309 - 10.11.06


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Abelardo e Boccaccio,
maestri di tolleranza

Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri



Tratto da Reset.


I cristiani, gli ebrei e i musulmani sono
forse cristiani ebrei e musulmani prima
di essere uomini?
Ah se trovassi un altro uomo che si
contenta di chiamarsi solamente uomo!

(Gotthold Ephraim Lessing, “Nathan il Saggio”)


L’idea che un dialogo fra uomini di diverse fedi religiose e di diversa nazione sia possibile, che gli uomini non siano obbligati a comportarsi quasi fosse una dura “necessità naturale” come lupi fra loro, che una convivenza non conflittuale si possa fondare sull’idea e sulla pratica della ragione umana e quindi sulla tolleranza, è fortunatamente più antica delle parole di Nathan il Saggio e precedente all’illuminismo, tempo nel quale noi occidentali siamo abituati per pigrizia intellettuale a situare ogni fondamento positivo di quel che chiamiamo vivere civile, ragionevole e pacifico.

Anche uno storico del medioevo può offrire materia di riflessione a favore della convivenza pacifica ed esempi precisi di dialogo fra uomini di diverse fedi? Credo di sì. Se è vero che “la politica dello scontro globale è spesso vista come un corollario delle divisioni religiose e culturali esistenti nel mondo” (Amartya Sen), è chiaro che questo avviene perché nell’intreccio di identità multiple, a cui ogni individuo si riferisce, quella religiosa per il suo carattere di assolutezza è percepita malauguratamente in alcune epoche più che in altre (la nostra è purtroppo una di queste) come generatrice di fratture invalicabili e conflitti.

A provocare nella cultura europea la ricerca del principio della tolleranza è stato proprio il problema dei conflitti fra le diverse religioni, ma questo avviene nella storia dell’Occidente prima del secolo XVI quando all’acme degli scontri Jean Bodin afferma che solo la religione naturale è in grado di eliminare le controversie dogmatiche proprie delle religioni istituzionali e Grozio sostiene che le credenze della religione naturale fondate sulla ragione umana sono le sole veramente necessarie. Ci sono stati uomini che pur vivendo in epoche segnate fortissimamente da una identità religiosa – parlo dell’Europa medievale – sono stati capaci di vedere “al di là del fumo del proprio camino” e di sollevarsi al di fuori dei segni di questa loro (non rifiutata, anzi intensamente vissuta) identità indicando uno spazio in cui sembra possibile dialogare nella diversità? Certo: questo spazio è stato chiamato, anche dagli uomini del passato, “ragione” come quella qualità (“differenza specifica”) che appartiene a tutti gli uomini.

L’immagine della religione che questi uomini promuovevano possiede un carattere unitario tendente a rimuovere o almeno a ridimensionare l’importanza del comportamento esteriore e della ritualità esaltando il vissuto interiore della religione.

Ho usato deliberatamente la parola “tolleranza “ che è più antica dei testi di Erasmo, Montaigne, Bodin e che – nonostante da alcuni sia ritenuta poco adatta perché nel linguaggio d’oggi il suo significato è sgradevolmente simile a “sopportazione “ – possiede una storia antica ed esemplare. Il termine tolleranza infatti non indica, da Abelardo a Locke, un atteggiamento pratico quanto piuttosto una convinzione solidamente teorica. Alla tolleranza sono legate altre idee positive e promotrici di pace, idee antiche, stoiche come la fraternità e cristiane come l’amore fra gli esseri umani.

È nota la favola dei tre anelli raccontata da Filomena nella terza novella del primo giorno del Decameron e attribuita a un “savissimo” Melchisedech usuraio ebreo che risponde in questo modo alla domanda del Saladino a proposito della verità delle Tre Leggi, l’ebrea, la cristiana e la musulmana. Si tratta di una “fabula” e il tema è più antico della novella del Boccaccio e ripreso anche in seguito: Boccaccio non usa la parola tolleranza ma sono presenti alcune premesse necessarie. Un padre di tre figli fa replicare un anello originario in due altre copie indistinguibili: i tre anelli verranno affidati al momento della sua morte ai tre eredi tutti e tre persuasi di avere avuto dal padre il privilegio dell’unico anello “vero”. Illusione benefica e pacificante.

Un altro testo latino, questa volta filosofico, precedente al racconto del Boccaccio, noto purtroppo solo nella cerchia dei medievisti, il Dialogo fra il filosofo, il giudeo e il cristiano scritto nel XII secolo da Pietro Abelardo, è assai significativo per la nostra questione e sviluppa in profondità il tema del “dialogo nella diversità”.

I personaggi raffigurano le tre religioni del Libro: attraverso la figura del filosofo Abelardo rappresenta il musulmano al quale attribuisce una specie di fede nella “ragione naturale”. Va ricordato che Abelardo vive appena prima dell’arrivo dei testi greco-arabi in Occidente e può conoscere soltanto le linee generali della nuova cul- tura che in pochi decenni arriverà nelle scuole d’Europa trasformandone il paradigma culturale, ma tende evidentemente a immaginare il credente musulmano come un pensatore più libero di quanto si sentisse lui, cristiano e perseguitato.

