Ohran
Pamuk è il premio Nobel per la letteratura 2006. Riproponiamo
qui uno scritto di Siegmund Ginzberg pubblicato nell'inserto
domenicale di Repubblica
il 18 dicembre 2005 in occasione dell'uscita del libro
dello scrittore turco "Istanbul. I ricordi e la città"
(Einaudi).
La mia Istanbul è la stessa di cui scrive Orhan
Pamuk nel suo ultimo libro: in bianco e nero. Solo,
se possibile, ancora più sfocata, “mossa”,
sgranata, pulviscolare, annebbiata, incerta nei contrasti,
nel confondersi di grigi e foschia delle fotografie
e altre illustrazioni che fanno di “Istanbul,
le memorie e la città” un libro forse unico
nel suo genere (un romanzo? Un’autobiografia?
Un saggio fotografico? In America l’ha pubblicato
Knopf, in Inghilterra Faber & Faber, in Italia sta
per uscire da Einaudi). Da leggere e da guardare, sfogliare.
Da gustare, mi verrebbe da dire, se un libro potesse
dare anche un senso degli odori e dei sapori (per me
il profumo salmastro del mare, quello acre dello smog
da carbone, le vernici per barche, quello della ciambella
al sesamo appena sfornata) e dei suoni (lo sferragliare
dei tram, le sirene delle navi che attraversano il Bosforo,
le grida dei venditori, il raglio struggente degli asini).
Sono nato a Istanbul qualche anno prima di lui. Lui
non l’ha mai lasciata. Noi l’abbiamo lasciata
su una nave nera, che avevo otto anni, dopo le sommosse
del 1955, che Pamuk ricorda nel libro. In quel caso
non ce l’avevano con gli armeni, non con i curdi
e nemmeno con gli ebrei, ma con i greci. Il negozio
di mio padre aveva comunque un nome che suonava “straniero”.
Non bastò che vi sventolasse una bandiera turca
(per anni poi tenemmo una bandiera italiana nel cassetto,
non si sa mai). Mio padre aveva “voglia d’Europa”.
L’ultima cosa che vorrei ancora vedere è
un’Europa che se la prende coi suoi stranieri.
“Parlate turco!”, ingiungeva lo slogan nazionalista.
Meglio: pensavo in turco. “È vostro figlio?
Non sembra”, dicevano ai miei, che tra di loro
parlavano in armeno o francese quando non volevano che
orecchiassi. L’ho dimenticato, tranne le parolacce
e i nomi del cibo.
Ma le poche foto di famiglia sono identiche a quelle
dei Pamuk. La sua Istanbul in bianco e nero l’ho
riconosciuta nei recessi della memoria. Quella di de
Nerval, Gautier, Flaubert, De Amicis, Loti, Melling,
Tampinar, Yahya Kemal – “La maggiore virtù
di Istanbul è come la città possa essere
vista sia da occhi occidentali che orientali”
– l’ho ritrovata in questi anni nei libri
(mi chiedo solo perché non citi Nazim Hikmet:
ancora non si può?).
Un po’ diversa la nostalgia, se si preferisce
la malinconia che evocano quelle immagini e quelle memorie.
“Hüzün” la chiama Pamuk, preferendo
mantenere anche nella traduzione inglese, da lui riveduta,
il termine turco che viene dal Corano, cui intitola
un intero capitolo. Non è angoscia, non è
tristezza, non è solo rimpianto, mancanza di
qualcuno o qualcosa di caro, o “lontananza da
Dio” come sostenevano i mistici. Non è
solo senso di solitudine, anche se resta per definizione
qualcosa di intimo, personale. Non è sofferenza,
anzi è uno stato di malessere che può
dare soddisfazioni, in cui ci si può crogiolare
provandone persino piacere. Ha forse affinità
col pianto, che non è la stessa cosa del dolore,
anzi lo addolcisce. Forse non c’entra, ma mi fa
venire in mente il particolare nodo in gola –
amaro, ma anche liberatorio – che sin da bambino
mi veniva non dalla soddisfazione di un torto, ma dalla
sensazione che fosse in qualche modo riconosciuto.
“Il mio punto di partenza è l’emozione
che può provare un bambino a guardare attraverso
una finestra madida di vapore. Ora cominciamo a comprendere
che hüzün non è solo la malinconia
di un individuo in solitudine ma può essere l’umore
nero condiviso da milioni di persone insieme. Quello
che sto cercando di spiegare è lo hüzün
di un’intera città: Istanbul”, è
il modo in cui lo scrittore riassume quel che si propone.
Non la malinconia di una città, ma il modo in
cui ciascuno, a modo suo, vi si riflette. “Parlo
delle sere in cui il sole tramonta presto, di padri
sotto i lampioni nei vicoli che tornano a casa con sacchetti
di plastica. Dei vecchi traghetti del Bosforo in stazioni
deserte nel mezzo dell’inverno… vecchi librai
che aspettano tutto il giorno che faccia la comparsa
un cliente; dei barbieri che si lamentano che la gente
non si sbarba più così spesso con la crisi
economica; di bambini che giocano al pallone tra le
auto in strade selciate; delle donne con i loro sacchetti
di plastica in remote stazioni di autobus in attesa
di un autobus che non arriva mai;… di sale da
tè affollate di disoccupati; di ruffiano pazienti…
in attesa di un ultimo turista ubriaco; della folla
che si affretta a prendere il traghetto nelle sere d’inverno;
degli edifici di legno dove ogni asse scricchiolava
anche quando erano magioni di pascià…;
delle donne che sbirciano tra le tende mentre aspettano
mariti che non rincasano sempre a notte tarda; di vecchi
che vendono libri religiosi, rosari nei cortili delle
moschee; di decine di migliaia di ingressi di case d’appartamento
identici, le facciate scolorite da sporco, ruggine,
cenere e polvere…; delle sirene delle navi nella
nebbia; … dei gabbiani appollaiati su zattere
incrostate di muschio e molluschi…; di sottili
nastri di fumo che si alzano dai comignoli nel giorno
più freddo dell’anno; … di coloro
che pescano dalle sponde del ponte di Galata; dell’odore
del fiato nei cinema che un tempo avevano soffitti dorati
e ora sono locali pornografici frequentati da uomini
che se ne vergognano; ….di muri coperti da manifesti
anneriti; dei vecchi e stanchi dolmus, Chevrolet anni
’50 che sarebbero pezzi da museo in qualsiasi
città occidentale, e qui servono da tassì
collettivi;… dei libri di storia in cui i bambini
leggono delle vittorie dell’Impero ottomano…”.
Così continua per molte pagine, tra le più
belle. Qualche pagina dopo confessa la tentazione di
evocare un’età dell’oro, un momento
splendente in cui la città era “in pace
con sé stessa” (quando i miei antenati
sefarditi vi vivevano in pace con turchi, musulmani,
cristiani, armeni, greci?), ma poi si sovviene di “amare
questa città non per la sua purezza, ma appunto
per la lamentevole assenza di essa”.
Sì, si potrebbero forse dire cose simili di
qualsiasi altra città d’Europa. Ma perché
ritrovo in questa nostalgia di Istanbul di Pamuk tanto
della Istanbul della mia infanzia? Non so nemmeno se
sia ancora così. Mi raccontano che è ormai
un ingorgo unico, tutto è sovrastato da un traffico
spaventoso di automobili. So che c’è anche
chi dice che “Istanbul non è la Turchia”.
Ma alla stessa stregua di potrebbe dire che “New
York non sono gli Stati Uniti”.
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