La Casa
editrice Adelphi, proseguendo nell’encomiabile
impegno di tradurre l’opera narrativa di Márai,
ha recentemente presentato ai lettori italiani un ennesimo
romanzo del grande scrittore ungherese scomparso nel
1989. Si tratta de La sorella, incentrato sul
tema della malattia come conseguenza/espressione di
un profondo malessere esistenziale e quale bivio doloroso
spalancato su due possibili percorsi: l’uno di
risanamento caratterizzato da una profonda metamorfosi/crescita;
l’altro di una più o meno sofferta stagnazione/involuzione
che, nei casi peggiori, può condurre sino all’exitus
terminale.
Per dirla in parole povere, la suggestiva tesi del
romanzo è che si finisce per incappare in una
seria patologia non tanto per colpa di questo o quel
germe infettivo, di questa o quella cellula impazzita,
ma in quanto malata è soprattutto la nostra vita
(la nostra anima); insano è il modo in cui gestiamo
(o non riusciamo a gestire) noi stessi e il rapporto
con gli altri e il mondo. Dunque: “Forse la malattia
è una condanna” – come fa dire Márai
al paziente protagonista de La sorella
– ossia la naturale punizione per non aver saputo
affrontare in modo equilibrato e consapevole un qualche
snodo critico della nostra parabola vitale. Tesi estremistica
e difficile da dimostrare, si dirà, nonostante
s’avvicini a quanto sostengono da tempo vari studiosi
di disturbi psicosomatici secondo i quali numerosissime
infermità sono il risultato di uno scorretto
modo di affrontare le situazioni; dipendono dal modo
in cui viviamo (male), insomma.
Ma non è questa la sede per avvallare o contestare
una tale concezione; torniamo piuttosto al romanzo che,
dopo una breve parentesi introduttiva, allo scopo di
presentarci il personaggio principale della vicenda
– un ex famoso pianista ormai allontanatosi per
sempre dalle sale da concerto – ci narra in prima
persona da parte di questi, attraverso una sorta di
diario/resoconto, la fatale malattia che l’ha
incredibilmente provato, trasformandolo in tutt’altro
uomo.
Da principio lo scenario è quello borghese,
tipico del Nostro. Siamo in Italia, negli anni a cavallo
fra le due guerre mondiali. L’allora noto concertista
ha appena finito la sua esibizione in una sala fiorentina
quando sopraggiunge un malore destinato a inaugurare
un calvario di sofferenza che sembra non debba più
venir meno. Quindi è l’ospedalizzazione,
con l’estenuante routine di prelievi, farmaci,
visite specialistiche e terapie mai risolutive; cui
si associa tutta l’ansia e l’impotenza di
chi si sente incapace di far fronte ad uno stato di
prostrazione psicofisica estrema e invalidante. Poi
sarà la volta della morfina: palliativo al quale
sempre con maggiore frequenza il protagonista ricorrerà
contro spasimi intollerabili, finendo per divenirne
succube.
E Márai è davvero psicologo sottile nel
descrivere l’angoscioso straniamento del musicista,
via via sempre più incapace di trovare un senso
in quel suo stare al mondo in balia d’un male
tanto subdolo quanto indecifrabile, che lo trasforma
in un Giobbe piagato senza fede in alcun dio salvifico.
Ma vi sono due eccentrici dottori ad assisterlo: il
“professore”, bella figura pietosa di medico,
e il suo assistente, che incarna in modo esemplare il
ruolo di guaritore ferito; ambedue sorta di moderni
sciamani (“la malattia non è altro che
un’offesa all’ordine cosmico”) intenti
a prendersi cura soprattutto dell’anima dei propri
malati, per risanare la quale “non è sufficiente
somministrare farmaci”. Affidandosi ad essi l’ormai
ex pianista inizierà a cogliere il suo stato
morboso come un’iniziazione ad un modo di vivere
altro, ad una diversa visione del mondo per cui ciò
che prima era per lui essenziale (la perfezione tecnica
nell’eseguire una partitura) diviene insignificante
e i vecchi valori cambiano di segno, ribaltandosi.
Così l’uomo, sempre più “convinto
che non si soffra inutilmente” e che la malattia
coaguli in dolore lo squilibrio dell’essere umano
inautentico, inizia a interrogare il proprio disagio
per coglierne la ragione. Lo affiancheranno,
in quel gravoso viaggio agli inferi d’un interiorità
lacerata, quattro figure femminili di suore-infermiere,
quattro “angeliche ruffiane” (i cui tanto
dissimili caratteri vengono descritti da Márai
con straordinario nitore narrativo) in grado di stimolarlo
a ritrovare se stesso e la voglia di tornare a vivere.
Con una scrittura allusiva, inquietante e a tratti
sottilmente esoterica, lo scrittore magiaro è
riuscito come quanti altri mai a calarci nell’universo
vischioso e opaco della sofferenza del corpo e della
psiche con una tensione/partecipazione che affascina
e sconcerta al contempo. La sorella si pone
però non solo come romanzo psicologico, ma quale
riflessione/meditazione intorno al senso del dolore
e dell’umana fragilità, invitando il lettore
a guardare a salute e malattia attraverso un’ottica
singolare ma per certi aspetti illuminante e condivisibile
secondo la quale, al di là di ogni analisi patologica
e di ogni valutazione clinica, “la vita diventa
un veleno se non crediamo in essa”.
Sándor Márai,
La sorella,
Adelphi,
pp.228, € 16,50.
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