Si è fatta da parte di alcuni studiosi l’ipotesi che la persona del filosofo alluda al musulmano contemporaneo di Abelardo, Avempace di Saragozza, commentatore di Aristotele e cultore della ragione filosofica. Una figura esemplare di pensatore credente nella fede della sua gente ma non costretto entro un perimetro dogmatico e soprattutto seguace delle regole della ragione. Sulla scena, oltre l’ebreo e il cristiano, agisce un quarto personaggio, il “giudice” che è Abelardo stesso, giudice singolare che, più che emettere sentenze, “vuol soprattutto capire e imparare”. I tre “perplessi” (così li vorrei chiamare con un termine maimonideo: tre credenti che ricercano anche certezze razionali e filosofiche) raggiungono il luogo d’incontro “attraverso tre sentieri diversi ma convergenti “. È questo un punto importante nella strategia del dialogo: alla verità si può arrivare seguendo percorsi differenti.

Alla prima parte dell’opera appartiene il dialogo del filosofo con l’ebreo sviluppato in pagine dense di compassione per lo stato miserando del popolo eletto emarginato e perseguitato nei regni d’Europa: è un atteggiamento che credo non si possa ritrovare in nessun altra opera del medioevo cristiano. La comprensione per l’altro è unita alla ricerca e al riconoscimento della presenza di una “ragione ebraica” anche nella osservanza più stretta, e solo apparentemente superficiale, dei precetti.

Questo è il leitmotiv dell’opera nel suo complesso: il filosofo afferma che la radice del cristianesimo si ritrova nella filosofia antica e nella rivelazione naturale della quale sono destinatari tutti gli uomini, mentre il cristiano, che accanto a sant’Agostino cita come autorità i pagani Platone e Seneca, respinge la lettura materiale del testo sacro e l’opaca insignificanza del rito a favore della “intenzione del cuore”, elemento che solo conferisce valore alle opere e alle preghiere. La indicazione del valore primario della interiorità religiosa rispetto alle opere e ai precetti mi pare il risultato più significativo e utile anche per noi oggi: su questa base unificante al di là delle differenze di rito, regole e comportamenti, si può tentare di trovare una intesa e una convergenza di posizioni. Spogliato degli attributi antropomorfi e storici necessariamente divergenti, il Dio cristiano è visto soprattutto come unica fonte di Bene e Verità al pari del Dio dell’Antico Testamento ebraico e del Dio dell’islam disegnando una sorta di teismo (molto prima di Voltaire!) al di sopra delle diverse confessioni religiose.

Anche se il dialogo abelardiano è sicuramente la trattazione più profonda e metodologicamente più ricca non solo del suo secolo, dobbiamo riconoscere che fortunatamente non è l’unica di quei tempi che mira ad attenuare o superare le controversie polemiche. Gilberto Crispino arcivescovo di Westminter e allievo di Anselmo d’Aosta dialoga con un amico ebreo sui temi della fede “con animo tollerante”; nel Libro del gentile e i tre saggi di Raimondo Lullo si confrontano con rispetto uomini di fede diversa e, nonostante la conclusione scontata sulla superiorità o perfectio della fede cristiana, il dialogo procede nel clima di una tolleranza consapevole dell’importanza del fine; Gugliemo d’Ockham non parla di tolleranza ma pone le basi solide per una convivenza religiosa affermando che “è possibile che Dio voglia che colui che nella vita segue soltanto i dettami della retta ragione, sia salvo e ottenga la vita eterna” al pari del credente cristiano.

Alcuni di questi motivi ritornano nell’opera del cardinale Nicola Cusano, nel Dialogo fra un gentile e un cristiano sul Dio nascosto e in La pace della fede dove l’autore dichiara che la fede cristiana coincide con quella rivelazione che ha raggiunto la mente di ogni uomo nel passato e nel presente, ciò che rende possibile un sostanziale accordo di tutte le religioni monoteiste al di là della differenza di culto e precetti. C’è “un’unica religione rivelata”, un’idea che porta alla pacificazione delle fedi. I filosofi pagani vissuti prima di Cristo annunciavano verità concordi con quelle cristiane segnalando un nucleo universale (la fede in un Dio unico e infinito) mentre le diversità fra le confessioni religiose nascono solo dalle pratiche esteriori (riti diversi o anche opere) o dalle “congetture” ossia dai differenti linguaggi che derivano dalla libera capacità di ogni uomo di avvicinarsi con continue approssimazioni a Dio. La stessa Chiesa romana alla quale il Cusano apparteneva come cardinale è a suo parere una di queste comunità (ecclesia congecturalis) che si avvicinano a Dio attraverso continue congetture.
Difficile sopravvalutare idee del genere sostenute da uomini capaci di non naufragare nello spirito del loro tempo.

 

 

 

 

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