Questo
testo è tratto dal catalogo della mostra “Teatro”,
di Andrea Aquilani, dal 4 al 28 ottobre 2006 presso
il Teatro India a Roma.
Non mi stanno proprio a sentire, non c’è
niente da fare, io parlo parlo e loro non mi stanno
a sentire, peggio che parlare al muro. È sempre
stato così, fin da quando ero piccolo. Mi saliva
una rabbia che mi faceva tremare tutto quanto, perché
è insopportabile non essere ascoltati. Mi rinchiudevo
nell’armadio della stanza in fondo al corridoio,
mi rannicchiavo in quello spazio minuscolo, tra l’odore
di naftalina e di lavanda, e d’altronde ero minuscolo
anch’io, però avevo un atroce bisogno che
qualcuno mi venisse a cercare, che aprisse le porte
di quel catafalco scuro di noce o di castagno, e dicesse
briccone mio, piccoletto adorato, qui ti sei ficcato?
E subito mi tirasse fuori coprendomi di rimproveri e
di baci. Io me ne stavo lì, nel buio pesto, come
dentro a un regalo ancora da scartare, come un diamante
in fondo a una miniera, e chiamavo, chiamavo, prima
piano, quasi mormorando, e poi sempre più forte:
mamma, vienimi a cercare, mamma, vieni a scoprirmi,
ti prego, mamma. E non veniva nessuno, se ne fregavano
di me, il fatto è questo, c’è poco
da fare, non mi consideravano proprio. E alla fine quel
buio mi faceva paura, perché nessuno esiste per
restare accucciato nelle tenebre di una scatola, sul
cumulo molle dei maglioni, con le giacche che strusciano
sulla testa. E anche a tavola le cose non andavano diversamente.
Loro parlavano delle faccende del mondo, della politica
e delle guerre e degli amici che si comportano male,
e anche dei soldi e del lavoro e della casa al mare
da prendere ad agosto, e io me ne stavo zitto e buono
da una parte. Ogni tanto provavo a dire la mia, perché
anche se uno è piccolo ha le sue opinioni, magari
non sulla politica, ma sul mare sì, e allora
dicevo che mi sarebbe piaciuto stare su una bella spiaggia
di sabbia bianca, con le palette e i secchielli e le
onde che sgretolano il castello: non mare di rocce,
mi raccomando, sabbia bianca, leggera, come quella che
scorre nelle clessidre e fa il tempo che passa. Ma loro
niente, quei due, mio padre e mia madre, se posso chiamarli
così, non mi tenevano in nessuna considerazione,
neppure giravano la testa dalla mia parte per sgridarmi,
che ne so, per dirmi stai zitto e mangia, ragazzino.
Che nervi brutti mi prendevano. E così non mangiavo
proprio niente, neanche un pezzo di pane, neppure una
pera o una mela di quelle che stavano nel cestello al
centro della tavola. Siete veramente due disgraziati,
pensavo. Non si tratta così un figlio che non
vi dà alcun problema, che non piagnucola e non
pianta grane come tutti i mocciosi del mondo. Ma questo
è stato il mio destino. A scuola pure è
andata così. Mi sedevo all’ultimo banco
e passavo l’anno a seguire con attenzione tutte
le lezioni, grammatica, geografia, storia dell’antica
Roma, religione, tutto. Secondo me ero il più
bravo della classe, perché sapevo la capitale
di ogni stato, gli affluenti del Po di destra e di sinistra,
i comandamenti e i peccati mortali, le tabelline a memoria
senza sbagliarne mai una, anche coi salti. Sei per sette
quarantadue, sei per nove cinquantaquattro. Alzavo la
mano per rispondere e la maestra interrogava un altro,
mi offrivo volontario e non venivo interrogato. E poi
l’aoristo e l’ablativo, le equazioni toste,
il genitivo sassone. Io le sapevo quelle cose, stampate
chiare in testa, e a volte, che strano, avevo l’impressione
di sapere tutto anche dei miei compagni e degli insegnanti
che stavano laggiù, oltre la cattedra: era come
se li vedessi da prima e da dopo, se conoscessi bene
da dove veniva la loro vita, e dove sarebbe andata a
finire, in un matrimonio, contro un muro, in America,
in ospedale. D’improvviso mi sembrava di conoscere
il numero delle foglie dell’albero in cortile,
e di sapere quando ognuna di loro sarebbe caduta a terra,
negli attimi infiniti di novembre. Non so se è
giusto, ma a volte avrei voluto raccontarle tutte le
cose che sapevo, che c’era un anellino d’oro
sopra il tetto della scuola e pensieri brutti nella
testa del mio compagno del banco davanti. Ma chi mi
sentiva? Chi aveva voglia di ascoltare quei segreti?
E allora me ne andavo al mare, quello di sabbia liscia
liscia, e osservavo i fidanzati che si tenevano abbracciati,
e si davano i baci sul collo e le carezze sconce, oppure
le donne che leggevano i libri, buttate da sole sull’asciugamano,
che giravano stancamente le pagine, o i ragazzini che
facevano piste per le biglie e si tuffavano di corsa
tra le onde, alzando schizzi e grida. Mi sarebbe piaciuto
sedermi accanto a ognuna di quelle vite e dire io sono
qui, non disturbo, magari parliamo un poco, giochiamo,
ci baciamo, magari ti racconto quello che so, che vedo,
ti dico come va a finire il libro che stai leggendo,
io lo so, oppure quest’amore che ti sembra eterno
e che durerà fino a settembre e non un giorno
di più. Ti parlo della bicicletta nuova e di
dove ti porterà, di tua madre che ha una brutta
tosse, di tuo padre che piange di nascosto. Ma nessuno
badava a me. Stavo nell’ombra di una cabina, mi
facevo scorrere la sabbia bianca tra le dita, tutto
questo tempo che se ne va, e mi sembrava di avere l’intera
spiaggia in mano, milioni e milioni di granelli di sabbia.
Mi facevo anche il bagno, nuotavo fino al largo, da
dove la spiaggia si vedeva tutta insieme, con la gente
che è come tante macchioline di colore che il
caldo stinge a poco a poco. E poi tornavo dove nessuno
mi stava aspettando, perché ognuno sta nei fatti
suoi, ha i suoi problemi, le gioie a cui si aggrappa
e non sta certo a spartire la sua vita con uno come
me, uno che non ce l’ha fatta a esistere veramente.
Perché mica tutti ce la fanno a venire fuori
dal nulla, ormai l’ho capito: posso chiamare quanto
voglio, battere i piedi, agitare le braccia come un
affogato, ma il mondo resta da una parte e io da un’altra,
tra le cose che non sono. Eppure mi sarebbe piaciuto
tanto esistere: anche se sento tante persone che maledicono
il giorno in cui sono nate, io ci sarei voluto stare
in questa vita, almeno per un po’ di anni, avere
una madre e un maestro, un amico e un cane, un amore
e un dolore, come voi che avete un corpo e tanti desideri.
Essere come voi che non sapete niente di quello che
sarà, anch’io andargli incontro un po’
per volta, come a qualcosa che mi spetta, che sta lì
per me, un’ora dopo l’altra, una manciata
di sabbia alla volta da tenere nel pugno e vedere frusciare
via piano piano, senza un perché.
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