nucleo universale
(la fede in un Dio unico e infinito) mentre le diversità
fra le confessioni religiose nascono solo dalle pratiche
esteriori (riti diversi o anche opere) o dalle “congetture”
ossia dai differenti linguaggi che derivano dalla libera
capacità di ogni uomo di avvicinarsi con continue
approssimazioni a Dio. La stessa Chiesa romana alla
quale il Cusano apparteneva come cardinale è
a suo parere una di queste comunità (ecclesia
congecturalis) che si avvicinano a Dio attraverso
continue congetture.
Difficile sopravvalutare idee del genere sostenute da
uomini capaci di non naufragare nello spirito del loro
tempo.
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